Edda Cattani

La Candelora

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2 Febbraio  “LA CANDELORA”

 Buon Compleanno Elena!!!


            Il 2 Febbraio, nacque la mia  Elena e due anni dopo, il mio primo figlio maschio, di nome Marco, che volava via troppo presto e che oggi penso come un angelo protettore della mia famiglia. Tutti i miei figli, anche l’ultimo, Andrea, che se andò a 22 anni, sono nati in un giorno dedicato alla Madonna. Mi è stato perciò sempre caro questo anniversario legato alla profezia di Simeone.

Vediamolo insieme. Il Bambino aveva quaranta giorni quando fu portato nel Tempio dove lo ricevette il vecchio Simeone nelle sue braccia e gli apparve il futuro che comunicò a Maria: “ Vedi, questo Bambino è destinato ad essere causa e rovina di molti in  Israele e a diventare un segno di contraddizione. A te stessa una spada trafiggerà l’anima!”. (Lc 2,34-35).

Pensiamo a quello che avrà provato Maria che fin dall’inizio della vita del suo bambino, ha sofferto per la profanazione della giustizia, per l’amore offeso di Suo Figlio. Anche noi abbiamo pianto per leggi violate, per il nostro amore calpestato, per la nostra sventura, per la morte dei nostri cari. Vediamo di fare come Maria, il cui dolore fu fecondo, perché santo. Il mondo e l’umanità, in quest’epoca di contraddizioni viene redento anche attraverso la nostra sofferenza ed il nostro dolore sarà fecondo se si tramuterà nell’amore per il prossimo, nella compassione per la miseria degli altri, nella sofferenza per la giustizia e l’onestà. Non ci sarà nulla di amaro e terribile allora, ma qualcosa di straordinaria dolcezza.

Noi accenderemo i nostri ceri benedetti e, per ogni luce, pensiamo ai nostri Cari, Luce radiosa di conforto, di speranza e d’amore.

Oggi Elena è una donna, una piccola grande madre anche lei … Ho fermato questa istantanea sul cellulare e ne ho fatto un quadretto perché mi dava l’idea di una “madonnina”. Ora Elena sa cosa vuol dire essere “mamma”. Questa parola magica che si attende pronunciare dalle labbra del proprio piccolo quando inizia a balbettare, le fa tremare il cuore ogni qualvolta lo raggiunge all’uscita dalla scuola ed io rivivo con lei gli stessi passi, le tante notti insonni, le prime parole scritte, le dolci attese, le prime inquietudini … La storia si ripete dalla nascita e ancora e ancora … perché le mamme ci sono, restano e rimarranno nel  presente, nel soccorso e nella memoria.

 LA MADONNA DELLA CANDELORA

 

La Candelora ha origine nel bacino del Mar Mediterraneo, come per Imloc e i Lupercalia anche la Candelora è la celebrazione dell’arrivo della Luce, della purificazione, della rinascita e la fertilità.
Inizialmente era celebrata il 14 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo l’Epifania ma, successivamente fu spostata al 2 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo il Natale.
Infatti la Candelora commemora la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria.
Era usanza ebraica che i bambini maschi fossero presentati e circoncisi al Tempio 40 giorni dopo la nascita, nella stessa occasione le madri erano purificate dal sague che le aveva tenute impure dopo il parto.

Si racconta che quando il bambino Gesù fu presentato al vecchio Simeone questi lo abbia chiamato luce per illuminare le genti.
Per questo motivo, il giorno della Candelora è usanza benedire le candele e i ceri che saranno adoperati durante l’anno nelle liturgie o per le offerte in chiesa o a casa propria.

 

Madonna della Candelora: opera della prima metà del Cinquecento.

(CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE – TOCCO DA CASAURIA – PE)

“Statua di legno, alta m.1,45. Rappresenta la Madonna della Candelora.  E’ seduta con le mani giunte e col Bambino ignudo sulle ginocchia , il quale,  col braccio sinistro, si appoggia a un cuscino ed ha la mano destra elevata, in atto di benedire. La scultura è dipinta. L’abito della Madonna è rosso, il fazzoletto che le copre il capo è giallo ed il manto che copre tutta la persona  è turchino con doratura nell’orlo. Ovale il viso della Madonna  ed anche del Bambino. Chi studia le diverse fasi dell’arte anche nei paesi remoti, non può trascurare l’opera di questo autore a me ignoto. Sta in una nicchia scavata nella parete a destra della stessa chiesa. La sua ubicazione non pare che sia originaria. E’ ben conservata. E’ opera del cinquecento inoltrato, la quale non pare sia stata presa in considerazione”.

 L’inquadramento prospettico della statua lignea  della Madonna della Candelora  in trono è una creazione artistica realizzata  a scopo devozionale. P.S. Iovenitti ne precisa molto bene tale funzione indicando che veniva  esposta il 2 febbraio giorno della purificazione della Madonna e, con benedizione e distribuzione di candele, lo stesso giorno, in penitenziale processione, la Madonna veniva portata dalla chiesa della Madonna delle Grazie a quella di S. Eustachio. La festa della Purificazione aveva particolare importanza per quelle donne che, desiderose di  prole, imploravano l’intercessione della Vergine. Le candele benedette erano apposte sia presso il letto, sia alle finestre la sera in segno di devozione e di protezione.

Tradizioni e proverbi

«Per la candlora, o ch’u piov o ch’u neva da l’inveren a sem fora; ma s’un piov, quaranta dè dl’inveren avem ancora.
(Per la Candelora, se piove o nevica, dall’inverno siamo fuori; ma se non piove, abbiamo ancora quaranta giorni di inverno.)
»

Antico Proverbio


Candelora

 

Presentazione di Gesù al Tampio – Fra Angelico
San Marco

La presentazione di Gesù al Tempio è il simbolo della Luce che ormai si presenta al mondo, la vittoria della luce sulle tenebre è fuori da ogni dubbio, cosí come è ormai evidente che le ore di luce aumentano di giorno in giorno. La vittoria della luce e l’approssimarsi del periodo luminoso è in questo mito sottolineata dalle parole del vecchio Simeone che rappresenta appunto l’inverno, il vecchio, il passato che annuncia il nuovo.

La purificazione di Maria dopo il parto è un chiaro riferimento alla fertilità ma anche al ritorno della madre Terra. Presso gli Ebrei, infatti, era usanza che nei 40 giorni precedenti la purificazione la madre e suo figlio vivessero isolati.
Con la purificazione Maria torna alle genti, torna al mondo dopo l’isolamento nella grotta-ventre-oltremondo. La verginità di Maria, nonostante la sua maternità, rappresenta la purezza della Madre Terra che ancora non conosce dolore e brutture, non conosce il superfluo, la civetteria, la cattiveria, non conosce né il bene né il male; ella conosce solo l’amore, un amore infinito, sconcertante, terribile e meraviglioso che feconda ogni cosa, che genera ogni cosa solo esistendo. Ama poiché non conosce altro modo d’essere, non può essere diversamente. Ella non fa mai del bene a nessuno, non fa mai del male a nessuno, ella Ama, costantemente.

