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Dimensione donna

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Dimensione donna

Ci sono donne che hanno occhi di terra e acqua,
che attraversano le stagioni e il tempo
dipingendo il mondo con le loro sensazioni e percezioni.
Sono consapevoli, introspettive, mature,
generose e determinate.
Donne che attraversano il dolore
per giungere alla luce.
Sanno superare le giornate di vento e di pioggia,
di nebbia dell’anima,
hanno la forza di rinascere ogni volta
che la vita le delude.
Donne che vibrano di magia e di mistero,
che conoscono il principio e la fine delle cose,
che sanno dare luce alle anime che incontrano,
alimentare la nostra vita con alchemici incanti.
Perché l’Amore ce l’hanno nell’anima,
lo creano, lo respirano e lo donano.

(Agostino Degas)

La donna e’ un’anfora..un calice che accoglie, un contenitore, il mare, la vita! La donna, o meglio il femminile, rappresenta il mutevole, il mercurio degli alchimisti, instabile, ma questa sua instabilita’, contraria alla fissita’ del maschile, produce il movimento necessario alla vita!
La donna e’ la sensibilita’, il suo regno e’ il mondo dei sensi, dell’emozione !
E’ l’intuizione che si contrappone alla ragione.
La donna e’ l’orizzonte, ma anche la morbidezza!
L’utero femminile..rappresenta in modo mirabile, l’importanza del femminile nel concepimento della vita stessa: nel suo dentro, cresce e si nutre la vita stessa…
La donna come dicevo, rappresenta l’instabilita’ che tanto fa paura, e per questo e’ stata condannata spesso dalla societa’: ma questa instabilita’, e’ cio’ che permette al mondo di evolvere..perche’ senza instabilita’, rimarremmo ancorati alle nostre certezze, senza possibilita’ di alcun tipo di evoluzione!
Mi piace comunque , unire il femminile al maschile: l’uomo, la sua concretezza, la sua razionalita’, la sua precisione, completa il quadro dell’evoluzione..non vi e’ l’uno, senza l’altro! Quando prevale l’uno, il mondo avanza, ma nello stesso tempo, rimane piegato dalla sofferenza di questa mancanza di equilibrio!
La donna e’ l’Aishah…l’Anima.
E aggiungo che quando nasciamo, nasciamo tutti femminili..siamo femminile, poiche’ la Materia, di cui e’ fatto il nostro corpo, appartiene al Regno del femminile! Lo Spirito feconda la terra..e quindi in realta’, dove c’e’ Materia, femminile, c’e’ nel contempo Spirito maschile.
Ancora..la spada nella roccia, rappresenta lo Spirito, il maschile, ancorato alla Materia femminile..e solo Artu’, l’Animo puro, riesce a far partorire dalla terra roccia, il suo Spirito, liberandolo! 

 

Edda CattaniDimensione donna
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Ho contato i miei anni

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Ho contato i miei anni

 

“Ho contato i miei anni ed ho scoperto che ho meno tempo da vivere da qui in avanti di quanto non ne abbia già vissuto.
Mi sento come quel bambino che ha vinto una confezione di caramelle e le prime le ha mangiate velocemente, ma quando si è accorto che ne rimanevano poche ha iniziato ad assaporarle con calma.
Ormai non ho tempo per riunioni interminabili, dove si discute di statuti, norme, procedure e regole interne, sapendo che non si combinerà niente.
Ormai non ho tempo per sopportare persone assurde che nonostante la loro età anagrafica, non sono cresciute.
Ormai non ho tempo per trattare con la mediocrità. Non voglio esserci in riunioni dove sfilano persone gonfie di ego.
Non tollero i manipolatori e gli opportunisti. Mi danno fastidio gli invidiosi, che cercano di screditare quelli più capaci, per appropriarsi dei loro posti, talenti e risultati.
Odio, se mi capita di assistere, i difetti che genera la lotta per un incarico maestoso. Le persone non discutono di contenuti, a malapena dei titoli.
Il mio tempo è troppo scarso per discutere di titoli.
Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta…
Senza troppe caramelle nella confezione…
Voglio vivere accanto a della gente umana, molto umana.
Che sappia sorridere dei propri errori.
Che non si gonfi di vittorie.
Che non si consideri eletta, prima ancora di esserlo.
Che non sfugga alle proprie responsabilità.
Che difenda la dignità umana e che desideri soltanto essere dalla parte della verità e l’onestà.
L’essenziale è ciò che fa sì che la vita valga la pena di essere vissuta.
Voglio circondarmi di gente che sappia arrivare al cuore delle persone…
Gente alla quale i duri colpi della vita, hanno insegnato a crescere con sottili tocchi nell’anima.
Sì… ho fretta… di vivere con intensità, che solo la maturità mi può dare.
Pretendo di non sprecare nemmeno una caramella di quelle che mi rimangono.
Sono sicuro che saranno più squisite di quelle che ho mangiato finora.
Il mio obiettivo è arrivare alla fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Spero che anche il tuo lo sia, perché in un modo o nell’altro ci arriverai”

 

MARIO ANDRADE – Poeta, romanziere, saggista e musicologo brasiliano

Edda CattaniHo contato i miei anni
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Natale da poveri

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Natale da poveri … e oltre!

C’era la Messa di Natale ma questa volta non accompagnavo Mentore nella sua carrozzina … c’erano gli altri, alcuni molto gravi, altri ancora sufficientemente autonomi. Sono tornata ancora, dopo quelle esequie così intime, così solitarie in una sofferenza non rivolta gli amici, parenti, conoscenti, ma condivisa solo con loro, i veri protagonisti della incarnazione vera di Cristo … Sono andata sola con me stessa, raccolta in una partecipata pienezza di “vera vita” perché la “vita” è questa, quando si è più soli, ammalati, abbandonati … Tutta l’atmosfera, anche questa volta, rispondeva al mio appello di speranza … Le luci, il Bambinello deposto nel presepe, le musiche, le parole del Vangelo … Guardavo nel banco vicino Danilo, ospite da poco tempo che continuava a ripetere il suo numero del telefono dicendo: “Quando andiamo a casa …”  intorno tanti parenti con un mesto sorriso … Improvvisamente, nel mio strazio ho visto un volto e ho pensato di sognare … era il Prof. Ben, vicario delle mie scuole, che mi ha accompagnato fino al pensionamento … un amico, un fratello che ricordo con immutato affetto. Che ci faceva in quella cappella, a quella messa? E perché mai, dovendosi spostare per lasciare spazio ad un ammalato è capitato proprio al mio fianco?   L’ho guardato con sorpresa e gratitudine perché lui stesso mi ha poi confermato di essere capitato lì, per caso, per la prima volta, senza immaginare di trovarmi … Un “segno” … uno dei tanti segni anche in questa occasione: Mentore non voleva lasciarmi sola, perché mi sarei commossa e avrei pianto … mi ha mandato lui, il mio Prof. Ben … con cui ho condiviso tanti anni della mia carriera scolastica! Ho potuto così prendere coraggiosamente per mano Danilo e portarlo a fare la comunione … Nulla era mutato … la stessa atmosfera delle Messe precedenti e festa e musica intorno … per me … da Mentore e da Andrea!

 

Eccoli i miei tesori … insieme in questo altare … finalmente uniti!

 

 

 

E per il mio Natale questo mi è giunto da V.S. una cara amica di FB: “Ciao carissima Edda, come per incanto ho sentito i tuoi angeli … ti invio il loro messaggio :

 

Mia dolce compagna di un cammino pieno di grande emozioni, a volte allegre altri tristi ma le nostri mani mai si sono staccate da quello che era il nostro compito. Gioiello migliore non potevo ricevere… colsi il tuo sorriso dentro lo scrigno del mio cuore. Oggi non potrò venire con te a vedere le meraviglie di presepi, ma tu non fermarti vai e io sarò la luce che illumina il tuo cammino. Mamma dolce creatura che hanno spezzato le ali. Li hai ricucite con il mio amore, non ti sei ami arresa e senza batter ciglio hai da subito sentito il mio cuore che batteva con colpi leggeri ma presenti per dirti son qui. Con il mio papà oggi incontriamo i tuoi pensieri li leghiamo con fili invisibili ma resistenti. La magia del Natale giunge per donare ad ognuno un nuovo cammino. La stella sarà luminosa, la via sarà un po’ stretta ma il cammino piacevole. La montagna si sbriciola pian piano per poi essere masso e a suo volta sarà un sassolino. Ecco noi ci siamo trasformati per essere sempre più piccoli ed entrare dentro di voi silenziosi. La tua pace mamma è la pace di chi con te riconosce il canto dell’amore Divino. Andrea

 

Cosa desiderare di più… per il mio “Natale da poveri”?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniNatale da poveri
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Gli Auguri più belli!

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A  Natale puoi …..

Come ogni anno a questo blog sono giunti i vostri affettuosi auguri sempre tanto graditi e con essi alcune pagine che desidero condividere.

Buon Natale e Buon Anno allora Cari Amici a Voi tutti e ai Vostri Cari per un sereno 2020 !!!  

 

NATALE 2020: CELEBRO L’AMORE PER LA VITA

 

Natale dal verbo nascere: anch’io ho avuto una mamma, sono stato bambino.

La vita è un nascere continuo.

Ogni giorno nasce dalla notte, ogni respiro che viene nasce dal respiro che va, celebro la gratuità di ogni giorno e di ogni respiro.

 

Dal seno dell’aurora come rugiada sono stato generato.

Mi abbevero al ruscello della vita, alzo il capo

Cammino verso il futuro che Dio mi prepara

(Salmo 109)

 

Dal non esistere sono arrivato ad esistere, abito la vita,

sono arrivato vivo fino a questo punto!

Il respiro di questo istante si collega al primo respiro,

quando sono uscito dal grembo della mamma.

La vita è una processione continua di respiri, 24000 ogni giorno.

Che cosa respira in ciò che respira? Di che cosa è fatto il respiro?

Considera la leggera esplosione di fiato tra le labbra socchiuse.

La parola “re-spiro” imita il suono sottile dell’aria che esce dalle labbra.

 

Incessantemente il fiato colma e vuota il flauto:

è il mio corpo che respira.

Tu o Dio vi zufoli dentro

melodie sempre nuove,

e continui a versare il dono della vita

nelle mie piccole mani.

(Tagore)

 

È Natale quando il tuo sguardo vede in modo nuovo

lo straordinario nell’ordinario.

È natale quando diventi consapevole della luce con cui vedi, del fiato che

respiri, della linfa che abbevera le tue membra, del suolo che ti sostiene,

dello spazio che ti avvolge.

 

Il Natale di Gesù sveglia la consapevolezza di ospitare in te la luce interiore,

la dignità della coscienza.

Il Verbo (Pensiero eterno di Dio)

è luce di ogni uomo che vive in questo mondo (Gv. 1,9)

è in te che il Verbo deve nascere!

 

www.scuoladelvillaggio.it

 

 

Il paradosso del nostro tempo nella storia è che
abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,
autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.

Spendiamo di più, ma abbiamo meno,
comperiamo di più, ma godiamo meno.
Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole,
più comodità, ma meno tempo.

Abbiamo più istruzione, ma meno buon senso,
più conoscenza, ma meno giudizio,
più esperti, e ancor più problemi,
più medicine, ma meno benessere.

Beviamo troppo, fumiamo troppo,
spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco,
guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo,
facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi,
vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.

Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà,
ma ridotto i nostri valori.
Parliamo troppo, amiamo troppo poco
e odiamo troppo spesso.
Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere,
ma non come vivere.
Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.
Siamo andati e tornati dalla Luna,
ma non riusciamo ad attraversare la strada
per incontrare un nuovo vicino di casa.

Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.

Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori. Abbiamo pulito
l’aria, ma inquinato l’anima. Abbiamo dominato l’atomo, ma non i
pregiudizi.

Scriviamo di più, ma impariamo meno.
Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.
Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.
Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per
produrre
più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.

Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta,
grandi uomini e piccoli caratteri, ricchi profitti e povere
relazioni.

Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi,
case più belle ma famiglie distrutte.
Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e
getta, della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei
corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto,
dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.

E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina
e niente in magazzino.
Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa
lettera, e in cui puoi scegliere di condividere queste
considerazioni con altri, o di cancellarle.

Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perchè
non saranno con te per sempre.
Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno
che ti guarda dal basso in soggezione,
perché quella piccola persona presto crescerà
e lascerà il tuo fianco.

Ricordati di dare un caloroso abbraccio
alla persona che ti sta a fianco,
perchè è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore
e non costa nulla.
Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto
pensalo.