Candelora – Festa di Mezzo Inverno!

La Candelora è una ricorrenza conosciuta in tutto il mondo e celebrata persino negli Stati Uniti. Ovunque la si festeggi e comunque la si chiami fin dalla Notte dei Tempi l’1 Febbraio è considerato il giorno in cui il Sole ritorna a vivere, la Terra torna giovane e fertile.
Le diverse celebrazioni della festa hanno tutte le stessa funzione, quella di prevedere l’esatto arrivo della Primavera attraverso l’interpretazione dei comportamenti degli animali e delle forze della Natura.

LA CANDELORA
di Justine Bellavita

         La Candelora, ricorda il rito di purificazione che la Vergine Maria seguì dopo aver dato alla luce Gesù Cristo, in conformità con la legge mosaica. Nel Levitico è infatti prescritto che ogni madre, che avesse dato alla luce un figlio maschio, sarebbe stata considerata impura per sette giorni, e che per altri trentatré non avrebbe dovuto partecipare a qualsiasi forma di culto. La commemorazione del rituale di purificazione, effettuato da Maria Vergine, dal Vicino Oriente passò a Roma, e, già dal VIII secolo d.C., la festa aveva raggiunto una solennità imponente. A Roma, nel Medioevo, si compiva una lunghissima processione che partiva da Sant’Adriano e attraversava i fori di Nerva e di Traiano, attraverso il colle Esquilino, per raggiungere infine la basilica di Santa Maria Maggiore. In tempi più recenti, la processione si accorciò, svolgendosi intorno alla Basilica di San Pietro. In quell’occasione, all’interno della Basilica, sull’altare venivano poste delle candele, con un fiocco di seta rosso e argento, e con lo stemma papale. Erano scelte tre di queste e la più piccola era consegnata al Papa, mentre le altre due andavano al diacono e al suddiacono ufficiali. Una volta benedetti i ceri, il Papa consegnava la sua candela al cameriere segreto, insieme con il paramano di seta bianca, che gli era servito per proteggersi le mani dalla cera calda, e passava alla benedizione dei ceri.

In molte regioni italiane la Candelora viene ancora oggi rievocata attraverso la messa in scena della Madonna con Gesù e San Simeone. A Chiaromonte, in Sicilia, alla vigilia della festa, le donne del paese effettuavano una processione che le portava in cima alla montagna dove si purificavano bagnandosi con la rugiada. Nel resto d’Italia, la festa della Candelora resta legata ai ceri benedertti. Questi ceri vengono custoditi nelle case, e si ritiene tengano lontani gli influssi maligni. In alcuni paesi costieri si riteneva che i ceri benedetti la Candelora servissero a ritrovare gli annegati. Gettati nell’acqua si sarebbero fermati dove si trovava il corpo dell’annegato.

          

Edda CattaniLa Candelora
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Dal diario di un malato.

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Dal diario di un malato

Tutto me stesso prima di morire.

Un gentile navigatore del nostro sito che sempre porge un erudito contributo alle nostre modeste pagine, mi ha inviato un capitolo tratto da un libro del giornalista Carlo Massa. L’autore muore il 19 agosto 2007 e le ultime note sono del 16. Quando il tumore si fa davvero “ingombrante”, l’autore decide di scrivere di questo “ingombro”, di raccontare sia i nudi fatti (gli ospedali, i medici, le cure), sia la vicenda interiore fatta di speranze e di paure, d”indignazione e di riflessione sulla figura e sul trattamento del “paziente”. Nel tempo, questi temi restano sullo sfondo e viene sempre più in primo piano l’interrogazione della morte e della malattia, come problemi esistenziali, e la relazione con l’altro e con se stessi, come palestra dove fino all’ultimo è doveroso, opportuno, significativo esercitarsi. Forte è il richiamo etico: di come si debba, si possa, si cerchi di vivere e morire secondo un’etica forte, densa di valori e di stoicismo.

Ringrazio P.V. per questo prezioso inserto che pubblico con emozione e gradimento, in quanto tanti sono stati gli spunti per meditare sul mio percorso, sulla realtà della vita e della morte, e come dalla sofferenza possa nascere il grande bisogno di “amare”.

La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravedere la morte. Essa può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sè, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma può anche rendere la persona più  matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che è essenziale e far tornare la persona a Dio, il solo che può guarirla da tutto.

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Ho paura, sono felice. Sono felice, ho paura. L’una cosa marcia di pari passo con l’altra.

È anche in qual­che modo visibile fisicamente. Da una parte la Bestia avanza, silenziosa e sotterranea – in buona parte sot­tocute come una talpa maligna che scava notte e gior­no, colpisce improvvisa, provoca danni più o meno rovinosi. Ho perso l’occhio e l’orecchio sinistri e sen­to che fra non molto, se non cambia qualcosa, toc­cherà al braccio. Dall’altra parte, l’appetito da tempo è tornato, mangio, provo un piacere infantile nel buon cibo, ho ripreso a passeggiare, godo dell’aria, degli alberi, del verso degli uccelli, della terra dei parchi che calpesto, dell’odore della pioggia.

Godo degli altri, specie di quelli che, standomi più vicini, mostrano attenzioni che mi riscaldano e che provocano anche in loro dei cambiamenti.

Sono loro grato perché non c’è pietismo, non c’è retorica, non c’è nessuna gara di buoni sentimenti. Tant’è che la vita continua anche con i fastidi quotidiani, con le piccole incomprensioni, con gli scontri attorno ai vecchi motivi del contendere che, in qual­che modo, mi danno la rassicurante conferma di non essere stato isolato sotto una campana di vetro.

Godo di tutto questo come di una scoperta, come di un nuovo inizio, pur sapendo che è una fine.

Com’è possibile che ciò avvenga? Non lo so e mi limito a constatarlo. Mi limito a rimanere aderente alla mia esperienza, senza tentare di razionalizzare né dì teorizzare niente. Sento semplicemente che il mio corpo e la mia mente sono campo di battaglia di due opposte forze che, poi, opposte forse non sono ma, semplicemente le facce della stessa medaglia. Diffici­le da accettare ma è così.

Mi viene spesso in niente l’immagine dì un film che ho già precedentemente citato e che, più passa il tempo, più mi appare come una metafora perfetta della mia condizione: la partita a scacchi che il cava­liere al ritorno dalle crociate ingaggia con la morte, nel Settimo sigillo di Bergman. L’uomo sa che per­derà, ma tenta ugualmente, chiedendo al suo avver­sario, in caso di vittoria, una semplice dilazione per avere il tempo di rivedere la donna amata. In realtà è il tempo stesso della partita il gioco degli scacchi, si sa, può anche durare molto a lungo per legittime pause – a concedere al cavaliere ciò che vuole. In una notte di orrore e di magia riscoprirà che l’unico sen­so che offre la vita è l’amore. L’amore tra esseri uma­ni e per la natura, con il mistero che sottende. Que­sta scoperta o ri-scoperta fa in realtà di lui il vincito­re della partita.