Un bacio e un abbraccio possono curare ferite
che vengono dal profondo dell’anima.

Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti,
perché un giorno quella persona non sarà più lì.

Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione, e
dedica tempo per condividere i pensieri preziosi della tua mente.

E RICORDA SEMPRE:
la vita non si misura da quanti respiri facciamo,
ma dai momenti che ci tolgono il respiro.

 

Dalai Lama

In lui era la vita,
e la vita era la luce degli uomini.
E la luce risplende tra le tenebre
E le tenebre non l’hanno mai spenta
.” (Giovanni I, 3-4)

Cara amica, caro amico,

se non riesci a vedere la luce, guarda la tenebra con coraggio e a un certo istante la luce emergerà dalla tenebra stessa. Se non riesci a far risuonare in te la vibrazione del Verbo, taci e dal silenzio nascerà il Suono.

Non hai bisogno di cercare con affanno Luce e Parola, entrambe sono già dentro di te. Lasciale nascere – o rinascere – e manifestarsi oggi, perché “A quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il potere di diventare figli di Dio.”

Dice Tagore: “Accenditi come lampada; nel tuo cammino dovrai essere luce.”

A te l’augurio di un 2018 di Luce!

 


 

DANZA LENTA

Hai mai guardato i bambini in un girotondo ?

O ascoltato il rumore della pioggia

quando cade a terra?

O seguito mai lo svolazzare

irregolare di una farfalla ?

O osservato il sole allo

svanire della notte?

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce.

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

Percorri ogni giorno in volo ?

Quando dici “Come stai?”

ascolti la risposta?

Quando la giornata è finita

ti stendi sul tuo letto

con centinaia di questioni successive

che ti passano per la testa ?

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

Hai mai detto a tuo figlio,

“lo faremo domani?”

senza notare nella fretta,

il suo dispiacere ?

Mai perso il contatto,

con una buona amicizia

che poi finita perché

tu non avevi mai avuto tempo

di chiamare e dire “Ciao” ?

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

Quando corri cosi veloce

per giungere da qualche parte

ti perdi la metà del piacere di andarci.

Quando ti preoccupi e corri tutto

il giorno, come un regalo mai aperto . . .

gettato via.

La vita non è una corsa.

Prendila piano.

Ascolta la musica.

Prof. Alessandro Cicognani

(poesia scritta da una bambina malata terminale)

Edda CattaniGli Auguri più belli!
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Silenzio e solitudine

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SILENZIO E SOLITUDINE

 

 

 

Sia il silenzio che la solitudine possono portare sollievo o depressione, a seconda dei casi, possono essere ricercati e volontari, o essere subiti contro voglia. Possono essere entrambi, soli o abbinati, fonte di soave poesia o di tetra tragedia.

Il Silenzio della pietas quacchera è ricercato per vincere la solitudine in tutte le sue forme negative, soprattutto quella che fa sentire l’uomo abbandonato da Dio nel deserto della vita, anche quando è in numerosa e rumorosa compagnia, anche se frequenta allegri compari o religiosissime comunità religiose.

Dopo aver corso invano da una filosofia all’altra, da una confessione religiosa ad un’altra, è possibile che il ricercatore resti a mani vuote e non trovi il conforto di una mano amica che gli faccia sentire la presenza di Dio Padre.

È grande ventura trovare presto che non è così, che Dio è sempre vicino, che ci ama, che ci corregge, che ci ammaestra e conforta.

 

 

 

 

 

Ma troppi non sanno che è vano cercarlo per le vie del mondo, nei monumenti eretti dalla mano dell’uomo, salendo scale al paradiso inventate di sanapianta da fantasiosi Maestri di religione. Troppi ignorano che Dio tanto più parla quanto meno gli uomini parlano.

È quindi un dono di Dio scoprire la via del Silenzio, che permette in ogni momento, dovunque e in qualsiasi condizione, nel culto comunitario o nella temuta solitudine, di sentire la Sua voce al di là e al di quà degli organi dei sensi, del pensiero razionale, della cultura imperante.

Il Signore del Silenzio attende che tu affronti il Silenzio per metterlo al Suo ed al tuo servizio, per vincere gli orrori degli eccessi di folle schizofreniche e di emarginati isolati destinati all’autodistruzione.

Con Lui, Silenzio e Solitudine possono superare il più delle volte i loro risvolti negativi, anche se stanno insieme.

Il Silenzio Infranto


Il silenzio piano piano si affievolisce,
il pensiero prende il sopravvento
con passo felpato ma inesorabile,
il silenzio ora è quasi impercettibile,
sta esalando il suo ultimo respiro,
il pensiero diventa parola,
si trasforma in messaggio,
il silenzio è infranto nel frastuono
dei pensieri liberi e veloci
come i cocci impazziti di un vetro.

 


Edgar Kenneth


 

Edda CattaniSilenzio e solitudine
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Gli animali hanno un’anima?

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Ricevo da comuni amici la partecipazione per la perdita dei loro amici animali… Ripropongo allora queste storie vere… e anche qualcosa di più

 

Gli animali hanno un’anima?

Era il 25 settembre 1989. Lo ricordo benissimo perché ero tornata a casa dal lavoro molto provata. Oltre alla stanchezza per i numerosi impegni, un mio collaboratore era stato ricoverato con una sindrome che lasciava poco ben sperare e la cosa mi aveva lasciato confusa ed addolorata.

Loro, Andrea e Vanessa, erano in camera con un batuffolo di pelo rosso in mano che, a stento, riuscivano a trattenere. Ridevano i miei ragazzi cercando di nasconderlo fra le coperte del letto. “Un gatto in casa? Non ne abbiamo avuto abbastanza dell’altro? Non se ne parla nemmeno. Portatelo via subito!”

Ricordavo di avere cambiato da poco tende e tappezzeria dopo che era scomparso e finito non so dove un altro esemplare della specie che, un mattino, dopo essere stato la notte in giardino, non aveva fatto ritorno.

Tutto sommato mi ero affezionata a quella presenza, come al cricetino Tino, agli uccellini, alle tartarughe, al pesce rosso e, poiché uno alla volta se ne erano andati tutti, lasciando in me, dal momento che ero costretta ad accudirli, una naturale amarezza,  avevo giurato a me stessa: “Mai più bestie in casa mia!”

Invece non c’era stato nulla da fare. Andrea diceva che “quel pallottolino” gli si era attaccato ai calzoni mentre passava da una strada dove era abbandonato e che era stato proprio lui a sceglierlo.

Così dovetti abituarmi al nuovo giro: tende da rifare, poltrone sdrucite, tappeti e moquette da ripiegare. A dire il vero ci provai a trovargli un padrone, ma Andrea, appena lo seppe, se l’andò a riprendere trattando anche male la persona che si era offerta di tenerlo.

Lo chiamavano Pub Music, i miei ragazzi, o meglio Pelo Rosso, Mix e tante altre cose, giocando con lui che sembrava veramente aver trovato il suo ambiente ideale. A dire il vero sapeva comportarsi bene: non sporcava in casa, era regale e rispettoso ad un tempo, ma quando vedeva Andrea impazziva. Facevano corse, si arrotolavano sul pavimento, saltavano di qua e di là.

La sera Mix scendeva in giardino e risaliva il mattino. Quando mi affacciavo alla finestra e tiravo su la tapparella lo vedevo sotto, con gli occhioni verdi spalancati: “meo, meo, meo…”, scendevo le scale e lo portavo su. Ormai mi ero rassegnata a quell’intruso, come avevo fatto le altre volte. Era un compito mio. In questo mi aiutava anche Elena che faceva colazione con lui sulle ginocchia, dandogli qualche pezzetto di plumcake; così Mix divenne il gioco di tutti.

Ogni sera, al cancello aspettava i suoi padroni: prima arrivava Elena dal lavoro e saliva le scale con lei, poi tornava sotto con Andrea e con lui andava in fondo al viottolo, dove c’erano i ragazzi della “compagnia” e si strusciava sulle gambe di tutti. Era divenuto il boss dei paraggi, ormai: un bel gattone rosso “da pubblicità”. Tutti conoscevano il gatto di Andrea e lui sapeva farsi rispettare ed accarezzare da coloro di cui si fidava.

Poi Elena andò via di casa e Mix l’aspettò invano. Una sera, dopo diverso tempo, la vide arrivare e le corse incontro con tanta gioia che si incespicava dappertutto e addirittura, mentre la seguiva, per l’emozione, se la fece addosso. Lei rideva e anch’io a dire il vero, ero commossa nel vedere la capacità di ricordare e di sentire di una bestiola che, in fondo, era pur sempre un animale “senz’anima”…

Andrea però era ancora in famiglia ed ogni sera, verso le undici, come un orologio, il gatto rosso si appostava sul cancello di casa e lo aspettava. Freddo, pioggia o neve non lo smuovevano; al suo arrivo, veniva di sopra con lui e andavano a letto insieme. Dormiva ai suoi piedi o intorno al suo collo.

Era commovente vederli abbracciati. Non posso dimenticare quei quadretti “da poster”: un ragazzone bruno con un peluche rosso fiamma intorno al viso, attorcigliato come una ciambella.

Poi Andrea partì per il servizio militare e furono lunghi mesi di attesa: ogni sera ad aspettarlo al cancello, finché un pomeriggio, mentre faceva la siesta sull’erba del prato, lo vide sopraggiungere dal viottolo, in fondo. Arrivava dalla stazione il mio Andrea, in congedo per la sua prima licenza. Chi si accorse del suo arrivo fu proprio lui, il gatto Mix o Pelo Rosso che, in quattro balzi, gli fu accanto e gli saltò addosso. Andrea rideva e lo accarezzava, così pure erano commossi gli altri ragazzi della compagnia, accorsi dal circondario, per aver saputo della sua venuta.

Andrea era partito con le scarpe da tennis, la maglietta e i calzoni di jeans ed era tornato in divisa, ma Mix lo sentiva ugualmente come il suo, solo padrone ed amico e, in quel rapporto univoco, c’erano tutti i loro giochi, le loro intese, i loro complotti, il loro scambiarsi affettuosità esclusive.

Così continuò la storia finché Andrea fu assegnato al corpo della scuola Trasporti e Materiali di Padova ed essendo stato nominato ufficiale capo della Regione Nord Est, poteva tornare a casa a dormire tutte le sere.

Dalle undici a mezzanotte, una palla di pelo rosso stanziava vicino al cancello di casa, ogni sera, attendendo l’arrivo dell’amico; con lui saliva e con lui scendeva il mattino alle cinque quando Andrea si recava in caserma per l’alzabandiera.

Ma una sera, era il 5 dicembre 1991, Andrea non tornò a casa e Mix lo attese invano. Lo attese a non finire, incurante del tempo e dell’avanzare degli anni, ogni sera, alla stessa ora.

I primi tempi, io, sempre di corsa e affannata per il mio dolore, non avevo altro luogo dove dare sfogo al mio pianto irrefrenabile che recarmi giù in garage e chiudermi dentro la macchina di Andrea, rimasta parcheggiata, per piangere liberamente, accarezzando le sue cose.

Una sera a cui seguirono tante altre sere, mi accorsi che fuori dal garage venivano tre, quattro, cinque gattini al seguito di Mix e mi guardavano silenziosi.

Così presi ad andare di sotto portando loro qualcosa da mangiare; ogni giorno, per tutti questi anni, la stessa cerimonia. Quelli del condominio cominciarono a vedermi un po’ come “la mamma dei gatti”, o meglio, a compatirmi per non avere più nessuno da accudire, se non quattro gatti randagi.

Mix sapeva bene quale fosse la sua casa, ma difficilmente saliva le scale. Viveva di sotto ormai, nel suo regno di gatti senza padrone e primeggiava su tutti. A volte lo sentivo giù, nell’ingresso lamentarsi: “ meo, meo, meo…” tre volte, mentre saliva e allora gli aprivo la porta e lui si accomodava sulla sedia della cucina dove rimaneva fino al mattino.

Non andò più in camera, non salì più su in mansarda, luogo dei giochi e delle  capriole. Elena ci regalò un persiano bianco e quindi Pelo Rosso e Pelo bianco non amarono frequentarsi: uno stava sotto, in giardino, ed uno sopra.

Sono passati otto anni quasi, da quella notte del ‘91 e mai Mix ha cessato di attendere. Poi, per lui ci sono stati un rincrudirsi di episodi che, data la condizione in cui ha vissuto, sempre di sotto in giardino, l’hanno fatto ammalare e così si è sfinito un po’ alla volta.