Anch’io sono impegnato in una lunga partita a scacchi, anch’io so di perdere, ma, avendo accettato di giocarla, sto scoprendo l’amore così come non mi era mai capitato prima. Un amore di cui mi viene continuamente di parlare perché mi sembra che ri­vesta caratteristiche nuove e per me sconosciute. Un amore che, giorno dopo giorno, cresce attorno a me, suscitato anche da una mia attenzione per gli al­tri che non è mai stata così forte. Un amore che ge­nera amore, al di là della paura e della morte o for­se proprio perché tutte le persone che mi amano ti­fano per me in questa partita, iniziando a compren­dere che la vera posta in gioco non è la mia soprav­vivenza fisica.

Da qui e solo da qui scaturisce la forza che mi aiu­ta a combattere la paura, una paura che non si può mai sconfiggere una volta per sempre e che, quando meno me l’aspetto, mi afferra alla gola. E questa for­za che cresce anch’essa parallela, sempre più produ­ce gioia perché mi allontana dall’incubo nel quale sa­rei immerso se non avessi trovato queste risorse.

L’incubo che vedo vivere ad altri compagni di strada più sfortunati.

Mi lascio andare alla corrente, per così dire, alla corrente nella quale confluisce il mio istinto vitale e che mi suggerisce di non oppormi a qualcosa che ap­pare ineluttabile, perché il dolore nasce essenzial­mente dalla non accettazione, dalla recriminazione, dalla rabbiosa rivolta dell’io che tende a non vedere limiti all’appagamento dei propri desideri e bisogni.

Quante volte nel corso della vita ho remato con­tro, facendomi del male e adesso mi appare improv­visamente liberatoria questa mia nuova visione delle cose. Il fiume che va verso il mare ed io con esso. Non voglio sottraimi ad un inevitabile ciclo in cui i binomi si incontrano e si fondono, dolore e gioia, vi­ta e morte. Tutto qua.

Suggestioni poetiche di una mente che “vuole”, che “deve” trovare pace, per non farsi travolgere dal­l’angoscia e dall’orrore? Tutto è possibile, natural­mente, per chi si esercita come me da tanto tempo a stare in guardia contro le suggestioni, le mistificazio­ni e i deliri della mente. Tutto è possibile quando, in qualche modo, c’è “convenienza” a pensare una cosa piuttosto che un’altra. Quando, principalmente, non c’è autorità esterna a fornire appoggio o conferma.

Eppure una sorta di istinto vitale, una voce che parte dal profondo, una voce che rispecchia una “sua” verità mi suggerisce dì andare avanti così, di seguire con calma e con serenità ciò che il cuore, pri­ma della mente, mi suggerisce. Confido nel fatto, tut­to umano, di essere stato riconosciuto sino ad oggi come intellettualmente onesto. È sufficiente, non è sufficiente? Me Io farò bastare.

Riflettevo in questi giorni sul fatto che il cortisone

che mi stanno somministrando e che è alla base della mia “rinascita” fisica ha, come tutti Ì medicinali, del­le pesanti controindicazioni. Si può fare finché i van­taggi superano gli svantaggi, mi ha spiegato il mio buon medico. Ma non è così per ogni cosa della vita? Non hanno tutte le cose belle sempre delle “con­troindicazioni”? Che forse l’amore stesso di una ma­dre – per dire il massimo della bellezza e della dedi­zione – non ne ha? E, se così accade per tutto ciò che ci circonda, non ci sarà in questo un significato profondo da cogliere e sul quale riflettere?

Questa mia lotta quotidiana contro il dolore e le menomazioni che avanzano, contro la paura che tut­to ciò provoca, contro la morte, in definitiva, che diventa un’immagine sempre più concreta, rafforza in me la capacità e la voglia di resistere. L’amore che ve­do negli occhi, prima ancora che nelle parole, di chi mi sta vicino, si trasforma lentamente in gioia e, a tratti, inspiegabilmente, in allegria. In paradossale voglia di giocare, di lasciarmi andare, di far emergere quell’io-bambino soffocato da anni di “maturità” e che adesso, timidamente e con imbarazzo, bussa alla porta.

Qualche sera fa, mentre ero già a letto e mia figlia mi consolava per un improvviso attacco di dolore, ho visto nei suoi occhi un sorriso diverso dal solito. Un sorriso se­reno e tranquillo di chi ha intuito che ce la facevo a vin­cere quel momento e che, per questo, era felice.

Vivo, insomma. Essendomi adattato anche stavol­ta alle nuove botte, ai nuovi colpi di catapulta – per continuare nella metafora della fortezza assediata –che mi stanno smantellando pezzo a pezzo.

Vivo anche e sempre con la curiosità delle fron­tiere che continuamente sono costretto ad attraversa­re in una geografia del dolore e della paura che non avrei creduto possibile affrontare.

La prua di una nave che scompare sotto ondate di schiuma in un mare affollato di giganteschi iceberg, un gruppo di inuit siberiani che si intravedono dietro a una montagna di aringhe, cavalli ai galoppo in una nuvola di polvere, un raggio di sole carico di pulvi­scolo che fende l’ombra di un vicolo della vecchia Istanbul, un bambino che mi osserva dietro un vetro rigato dalla pioggia, immagini, frammenti di immagi­ni che si mescolano a una fitta di dolore, a un mo­mento di paura. La malattia è per me anche questo, un frequente contrappunto tra ciò che il mio vissuto mi offre di bello e di vitale e la negatività che mi si ro­vescia contro, in un assalto sempre più serrato. È come se, nel momento in cui il mio essere rischia di es­sere travolto dalla sua fragilità, gli venisse in soccor­so con queste immagini la sua parte onirica. Quella parte di sogno-avventura che, in un periodo della mia vita, sono riuscito a realizzare. Quel sogno che ha risvegliato ogni volta il mio io-bambino: la molla principale per rispondere all’insorgere della malattia con la scrittura. Scrittura terapeutica senz’altro, per­ché senza di essa non sarei riuscito a vivere bene que­sti ultimi anni e a fare il percorso che credo di aver fatto. Ed è così che mi viene da pensare, con emozio­ne, che dal sogno di un bambino ormai alle soglie della morte si è dipanato un filo lungo una vita che ha prodotto realtà capaci di contrastarla.

Avevo lasciato da qualche giorno queste pagine per tornarci ancora sopra, quando la situazione è ul­teriormente peggiorata. Tanto da rendere consiglia­bile un breve ricovero all ‘hospìce dove mi curano amorevolmente. Oltre ad essermi indebolito tanto da fare molta fatica nel sollevarmi da solo, oggi la bocca mi si è ulteriormente chiusa. Faccio sempre più fati­ca a mangiare e, quindi, anche a parlare. Ma la voglia di scrivere non mi abbandona e vorrei testimoniarla finché è possibile. Perché è in questo scrivere il mio conforto e la mia forza, la sicurezza di sapere che non resterò veramente solo finché sarò in grado di comu­nicare. Il peggio è tutto avanti a me e allora ho biso­gno di pensare alle persone a me care che mi stanno intorno perché è da loro che nasce in definitiva il nu­trimento della mia scrittura. Da mio figlio che a giorni si laurea, da mia figlia che ha finito oggi la sua ses­sione estiva di esami, dalla mia ex-compagna che mi sta vicino e mi legge con amore un libro, dalla mia ex- moglie che mi ha riempito il freezer con i suoi buoni piatti. Dai miei amici tutti che telefonano e mi vengono a trovare e mi raccontano storie. Da tutte queste persone care insomma che mi danno il senso prezioso di una vita che continua, così grande e ge­nerosa da accogliere come sua “logica” componente anche la mia morte.