Ha subito tre interventi e l’ho curato con ogni tipo di medicinali, cambiando anche medico, ma un giorno dello scorso settembre, prima di partire per il 13° Convegno del Movimento della Speranza, ho capito che non c’era più nulla da fare.

L’ho messo nella gabbia, mentre lui mi guardava con i suoi occhioni verdi e tristi, povera palla spelacchiata, ormai tutto ossa, senza un lamento e l’ho lasciato dal veterinario: “Faccia lei dottore, quello che crede, ma non mi chieda cosa deve fare. Mi telefoni fra qualche giorno se riuscirà a guarirlo, altrimenti non dica nulla. Mi farò viva io.”

Passarono i giorni, ritornai da Cattolica e non ebbi il coraggio di telefonare. Capivo quel silenzio, ma speravo. Poi, sabato, 25 settembre, mentre eravamo alla Messa, alla riunione mensile della nostra ACSSS, durante la comunione, alle cinque e mezza, sentii distintamente quell’inconfondibile “meo, meo, meo..” nell’ingresso dell’istituto… Gatti non ce n’erano in quel luogo e capii che qualcosa doveva essere avvenuto.

Tornammo nel salone e mentre facevamo una registrazione, distintamente, si ripeté il miagolio… Non c’erano dubbi: un gatto, il mio Pelo Rosso, il gatto Mix di Andrea mi era accanto e non potendo esserci da vivo, voleva pur dire che in qualche modo mi aveva raggiunto.

L’avevo chiesto ad Andrea: “Aiutalo, prendilo con te… sono otto anni che ti aspetta ogni sera… E’ l’ultima cosa vivente che mi resta di te, figlio mio, ma non posso vederlo soffrire così!”

Il lunedì successivo ho telefonato al medico: “Signora, sabato scorso mi sono deciso. Non c’era più niente da fare ormai. Soffriva e null’altro. Ho fatto in modo che si addormentasse per sempre, senza soffrire”.

“L’ho saputo dottore, l’ho saputo. Alle cinque e mezza, vero?”

Ho sognato il gatto Mix che faceva salti da un divano all’altro con il suo padrone ed una grande pace è subentrata allo sconforto. Mi è caro pensare ad una palla di pelo rosso che si rotola fra le nuvole, in braccio al mio Andrea, finalmente uniti, lassù, in Paradiso.

                                                               Edda Cattani

 

Ed ora vi aggiorno su “Martino” l’ultimo arrivato in casa mia proprio il giorno di San Martino … un po’ di allegria… tante capriole, fusa, rincorse che mi facevano sorridere… Piccolo Martino, gatto rosso come un suo precedente inquilino di cui trovate la storia più sotto… ha fatto un volo troppo alto… ed ha battuto il nasino … anche lui … piccolo birichino farà le fusa con Mix, Max in braccio ad Andrea…

Ed ora la storia di “Un cavallo da corsa in un mondo senza piste”

A tutti capita di essere per lo meno una volta nella vita, cavalli da corsa in un mondo senza piste. Che vuol dire che ci sentiamo dei puro sangue in un luogo che non ci contempla. Cerchiamo le piste, vorremmo le piste, ma non ci sono, per lo meno per noi. E allora non ci resta che adattarsi al pascolo. 

I più fortunati trovano la prateria, un’unica immensa distesa dove dispiegare la propria corsa e dunque la propria libertà. Infinito e cielo. 

Ho pensato a questo sentendo di Vale, il cavallo di HELGA che se n’è andata dopo aver donato l’ultima passeggata alla sua grande amica:

 

Questa è una leggenda indiana…
THE RAINBOW BRIDGE
(il ponte dell’arcobaleno)



Questa del ponte dell’arcobaleno è un antica leggenda che si tramanda dalle tribù degli indiani d’america ed è dedicata a tutte quelle persone che soffrono per la morte di un loro caro amico e tutti gli animali che sulla terra hanno amato gli uomini. Davanti all’entrata del Paradiso c’è un luogo chiamato Ponte dell’arcobaleno per i bellissimi colori da cui è formato. Quando muore una bestiola che è stata particolarmente cara e speciale a qualcuno, questa bestiola va sul ponte dell’arcobaleno. Questo è un posto meraviglioso ci sono prati, grandi alberi, e colline verdi dove l’erba è sempre fresca e profumata per tutti i nostri amici tanto speciali e là corrono e giocano tutti insieme. C’è tanto cibo (il loro preferito) ruscelli con acqua fresca con la quale dissetarsi e il sole che splende, tutto a volontà e i nostri amici sono al caldo e stanno bene. Tutti i piccoli che erano ammalati e vecchi sono tornati ad essere in salute, giovani e pieni delle loro forze. Quelli che erano feriti e mutilati sono tornati ad essere nuovamente integri e forti, così come li ricordiamo nei nostri sogni di giorni e tempi passati. Gli animali sono felici e contenti, tranne che per una piccola cosa: ad ognuno di loro manca qualcuno di speciale, molto amato, che si sono lasciati alle spalle, indietro, lontano verso l’orizzonte. Corrono e giocano insieme, ma verrà il giorno in cui uno di loro si fermerà improvvisamente e guarderà lontano. Tutti i suoi sensi saranno all’erta, i suoi occhi splendenti, luminosi e lucidi saranno attenti, il suo corpo palpiterà e tremerà dall’emozione, per l’eccitazione e impazienza. Improvvisamente si staccherà dal gruppo, inizierà a correre sull’erba verde, le sue zampe sembreranno volare sempre più veloci sul prato. Ti ha visto e ti riconosciuto. E quando finalmente vi raggiungete, incontrerete e sarete insieme vi stringerete in un abbraccio gioioso, unico, per non separarvi mai più. Baci felici pioveranno dal tuo viso, le tue mani accarezzeranno nuovamente la testina tanto amata e potrai finalmente fissare ancora i suoi fiduciosi occhietti, stati lontani tanto tempo dalla tua vita ma mai lontani ed assenti dal tuo cuore. Allora insieme attraverserete il ponte dell’arcobaleno…

Gli animali hanno un’anima?

Dopo l’uscita dell’articolo sul libro che sottopongo alla vostra attenzione, in cui il giornalista pubblicò la storia del mio gattino Mix, ho visto soprattutto da parte dei giovani un grande interesse per questo argomento. Ho pensato perciò di pubblicare gli articoli con le mie storie personali ed altri che mi sono giunte. Ringrazio i coordinatori di:

http://it.unitedcats.com/forum/312/fl/2051/t/45008  che si sono premurati di pubblicare il mio articolo facendone gradevoli commenti. Propongo quindi, oltre alle mie,  nuove storie appena giunte ed invito, chi voglia, di inviarne altre a  edda.cattani@alice.it

 

 

Anche gli Animali Vanno in Paradiso

Storie di cani e di gatti oltre la vita

Questo libro aiuterà ad amare gli animali di più e con maggiore generosità, proprio come loro amano noi. Le testimonianze e le storie che raccoglie, scritte da famosi medium, da mistici e teologi ma anche da persone comuni, saranno di sicuro conforto per chi ha perso il proprio fedele compagno a quattro zampe. Questo libro aiuterà a ritrovare l’amico cane o gatto, a continuare ad amarlo, a parlargli, perché la vita sulla Terra non è che un passaggio che ci prepara alla vera vita.

 ANCHE GLI ANIMALI HANNO UN’ANIMA 

(espressioni di esponenti della Chiesa)

 

Padre Luigi Lorenzetti, teologo ,di Famiglia cristiana, spalanca le porte del Paradiso agli animali : “Hanno ricevuto un soffio vitale da Dio , scrive e sono attesi anch’essi dalla vita eterna”.

Paolo VI disse : “Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo”, e rivolto ai Medici Veterinari: “Vi esprimiamo il nostro compiacimento per la cura che prestate agli animali, anch’essi creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’universale stigma del peccato e dell’universale attesa della redenzione finale, secondo le misteriose parole dell’apostolo Paolo.”

Gaspare Gherardini , canonico di Santo Spirito di Roma , nella metà del Settecento affermò:
“Scopersi nella macchina degli animali un fine savissimo, un fine degnissimo della Divinità”

Papa Giovanni Paolo II nel 1990 si espresse in tali termini: “La Genesi ci mostra Dio che soffia sull’uomo il suo alito di vita. C’è dunque un soffio, uno spirito che assomiglia al soffio e allo spirito di Dio.   Gli animali non ne sono privi.”
Non sono solo animali , cioè non è solo un cane, un gatto, una tartaruga o un criceto etc.: Fanno parte del valore affettivo dell’uomo, a sua volta questo strano animale che non si arrende all’idea che tutto finisca, e che aspira all’immortalità per sé e per tutti i suoi cari.

 

Da http://www.amicianimali.it/paradiso/index.html

 Gli animali hanno un’anima? La storia del gatto Mix

Anche le piccole cose non andranno perdute. La storia di Max 

 

 

Anche le piccole cose non andranno perdute!

 

 

In questi mesi di grande calura estiva può far piacere occuparci di piccole cose che pur circondano la nostra vita e diventano importanti nei nostri affetti. Vorrei parlare dei piccoli animali, dei quali ebbi già modo di scrivere tempo fa in occasione della pubblicazione del testo “Gli animali hanno un’anima” ediz. Mediterranee.

Ebbene, in questo ultimo periodo segnato dalla sofferenza e da grandi prove che hanno mutato il volto della mia famiglia, mi sono trovata anche ad affrontare la scomparsa di Max, fedele amico della mia esistenza da oltre quindici anni.

Era un gatto bianco dal lungo pelo folto, un siamese simile a quello reclamizzato dalla Gourmet, che faceva parte del nostro contesto da quando Andrea se n’era andato. Era entrato come un dono all’interno della casa,acquistato a Milano da Elena che l’aveva notato in un cestino dentro una vetrina. Ogni sabato, venendo a casa nostra, lo portava con sé; Mentore lo prendeva con delicatezza in braccio e lo cullava come un bambino, chiamandolo: “…piccino, piccino…”.

Elena aveva capito che nella nostra solitudine quel piccolo animale avrebbe portato un po’ di calore ed un sabato finse di dimenticarlo; così Max rimase da noi. Abitavamo allora in un appartamento con mansarda e lui si divertiva a saltare dal terrazzino sul tetto per rincorrere gli uccellini. Una sera addentò un pipistrello e lo depose in camera, fra le urla di Alessandra e la meraviglia di quel piccolo essere che pensava di dimostrarle il suo affetto con quel dono prezioso.

Così Max visse i suoi anni migliori, guardando il mondo dall’alto e tentando qualche volo spericolato: una volta dal terzo piano si buttò sull’albero sottostante e non pago dell’esperienza, continuò a camminare sul davanzale guardando il giardino. Poi cambiammo casa e venimmo in questa villetta dove Max conobbe la vita vista da sotto. Potè correre nel prato, arrampicarsi sugli alberi, ma soprattutto rincorrere i gatti del vicinato che si permettevano di affacciarsi al nostro cancello. Dispotico ed esclusivista di temperamento, non tollerava nessuna intromissione nella sua proprietà, ma con noi, soprattutto con Mentore, era di una dolcezza infinita. Quando si guardavano sembravano dipendenti l’uno dall’altro e vivevano in una sorta di simbiosi che commuoveva. Era Max che aveva colmato i silenzi delle lunghe mie assenze dovute al lavoro ed era Max che accorreva sentendo il motore della macchina, al mio ritorno. Si mostrò incuriosito quando a casa nostra cominciarono a venire i piccoli Simone, Tommaso e Giulio i quali lo guardavano con altrettanto stupore e lo rincorrevano cercando di afferrarlo per la coda. Quante gare di velocità… e infine un nascondiglio sicuro, al riparo dai monelli!

E venne il tempo in cui Simone si ammalò mentre io correvo impegnata con Tommaso ormai ospite fisso a casa nostra, dove tutti cambiammo umore ed abitudini. Mentore proseguiva nel suo silenzio e nella sua amnesia, ma all’ora stabilita, non mancava di preparargli la ciotola. Io non mi accorsi che entrambi erano molto ammalati, che Max ormai beveva solo acqua e rimaneva a dormire troppo a lungo.