 


13 luglio 2007

 

 

 

 

 

Edda CattaniDal diario di un malato.
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Per non dimenticare: 27 gennaio

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Una coscienza sul passato per un futuro migliore

Nel 2000 venne istituito dal Parlamento italiano il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, per ricordare quel giorno del 1945, in cui furono aperti i cancelli della città polacca di Auschwitz e fu svelato l’orrore del campo di sterminio, delle deportazioni, del genocidio nazista che causò la morte di milioni di persone, soprattutto ebrei.

Passare dalla memoria alla storia è il percorso che molti studiosi stanno compiendo ormai da anni nella lettura nella Shoah e dello sterminio nazista.

 La storia europea degli ultimi 60 anni è stata connotata dalla terribile tragedia della seconda guerra mondiale e dallo sterminio nei lager. Una storia vissuta in prima persona anche da chi è nato dopo la guerra, perché troppo fortemente quella vicenda ha segnato tutti coloro che l’hanno vissuta, anche se non hanno subito direttamente la deportazione. Il dramma dei sopravvissuti, la testimonianza di chi ha visto ed è tornato dall’orrore e dall’inferno per raccontarcelo ha coinvolto anche chi non c’era. La letteratura, il cinema, il teatro, le mille forme della comunicazione e della narrazione hanno attinto alle stesse fonti della storia.

 Con il passare del tempo, per ragioni anagrafiche, i testimoni cominciano a scomparire e corriamo il rischio che con essi scompaia anche la memoria di quei fatti, lasciati appunto allo studio della storia.

 E invece la memoria è importante non solo perché tiene vivo il ricordo di quei fatti. Ma, come ricorda David Bidussa, “la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto […] alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, serve per fare qualcosa”.

Coltivare la memoria di ciò che è stato non è allora solo il rituale dovuto ogni anno per celebrare il 27 gennaio. Questa data, ricorda sempre Bidussa, non è il giorno dei morti. La memoria ha un senso se coltivata al futuro, se ci consente, interrogandoci su ciò che è stato, di trovare il modo di prevenire, di sviluppare gli anticorpi sociali e culturali dello sterminio, del razzismo, dell’annientamento di popoli e culture. Osservando quanto sta succedendo nel nostro mondo e purtroppo anche in Italia, siamo in crisi di memoria e gli anticorpi democratici si stanno indebolendo. Ecco perché è importante che il 27 gennaio non sia una celebrazione rituale. (da siti internet)

  

Il senso del Giorno della Memoria

 Il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. 

 

NUOVI LIBRI DELLA SHOAH
La ricorrenza
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso di un’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Auschwitz, scoprendo l’orrore del campo di concentramento e svelando per la prima volta al mondo le stragi del genocidio nazista. Dal 2000 anche il nostro Paese ha scelto questa data per commemorare le vittime dell’Olocausto, che si stimano fra i 13 e i 19 milioni di persone, uccise e cremate nell’arco di quattro anni.
libri della Shoah
 
24 Gen 2011
Il profumo delle foglie di limonedi Clara Sanchez

Il profumo delle foglie di limone di Clara Sanchez Uscito in sordina in Spagna, ha ben presto ha scalato le classifiche vendendo migliaia di copie grazie al passaparola del pubblico. Poi è venuta la consacrazione della critica: la vittoria del Nadal, il premio letterario spagnolo più antico e prestigioso, e la stampa che gli ha dedicato pagine e pagine. A metà strada tra storia di iniziazione e thriller psicologico, iL PROFUMO DELLE FOGLIE DI LIMONE fa incrociare le vite di Fredrik e Karin, una coppia di ex criminali nazisti rifugiatisi nella Costa Blanca spagnola, di Julian, un anziano repubblicano spagnolo che fu imprigionato nel campo di Mauthausen, e di Sandra, una giovane donna sulla trentina che ha scelto di trovare rifugio sulla costa alla ricerca di un angolo di mondo in cui sentirsi ancora viva.
 

23 Gen 2011
Il segreto della casa sul cortile di Lia Levi

Il segreto della casa sul cortile di Lia Levi

Giornalista e sceneggiatrice, oltre che apprezzata autrice di romanzi per ragazzi, Lia Levi ha scritto libri davvero toccanti e profondi sulle vergognose leggi razziali del 1938, sulle sofferenze degli italiani di religione ebraica, ma anche sulla solidarietà che si è spesso creata nella popolazione italiana verso questi perseguitati. Il periodo nel quale si svolge IL SEGRETO DELLA CASA SUL CORTILE è quello tra il 1943 e il 1945. Siamo alla vigilia dei terribili rastrellamenti del ghetto di Roma che ha portato migliaia di persone verso la morte nei campi di sterminio.
 

22 Gen 2011

Ti racconto la mia storia di Tullia Zevi, Nathania Zevi

Ti racconto la mia storia. Dialogo tra nonna e nipote sull'ebraismo di Tullia Zevi, Nathania Zevi Scompare Tullia Zevi all’età di 91 anni, giornalista e scrittrice milanese che dedicò l’intera vita a favore dell’educazione, dell’arte e della cultura, e all’impegno nella comunità ebraica italiana. Quando uscirono i primi decreti razziali Tullia Zevi aveva solo diciott’anni e dalla Svizzera, dove si trovava in villeggiatura, non poté far ritorno in Italia fino alla fine della guerra. La sua vita, come quella di tanti altri, ne fu sconvolta. Dall’esilio in Svizzera, poi Parigi, l’America e infine Roma.
 