Quando Simone tornò dall’ospedale e anche Tommaso raggiunse la famiglia, capii che Max non era più lo stesso e decisi di portarlo in clinica. Mi dissero di lasciarlo lì perché c’erano vari esami da fare e dopo qualche giorno la diagnosi fu drastica: non vi era più funzionalità renale e poco ci sarebbe stato per farlo sopravvivere. Feci di tutto per salvarlo: lo portai a casa con iniezioni, pappe di ogni genere, cure omeopatiche… Max ormai era a pezzi, senza forze, né equilibrio. Mentore lo guardava silenzioso senza nulla chiedere. Una sera mi appoggiò la testina su una spalla e fece un lungo lamento quasi a chiedermi di lasciarlo andare. Scesi a pian terreno e gli feci una lunga toeletta: doveva essere bello per il grande salto! Poi lo fotografai con il cellulare, più e più volte; guardando le foto notai subito che intorno a lui si era formata un’aura prima verde, poi rosa, poi luminosissima. Tutto era compiuto e Max era atteso, piccola creatura, dolce ricordo della mia famiglia al completo, del mio tempo migliore. Il mattino successivo lo portai dal veterinario: “Le lascio un pezzo del mio cuore, tenga pure la cassetta, non mi serve più… “ e Max mi guardò a lungo, riconoscente per aver compreso la sua sofferenza… ma quanto strazio. Mi vergogno a dire che piansi lasciando quel piccolo battutolo peloso, ormai tutto pelo e ossa che mi guardava con i suoi incantevoli occhi tristi. Il pomeriggio pensavo: ”Dove sei piccolo Max? Forse mi starai guardando da una nuvoletta!”. In quel momento giunse un MMS da una mia amica sul cellulare: senza nulla sapere aveva scattato una immagine del cielo; era una nuvola soffice e in alto c’era la testina di Max.

Non bastò questo segno… il giorno successivo scattai una foto in giardino e sull’albero di susine, di fianco, dove si metteva Max c’era lui accovacciato.

Il mio piccolo Max, fedele amico delle pareti domestiche che hanno visto tanti mutamenti e trasformazioni, a volte gioiose, a volte dirompenti mi raggiunge ogni sera e, all’ora della pappa sento spostare la ciotola o fregare la zampina sulla poltrona e sulla mia testa. Ci sono momenti in cui mi giro sicura di vederlo perché lo sento correre, fermarsi, saltare sui mobili;  sento il suo tenue, delicato miagolio, il suo richiamo. Mentore non mi ha detto, né chiesto nulla; ora che il suo caro amico non c’è più ha rari motivi di interesse e di compagnia… solo una sera l’ho sentito mormorare: “Andrea sta bene, è in cielo che gioca con i suoi gattini”.

la testina di Max

sulla nuvoletta

ecco Max a destra

come ogni giorno

seduto sul ramo

dell’albero

il mio caro Max con me l’ultima sera insieme

      Jazz e la sua famiglia. La storia del cane Jazz

 

Jazz e la sua famiglia

 

 Vi presento jazz ,un bracco ungherese che per 11 anni ha rallegrato la nostra vita con sguardi dolci con cui ci comunicava il suo star bene insieme a noi. Anche i nostri tre gatti erano suoi amici ed era felicissimo di poter giocare con loro. Seguiva attentamente i nostri discorsi e i nostri atteggiamenti e ci faceva capire se li condivideva oppure no. Il 18 novembre scorso cominciò a manifestare inappetenza e portato dal veterinario, gli venne diagnosticato un linfoma maligno dei più devastanti, pochi mesi di sopravvivenza…. Ma il giorno 11 dicembre le sue condizioni precipitarono senza scampo e con il cuore a pezzi dovemmo percorrere quella strada che si chiama “eutanasia” (terribile esperienza). Poco tempo per renderci conto che tutto era finito, il sollievo di non vederlo più soffrire ma un immenso vuoto dentro di noi. Anche gli animali hanno un’anima e saperlo vivo in una dimensione parallela alla nostra anche se invisibile, ci dà un po’ di sollievo. Sappiamo che ogni volta che penseremo a lui c’è…… senza più sofferenze ma con grande amore; siamo stretti per sempre in un legame energetico, un filo che non viene tagliato neppure dalla morte. Ci rende sereni immaginarlo  correre e saltare nel nostro giardino che tanto amava e sicuramente continuerà a farlo insieme a noi…

                                                                               la famiglia di jazz     aldo enza helga

Gentilissima sig. Edda, ho trascritto questo breve sunto della vita di jazz, se le fa piacere farlo conoscere. La ringrazio molto della sua dolcezza e gentilezza, se per caso ha 10 min di tempo provi con il registratore e se dovesse manifestarsi e comunicarle qualcosa ci piacerebbe avere questa meravigliosa testimonianza. Ho letto il libro di Kate Solisti “Parola di cane” che con telepatia parla con loro e ne riceve le risposte perché tutti gli esseri sono partecipi della coscienza divina.

un abbraccio Enza

 

… e ci puoi credere…

“   Bu…bau…si spezza il filo per strada, ma non moriamo…. “

 

                                                                                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniGli animali hanno un’anima?
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Al di là dei sogni

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“… ma io lo sogno…”

Possiamo comunicare con i nostri Cari, attraverso il sogno?

 

Franco era un bel bambino, con due grandi occhi bruni, sorridente e sereno. I miei zii l’avevano accolto con tanto amore e su di lui avevano fatto mille progetti. Poi, un giorno terribile, subentrò una circostanza nella felice famigliola e nella vita di Franco che fu inibito nelle principali funzionalità. I genitori, pur nella sventura, ebbero cura di seguire il loro figliolo e, grazie a questo amore, egli poté condurre una esistenza al limite della normalità. Ma, com’era prevedibile, non ebbe la durata di una vita media ed un giorno Franco se ne andò; andò via in silenzio com’era vissuto, ormai distrutto nel corpo, quasi cieco, povera creatura martoriata da mille dolori. La madre, quella santa donna di mia zia, gli stette vicino, determinata fino all’ultimo, per raccoglierne gli ultimi istanti finché lo vide sorridere verso la porta… i nonni defunti erano venuti a ricevere il loro nipotino.