18 Gen 2011
Le valigie di Auschwitzdi Daniela Palumbo

Le valigie di Auschwitz di Daniela Palumbo

Nulla è più sconvolgente della guerra. Nulla lo è stato più dell’eliminazione in massa degli ebrei per volere di un solo uomo. Che lo aveva deciso. Che aveva deciso che così doveva essere. Perché era giusto. Ma nulla, davvero, è più atroce di una moria in cui le vittime sono annichilite e impotenti. Di fronte alla crudeltà, di fronte ad una forza distruttrice che non ha paragoni.
Se doveste mai fare una visita al campo di sterminio di Auschwitz, in questo venichtungslager, non potrete non rimanere colpiti dalla stanza 4 del blocco 5. Dietro la cui vetrata si erge una montagna. Quella dei nomi e dei cognomi, quella delle città e delle vie scritte in tutta fretta. Con la segreta speranza, l’incosciente e la cosciente consapevolezza del non-ritorno. La montagna di valigie dei deportati nel campo. Quelli che appena arrivati venivano subito eliminati perché considerati più deboli dei deboli. Così, senza un vero perché, senza una vera ragione. Solo perchè diversi. Questa è la storia raccontata daDaniela Palumbo nel suoLE VALIGE DI AUSCHWITZ Attraverso racconti e testimonianze. “Ho saputo che è esistito un tempo in cui dei bambini venivano costretti a partire con una valigia riempita in fretta, per una destinazione che non conoscevano e non facevano ritorno a casa, mai più”. Le storie racchiuse in questo libro sono la traccia di un passaggio. Quello di 5 bambini: Carlo, Hannah, Jakob, Dawid, Emeline. Ognuno con la propria dolorosa quotidianità e accompagnata da un viaggio nella sofferenza della diversità. Ma che va ricordata e raccontata. “Il luogo che conserva la memoria di quei bambini e delle loro piccole valigie , si chiama Auschwitz”.
E’ la storia di questi bambini che innocenti vittime hanno percorso un breve tratto della loro vita. Alcuni l’hanno proseguita. Altri si sono persi per sempre.
Per tutti il comun denominatore è una stella. Quella gialla della diversità. Quella luminosa che brilla nel cielo e che ce li fa ricordare.
Purtroppo sempre troppo poco. Purtroppo sempre più raramente.
Ecco il motivo per cui esistono libri come questo. Per mantenere questo scintillio vivo. Brillante.
Ha vinto il Premio Letterario Il Battello a Vapore, dedicato a romanzi inediti per ragazzi e indetto dalle Edizioni Piemme.

“In questo libro racconterò una storia, anzi più storie, di bambini che sono esistiti tanti anni fa, quando non ero ancora nata”. Dove ha sentito le storie di questi cinque bambini? 
Le storie narrate  sono frutto di invenzione letteraria. Eppure sono vere. Sono vere nella misura in cui la scrittura, il raccontare le storie della vita, permette allo scrittore di dare corpo e anima all’umanità rarefatta (in questo caso) che è nei libri di storia, nei ricordi dei testimoni, nella didascalie di una foto. Sono vere perché Jakob, Hannah, Carlo, Emeline e Dawid, rappresentano tutti quei bambini che sono scesi dal treno ad Auschwitz e sono stati messi nella fila degli inutili: quella che andava direttamente alle docce, ovvero nelle camere a gas e ai forni. I tedeschi chiamavano i prigionieri dei lager haftling che vuol dire pezzo. I pezzi inutili erano tutti i bambini fino ai 13 anni, perché non potevano lavorare e venivano immediatamente gasati.

Scrivere per non dimenticare o scrivere per insegnare?
Scrivere per non dimenticare. La shoah non riguarda solo gli ebrei, ma l’umanità tutta. Perché è una pagina della Storia che ha segnato un confine: dopo Auschwitz è come se l’umanità avesse persol’innocenza, non abbiamo più potuto rappresentarci allo stesso modo. È come se il peso di quell’insensata catastrofe sia dentro tutti noi. L’uomo, ieri e oggi e domani, dovrà sempre tremare di vergogna conoscendo la verità perché, come ha scritto Primo Levi, se è accaduto una volta, può riaccadere. Il silenzio e l’indifferenza, solo in parte giustificati con la paura che il regime nazista incuteva, sono stati complici del sistema-lager. Moltissimi sapevano ma potevano fare finta di non sapere perché i tedeschi cercavano di nascondere la verità. E allora la memoria è consapevolezza, l’ignoranza è viltà. E oggi che stanno scomparendo i testimoni diretti assumono sempre più importanza due cose: gli oggetti dei prigionieri, come le Valigie, dove sono scritti indelebilmente nomi e cognomi di chi è esistito, prima di essere inghiottito ad Auschwitz. E le persone, non solo di origine ebraica, che credono nel passaggio del testimone: sapere e raccontare, anche senza aver vissuto, diventa un’assunzione di responsabilità di fronte alla ferita insanabile subita da un’umanità inerme. Ma è anche un atto di responsabilità verso le generazioni future: che non possano mai dire, io non c’entro, non mi riguarda.

Quanto può essere dolorosa una scrittura sul tema dell’Olocausto?
C’è un dolore privato in cui metti in gioco la tua sensibilità, la tua formazione, la storia personale di essere umano, di donna, di madre anche. E c’è un dolore più profondo forse, il dolore dell’appartenenza a un’umanità che ha potuto strappare i figli dalle madri per gettarli nei forni. Poi tornare a casa, suonare il pianoforte con i figli accanto, portare fiori alla moglie, mettere la mantella al cane per la pioggia, accompagnare a scuola i figli e, finiti i giorni di congedo, tornare sereno al lavoro, nel lager.

Valeria Merlini

 

 

Edda CattaniPer non dimenticare: 27 gennaio
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“Schindler’s list”

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“Schindler’s list”

“Chiunque salvi una vita salva il mondo intero”

Schindler’s List è un film del 1993 diretto da Steven Spielberg, interpretato da Liam NeesonBen Kingsley e Ralph Fiennes.

Ispirato al romanzo La lista di Schindler di Thomas Keneally, basato sulla vera storia di Oskar Schindler, permise a Spielberg di raggiungere la definitiva consacrazione tra i grandi registi, vincendo l’Oscar per la “miglior regia” e il “miglior film”.

Il film è stato girato interamente in bianco e nero, fatta eccezione per quattro scene: la prima è la scena iniziale, in cui si vedono due candele spegnersi, così come, simbolicamente, la fiammella di altre due candele riacquista colore verso il termine della storia, la seconda e la terza, dove appare una bambina con un cappotto rosso, la prima durante il rastrellamento del ghetto e la seconda durante la riesumazione delle vittime, e l’ultima durante la scena finale.

La bambina con il cappotto rosso (dal film di Steven Spielberg)

Da FB il commento di F.S. 

“perchè non potrebbero rubarci l’amore…” L’amore, quello che ci fa perdonare, quello che ci sostiene,salva, sempre e comunque, l’unica vera ricchezza che , non si quantifica, nè , come di ci tu si ruba, ma si dona e si riceve… non salvi solo la tua di anima, ma anche quella di chi ti legge… l’amore quello infinito che varca i confini della vita e della morte… L’amore quello che ci fà essere persone migliori, che ci unisce, nonostante diversità o distanze… L’amore, quello con la A maiuscola,che un caro amico del cyberspazio ;),mai conosciuto di persona ti dimostra scrivendo cose meravigliose, quello di cui spesso mi nutro leggendo le tue note, e quello che goffamente cerco di “donarti”, con i miei commenti , e messaggi nei momenti per te più bui …l’amore, quello che mi unisce ai tuoi alti e ai tuoi bassi di uomo e padre… l’amore l’unico mezzo di resurrezione per chi è morto dentro… l’amore…. 
Edda Cattani“Schindler’s list”
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I confini della misericordia

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I confini della misericordia

Ma davvero la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? 

Vito Mancuso su Repubblica del 23 gennaio 2016

 

Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere. Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».

Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto. In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.

Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?

Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»? Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.

La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.

Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

 

 

 

Edda CattaniI confini della misericordia
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Ho bisogno di Te!

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La mia preghiera 

 

“Io ho bisogno di un Dio come Te, mio Dio. Ho necessità di sapere  che mi comprendi, che  stai dalla mia parte, Tu che ti chiami Padre, Dio mio!

 

Ho bisogno di Te per crescere e comprendere che anche Tu hai pianto con me quella notte mentre si azzerava il  mio senso di onnipotenza, che ti sdraiavi sulla croce mentre io graffiavo la lapide del sepolcro, che mi chiamavi a Te per darmi, nella mia vuota disperazione, il dono, come al Figliol Prodigo, della Tua mensa.

 

Voglio pensare che Tu hai un disegno su me, su tutti noi e soprattutto sui nostri Figli… perché desidero sapere che li impieghi bene, che Tu li adoperi in una  missione, in un cammino in cui sono portati all’evoluzione mentre si adoperano per gli altri. Ci hanno detto che hanno compiti da svolgere. E come potrebbe essere diversamente? Hai un buon esercito, Dio mio; giovani menti e cuori saldi e generosi.

 

In questo progetto voglio esserci anch’io, con le mie cadute, le mie esasperazioni, il mio modesto credere e la mia speranza di sapere aiutare chi mi incontra nel cammino!

 

Non sopporto, Signore, l’ignavia, la mollezza, l’indecisione, l’apatia e non mi va l’immagine di Te trionfante e immobile come ti avevo visto nei mosaici della mia Ravenna, quando, giovanetta, guardavo affascinata tutta quella ricchezza e quello sfavillio di pietruzze d’oro, acclamando la Tua Regalità e la Tua potenza. Non mi dicono nulla gli affreschi giotteschi con quella schiera di angeli tutti uguali ed immobili davanti alla Tua maestosità.

 

Di Te mi piace pensare come al vento impetuoso, al turbinare delle onde, al cielo stellato. Tu Dio mio, dalle innumerevoli facce, che mi dai immagini di Te sempre nuove, sono certa che avrai nuovi progetti sulla mia vita terrena ormai agli sgoccioli, come avrai trovato il modo di coinvolgere i miei adorati Figli, il mio Andrea, giovane soldato che ti definiva “Signore, Dio degli eserciti” e li avrai portati a svolgere ed a vivere, perché di vita si tratta, un’avventura affascinante, entusiasmante, sconvolgente.

 

Questi Nuovi Angeli sono i veri Tuoi messaggeri! Uno stuolo di anime belle, coinvolte in un disegno che solo Tu conosci e che, un giorno, vedremo anche noi e condivideremo nella patria celeste.”

 

 

 

E voglio terminare con le parole di Don Tonino Bello:

 

“Da quando l’Uomo della Croce è stato issato sul patibolo, quel legno del fallimento è divenuto il parametro vero di ogni vittoria, e le sconfitte non vanno più dimensionate sui naufragi in cui annegano i sogni. Anzi, se è vero che Gesù ha operato più salvezza con le mani inchiodate sulla Croce, nella simbologia dell’impotenza, che non con le mani stese sui malati, nell’atto del prodigio, vuol dire, cari fratelli delusi, che è proprio quella porzione di sogno, che se n’è volata via senza realizzarsi, a dare ai ruderi della nostra vita, come per certe statue monche dell’antichità, il pregio della riuscita.”

 

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Vino nuovo…

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Finora… (di Alessandro Dehò)
(Giovanni 2,1-11)

Entra nel mondo come lievito, invitato tra gli invitati. Gli amici, la madre, un po’ di festa, questa la sua solennità, questo il suo tempio. Entra tra le voci e le risa, muove i suoi passi tra i costumi di una religione che prova a dare senso al vivere, cammina nel cuore di un umano che prova a promettersi eternità per sconfiggere almeno per un poco la morte. Entra in un mondo profumato di carni arrostite al fuoco, di pane e di vino, di danze, musiche, risate sguaiate, tristezze velate, frasi urlate e parole sommesse… entra nella vita che non ha vergogna di mostrarsi così come è, a Cana, in un matrimonio come tanti, entra, Gesù, da invitato.

Poi diranno che a Cana tutto è iniziato, che è stata inaugurata l’Alleanza definitiva, che l’Antico Testamento stava diventando Nuovo e che lo sposo atteso era proprio Gesù… ed è tutto vero però, dopo. Intanto Gesù è invitato tra gli invitati. E accetta l’invito. E credo che tutto inizi davvero così, anche per noi. Se vogliamo dare inizio ai segni cioè rinascere a una vita significativa per noi e per gli altri dobbiamo innanzitutto accettare l’invito che la vita ci offre. Invito all’umanità. Accogliere con gratitudine di essere stati invitati da questa vita anche se spesso sembra un matrimonio tra disperati che non riescono a portare a termine mezza festa. Accogliere l’invito significa entrare nella storia e accoglierne i profumi e gli odori, le danze e le risa anche sguaiate, significa non deridere lo scambio umano di promesse di eternità anche se lo sappiamo, sono sempre troppo enormi. Non stare fuori dalla festa. Farne parte. Da invitato tra gli invitati. Maturando un profondo legame con tutti gli altri commensali, imparando a guardarli con tenerezza e misericordia. Ridere con loro e mai di loro. Mi pare che questo sia il vero segno di inizio che Gesù ci consegna, ben prima dell’acqua in vino c’è questa totale immersione nell’umanità. Ospiti dell’umano, a noi il dolce impegnativo compito di farlo fiorire. Per noi e per gli altri. Trasformandoci, vero miracolo, da anfore vuote in sorgenti sorprendenti di vita.

Poi il vino finisce, lo sappiamo. Maria si accorge. Lei è donna, è madre, la vita le ha già insegnato a partorire uno sguardo attento al mondo. Dopo scopriremo che quel vino è simbolo e segno di tutte le feste umane esaurite, di una Alleanza con Dio che andava rinnovata… dopo. Intanto è vino finito. È storia che interroga. E questo è l’altro nuovo inizio prima dell’acqua in vino. L’invitato Gesù comprende che dare inizio ai segni, significa lasciarsi ferire dalla vita. Che quel vino finito, quella festa che implora un nuovo tempo, quel mondo che Maria riesce a far pregare è bordo vertiginoso da oltrepassare. Un punto di non ritorno certo, un cominciare a dare la vita, la propria, come Segno. È bellissimo questo Gesù che impara dalla vita che accade. Perché la verità fiorisce dal nostro rapporto con gli eventi. Siamo chiamati, ed è questa la fede, a lasciare che la vita ci ferisca. Anche con le sue improvvise richieste. È finito il vino: quando un amore si inceppa, quando la malattia increspa la calma, quando mi perdo, quando mi lasciano, quando non trovo casa, quando non capisco più la persona che amo… vino finito. E’ la vita che interroga. E diventa significativa se io imparo a rispondere con la vita stessa. Perché da Cana Gesù sta imparando. Per quando giungerà la sua ora. Per quando, in altra cena ultima, a rimanere sarà il vino ma lui no, lui sarà chiamato a “finire”. Impara Gesù dalla vita, e quando sarà chiamato a trasformare non solo acqua in vino ma vino in sangue sarà Cana portata a compimento. Impara Gesù dalla vita, perché il Segno vero, una vita significativa, è saper imparare, e quando sarà solo, festa finita, nell’orto degli Ulivi sicuramente ricorderà le parole di Maria “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” e allora alzerà lo sguardo a quel cielo senza stelle e ricordando il vino di Cana e della ultima Cena dirà: se puoi allontana da me questo calice ma dimmi quello che vuoi… e qualsiasi cosa dirai io lo farò. Fede, fede vera, è lasciare che la vita ci interroghi, è imparare a bere il calice fino in fondo, è accettare che abbiamo bisogno di tempo per arrivare alla nostra ora, è non far passare le cose invano, è imparare. Imparare a non pretendere che la vita segua i nostri tempi ma amare così totalmente la storia da trasformarla, vero segno, da acqua che scorre verso la morte a vino che sorprende di possibilità inaspettate di alleanza. È lasciar scorrere la vita incontro a noi, lasciare che ci interroghi e non limitarsi a subirla: dalla roccia di una ferita può scaturire vita nuova.

E poi è il rumore delle anfore che si riempiono. In fondo la disperazione non è il dolore ma il vuoto. E quello che succede è che in quel contesto di festa nessuno si accorge ma Gesù dà inizio a un Segno nuovo. E il Segno è che è finito il tempo della purificazione e iniziato il tempo della festa. Anche se ancora non l’abbiamo compreso. Fede, fede vera, da quel giorno di Cana, non è credere in un Dio che ci immagina puri, senza scorie, immacolati di fronte alla vita… da quel giorno di Cana è ancora più chiaro che Dio ci immagina vita profumata e calda come sorso di vino. Calore e profumo di terra e di cielo, la vita che abbassa le difese e scioglie la parola, la vita che chiede di essere cantata e condivisa: la vita viva. Invitati a vivere passando dalla logica del sacrificio alla grammatica della passione. Non siamo stati invitati al mondo per essere puri ma per continuare a cercarci, uomini tar gli uomini, anfore riempite di profumo, per dare inizio ai segni, cioè per rendere questa vita, tutta la nostra vita un Segno. Segno di una speranza, segno di un incontro, segno di una vita che chiede di condividere il calore di amare e di lasciarsi amare. Segno di una vita che quando crede nell’uomo profuma di festa, di vino buono.

Solo così si trasforma la vita. E segno, segno vero, non è l’acqua in vino ma la stanchezza in stupore, l’esaurimento in rinascita: tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora. Segno, segno vero, è permettere una delle dichiarazioni di fede più belle e commoventi del Vangelo. Fede nella vita che finalmente si mostra per quello che è: promettente. Promette di non vivere di esaurimento in esaurimento, promette di non illudere con sogni buoni che poi si incagliano in realtà usurate, promette di non ingannare, approfittando dello stordimento, cambiando vino in tavola. È tempo del finora: quando il vino buono viene tolto dalla cantina. E’ tempo che nelle nostre Comunità si ricominci a condividere il profumo di una vita promettente creando le condizioni perché fiorisca. È tempo di imparare la trasformazione vera che non è quella dell’acqua in vino ma quella dello sguardo del maestro di tavola che riconosce, stupito e grato, la bontà della vita.

 

 

Edda CattaniVino nuovo…
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E non finisce la sofferenza

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E non finisce la sofferenza…

Per non dimenticare…

Terremoto: l’hotel Rigopiano travolto dalla slavina.

 Rigopiano

É il tempo della solidarietà. Ad ognuno di noi è richiesto un gesto concreto.
“È più facile meditare che fare effettivamente qualcosa per gli altri. Limitarsi a meditare sulla compassione equivale a optare per l’opzione passiva. La nostra meditazione dovrebbe creare la base per l’azione, per cogliere l’opportunità di fare qualcosa.”
(Dalai Lama)

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L’Aquila, 19 gennaio 2017 – Terremoto e maltempo. Una combinazione che si è rilevata fatale per il Centro Italia, con paesi sommersi dalla neve e valanghe causate con tutta probabilità dagli eventi sismici. E’ il caso di quanto avvenuto all’hotel Rigopiano, nel comune di Farindola (Pescara), travolto da una slavina ieri sera e dove i primi soccorritori sono riusciti ad arrivare con gli sci soltanto alle 4.30 del mattino. Tre le vittime finora recuperate, ma il bilancio è destinato a crescere perché nella struttura si trovavano circa 30 persone tra personale e clienti, anche bambini. Messe in salvo due persone, Giampiero Parete e Fabio Salzetta, sfuggite alla massa di neve staccatasi probabilmente a causa delle scosse sismiche, perché all’esterno della struttura. Sembra infatti che gli ospiti fossero pronti a lasciare l’albergo. Drammatico il racconto dei soccorritori:

vigili

 “L’albergo è stato spazzato via, è rimasto in piedi solo un pezzetto. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati. Ci sono materassi trascinati a centinaia di metri da quella che era la struttura”.

Edda CattaniE non finisce la sofferenza
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Il funambolo

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Sul filo

funambolo Dehò

(Matteo 4,12-23)
III^ Tempo Ordinario 

Neanche un versetto e tutta la storia di Giovanni Battista si arresta, si ferma. Il grande profeta è ridotto a notizia che arriva a Gesù, un filo commosso di voce: Giovanni è stato arrestato. Giovanni è stato consegnato al potere, alla banalità del male, alla stupidità degli esseri umani. Il deserto è chiuso in gabbia, la voce zittita, il fiume non scorre più. Gesù non dice nulla, ascolta e cammina, disegna sulla mappa una curva inaspettata e decide di raccogliere definitivamente l’eredità. Secondo qualcuno questo è il momento in cui lo stile della predicazione cambia, la durezza di Giovanni lascia il posto alla misericordia del Messia. Probabilmente è vero ma io credo che ci sia anche, nel silenzio commosso di Gesù, la coscienza di essere chiamato a raccogliere una fedeltà alla vita che Gesù riconosce al profeta. Perché Giovanni ha accettato di perdere tutto, perché Giovanni morirà per giochi perversi di potere, perché Giovanni è spogliato e solo. Perché Giovanni è consegnato e sceglie di andare fino in fondo. Perché è quando non hai più niente che puoi dare tutto. Quando sei davvero povero, quando non sei più il profeta acclamato, o il rivoluzionario temuto, quando hai perso è allora che puoi dare la vita. Gesù vede e si riconosce e decide.

Gesù raccoglie questa vita consegnata e inizia a consegnare definitivamente la sua. Cominciando da lontano, dalla Galilea, luogo di frontiera, regione dove le fedi e le culture si intrecciano, dove la religione è libera dalla sterilità camuffata da perfezione del Tempio. Luogo sporcato dalla vita, luogo che espone a tutte le incomprensioni possibili, luogo vivo e fertile, luogo complesso e difficile da decifrare, luogo ventre di tutte le fami del mondo, luogo incoerente e immaturo, regione in cui si è minoranza tra le minoranze: Gesù parte da lì. E a me commuove che la Galilea sia molto simile a questo nostro mondo postmoderno che come comunità cristiana continuiamo a criticare.

Gesù sceglie il confine e nella terra di confine decide di camminare la soglia: tra terra e mare, come a seguire un filo teso sopra l’Abisso, come a dire che la vita la assumi esponendoti al rischio di perderti: tra terra e mare, luce e tenebre, vita e morte. Cammina Gesù, funambolo dell’Infinito, e da quella nuova prospettiva fa scivolare verso l’umanità il suo sguardo profondo. Sguardo di chi conosce le tenebre del cuore e non le condanna, sguardo di chi è abitato dalla Luce ma non la impone. Forse i primi discepoli si sono fidati di Gesù perché in quello sguardo hanno sentito Gesù camminare anche dentro le loro di storie, da funambolo, con leggerezza e grazia. Perché ogni uomo è terra di confine: luce e tenebre, vita e morte, Gesù camminando con grazia e leggerezza ha guardato con amore dentro le tenebre dell’uomo e ha saputo proporre una fune tesa da iniziare a camminare. Stavano gettando le reti Simone e Andrea e sempre le avrebbero lanciate, giorno dopo giorno, di sopravvivenza in sopravvivenza ma quel senso di vita che non basta, quel senso di vuoto che nausea, quel bisogno di dare un senso ultimo alla propria storia, quello le reti non lo scalfiscono. La pesca permette alla vita di sporgersi un giorno ancora sul tempo ma il senso di tutto questo? E quando ti fermi a riparare le tue reti, quelle che portano addosso le ferite inevitabili del quotidiano quando, come Giacomo e Giovanni, ti ritrovi a tenere insieme una vita che continuamente ha solo bisogno di essere riparata e anche questo, lo sai, in una ripetizione senza fine… se incroci uno sguardo che ti accompagna a scendere dentro l’abisso che ti porti dentro tu le reti le lasci e anche il padre e le barche. Non perché vuoi fuggire ma perché hai sentito distintamente la possibilità di poter cominciare a desiderare la vita. Quello che ti porta a camminare in equilibrio tra la vita e la morte, quello che ti espone al rischio di perderti o a quello di trovarti è la scoperta di una promessa nascosta dentro lo spazio e il tempo che ti è stato chiesto di abitare. Gesù, funambolo della vita, con uno sguardo, ha promesso ai suoi un cammino per uscire dalle tenebre che ognuno si porta dentro. Cammino dal prezzo altissimo, cammino di tutto o niente: perdere la vita per trovarla. Si inizia lasciando le reti e si finisce lasciando la vita: solo ed esclusivamente per trovarsi. Per arrivare finalmente a guardarsi come Dio ci guarda. Gli occhi di Gesù sono inizio e compimento.

Camminano dietro di lui i discepoli, su quel filo teso tra vita e morte, tra mare e deserto, profumo di Esodo e libertà. Dietro di lui, pronti a cadere per lasciarsi rialzare. Nessuna preparazione previa, nessuna annunciazione, nessuna nascita verginale, nessun angelo per loro a schiodarli dal quotidiano: solo un uomo che ha guardato le tenebre del cuore con grazia e senza condanna.

Un uomo che parlava di conversione e di un Regno vicino. La conversione erano quegli occhi profondi e misericordiosi, se lo seguivi era perché quegli occhi ti avevano incantato, che il desiderio di vita si risveglia solo se occhi luminosi ti toccano le corde del cuore, se senti misericordia invaderti, se ti senti amato, il resto viene dopo. Conversione è cambiare lo sguardo, il proprio sguardo sui fratelli. E in quegli occhi sentire che il Regno è presente, adesso. Non un paradiso terreste lasciato alle spalle e nemmeno un paradiso celeste appeso alla speranza, no, se ti senti guardato da Lui tu senti che quello è lo sguardo di Dio, che Dio ti ama così, adesso, e le tenebre del cuore non spariscono però non ti fanno più così paura. Quantomeno smetti di nasconderle. Dentro uno sguardo così potevi perfino piangere. Per questo lo seguirono.

“Pescatori di uomini”, non era chiara quella promessa. Si intuiva che non erano chiamati a diventare altro, che dovevano continuare a essere loro stessi, pescatori, che la storia non si cancella ma si prende tutta, per quello che è e per quello che è stata solo c’era urgenza di una nuova attenzione all’uomo. Dovevano imparare quello sguardo. Quello sguardo che li aveva conquistati e sedotti sarebbe dovuto entrare anche nei loro occhi. Gesù stava pescando uomini, stava pescando loro. Stava trascinando fuori dalle acque ferme e tenebrose della vita un gruppo di uomini perché anche loro, un giorno, fossero capaci di sguardi luminosi e profondi, di cammini funambolici sopra l’abisso, di consegna totale di sé. Il Vangelo di oggi è la descrizione dei primi passi sulla fune tesa che porta alla vita. La pagina di oggi è pagina da rileggere ogni volta che cadiamo e perdiamo il desiderio. Ogni volta che i nostri occhi si spengono e diventano increduli e si accontentano di riparare reti. Ogni volta che ci dimentichiamo come ci guarda Dio.

 

Edda CattaniIl funambolo
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Ho conosciuto il dolore

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Ho conosciuto il dolore

Ho conosciuto il dolore(di persona, s’intende)e lui mi ha conosciuto:siamo amici da sempre,io non l’ho mai perduto;lui tanto meno,che anzi si sente come finito se per un giorno solo,non mi vede o mi sente. Ho conosciuto il dolore e mi è sembrato ridicolo,quando gli dò di gomito,quando gli dico in faccia:”Ma a chi vuoi far paura?”Ho conosciuto il dolore:era il figlio malato,la ragazza perduta all’orizzonte,il sogno svanito,la miseria dopo l’avventura;era il brigante all’angolo che mi chiedeva la vita;era il presuntuoso tumore che mi porto dentro da una cellula impazzita;era Dio, che non c’era e giurava, ah se giurava, di esserci; la sconfitta patita,l’indifferenza del mondo alla fame,alla povertà, alla fatica; l’ho conosciuto e l’ho preso a colpi di canzoni e parole da farlo tremare,da farlo impallidire,da farlo tornare all’angolo,pieno di botte,che nemmeno il suo secondo sapeva più come farlo di nuovo salire sul ring,continuare a boxare.E, un giorno, l’ho fermato in un bar,che neanche lo conosceva la gente;l’ho fermato per dirgli:“Con me non puoi niente!”Ho conosciuto il dolore ed ho avuto pietà di lui,della sua solitudine,di questo cavolo di suo mestiere;l’ho guardato negli occhi,che sono voragini e strappi di sogni infranti:“Ti vuoi fermare un momento?”, gli ho chiesto,”Ti vuoi sedere?Vieni con me,andiamo insieme a bere. Hai fatto di tutto per disarmarmi la vita e non sai, non puoi sapere che mi passi come un’ombra sottile sfiorente,appena-appena toccante,e non hai vie d’uscita perché, nel cuore appreso,in questo attendere anche in un solo attimo,l’emozione di amici che partono,figli che nascono,sogni che corrono nel mio presente,io sono vivo e tu, mio dolore, non conti un cazzo di niente”

(Roberto Vecchioni)

 

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