         Franco mancò quasi contemporaneamente al mio Andrea e, con la zia, abbiamo sovente scambiato lacrime ed espressioni. Lei ascoltava quanto le dicevo e leggeva, attraverso “l’Aurora”, quanto raccontavo e commossa mi chiedeva: “… ma tu gli parli? E cosa ti dice? Sta bene? E’ felice?”. Sono queste le domande di sempre che tutti i genitori “orfani” rivolgono; ma alle mie risposte lei replicava: “Io non lo sento, ma lo sogno sempre!”. Sono convinta e credo a questo, come sono certa che Franco abbia trovato una via privilegiata per contattare la sua mamma che l’ha accudito ed amato con disperata fermezza. Mi chiedo allora cosa ci possa essere al di là di questo fenomeno così enigmatico che gli studiosi del settore definiscono “sogno veridico” asserendo che, fra tutte le vie primarie di possibile contatto con coloro che ci hanno lasciato, la via più naturale passa attraverso il sogno.

        

         Ricordo di avere letto, qualche tempo fa, che nell’ora della giornata in cui le tensioni si attenuano e giungiamo al riposo, la coscienza riesce a percepire le vere immagini o messaggi che giungono dall’altra dimensione. E’ come se, fra noi e loro, ci fosse una rete di maglie; queste si allentano proprio nel momento del contatto per farci percepire quanto i nostri Cari vogliono dirci. Ovviamente stiamo parlando sempre di “sogni veridici” o meglio paranormali  cioè corrispondenti a fatti reali. E’ in questo campo che si verificano le premonizioni, sia nel bene che nel male, che anticipano il futuro e che possono essere attribuibili a facoltà di colui che sogna, ma anche a presumibili entità spirituali.

         Si tratta, pertanto, di circostanze straordinarie ed enigmatiche perché trascendono la nostra realtà corporea e psichica proponendoci una situazione impalpabile e labile, sfuggente e da ripercorrere a ritroso con opportune riflessioni e agganci. Il sogno si presenta denso di significato che acquista per noi una valenza determinante per farci considerare che qualcosa o qualcuno ci ha raggiunto e ci presenta prove certe della sua esistenza.

         Spesso alcuni affermano di non sognare e di non avere esperienze in tal senso ma in verità questo non è possibile, perché lo stato di sonno, con le cosiddette fasi di REM e NON-REM, appartiene a tutti; in caso contrario piomberemmo nel patologico. Quando mancò Andrea, ci trovammo sommersi da un’infinità di segni a cui non sapevamo dare spiegazione: io non connettevo e vivevo in una condizione di astenia totale finchè dopo qualche giorno, mio marito che afferma di non sognare si svegliò all’improvviso per raccontarmi quanto gli era successo. Mi disse di avere visto Andrea con una grossa borsa da viaggio, in partenza per una stazione indefinibile; il ragazzo non si decideva a salire sul treno, ma Mentore, pure in un grande stato di angoscia, lo prese per mano e lo condusse verso la carrozza. Mi disse di aver visto il treno che si allontanava pian piano e di averlo seguito a lungo, con lo sguardo; egli era certo che Andrea, dopo i tanti tentativi fatti, intorno a noi, per darci prova della sua esistenza, dovesse a quel punto allontanarsi e che abbia voluto farsi accompagnare dal suo papà, nel suo estremo viaggio, per essere da lui rassicurato, come aveva fatto nelle fasi più importanti della sua esistenza sulla terra.

         Qualche giorno dopo vennero gli amici di Andrea a casa nostra e si fermarono nella sua stanza, come sempre, per sentire un po’ di musica; io e Mentore ci eravamo appartati in malinconica riflessione sui tempi andati e sulla nostra famiglia ormai distrutta. All’improvviso fummo raggiunti da un suono forte e dolce ad un tempo che Mentore definì di “una tromba d’argento” che persisteva, con tono uguale senza volere cessare. I vicini di casa uscirono per vedere se qualche auto non avesse l’allarme innescato, ma fuori non vi erano macchine in questa condizione. I ragazzi con molta semplicità si affacciarono alla finestra dicendo: “questo zé Andrea che fa casìn” , mentre una vecchierella nella casa accanto confessava allarmata: “Madona, ghe zé i spiriti!”. Noi ci trovammo inebetiti a sorridere, comprendendo il messaggio finché Mentore disse: “Ora basta Andrea, abbiamo capito che sei tu!”. A quel punto il suono cessò. Qualche notte dopo sognai Andrea che ben distintamente mi disse: “Sono io mamma, quell’angelo che suona la tromba.”

        

La mia amica Cettina

              Ora vorrei raccontare un sogno accaduto ad altri, ma che mi ha coinvolto direttamente. Nei primi congressi a cui ho partecipato ho conosciuto una cara persona, la mamma di Giovanni, che mi è diventata amica al punto che Andrea definisce Giovanni “mio fratello”. E’ stata lei stessa, che ritroverò a Cattolica proveniente da Taormina, a raccontarmi quanto segue:

“Ho conosciuto, andando in cimitero, la mamma e la zia di Danilo, un ragazzo mancato dopo i nostri figli. Un giorno la zia mi disse di avere sognato di trovarsi in cimitero e di avere visto accanto a sé un bel giovane che le sorrideva e che le aveva detto ‘Sono Andrea, il fratello di Giovanni!’. Io le feci presente che a Taormina non c’era il fratello di Giovanni, che si chiama con un altro nome ed abita a Torino. Ci incamminammo verso casa e giunti lì, la zia di Danilo entrò e le feci vedere l’altarino dove tengo le foto del mio Giovanni e, accanto a lui, c’é quella di Andrea che tu mi desti al nostro primo incontro. A quel punto la zia trasalì e mi disse: “…ma questo è il giovane che ho visto in cimitero!” E’ chiaro che Andrea ha voluto dire anche ad altri, attraverso un sogno, che lui e Giovanni sono vicini come fratelli.”

            Tanti sono gli episodi che potrei raccontare, di cui tanti di noi sono in possesso, ma ci sarà modo di approfondire l’interessante tematica del sogno paranormale in un incontro congressuale futuro. Non vi è dubbio, però, che fra le varie “tecniche” che abbiamo a disposizione per riprendere i contatti con i nostri Cari, in un dialogo che supera la morte fisica, vi sia anche una via naturale, spontanea quale quella del sogno.

         Anche le scritture bibliche parlano, più volte, di sogni attraverso i quali Dio ha dato conto della sua presenza e dei suoi disegni: pensiamo a Giacobbe che proprio in sogno ebbe la visione della scala che poggiava sulla terra e la cima giungeva fino al cielo, mentre angeli andavano e venivano attraverso essa (Genesi 28,12). I padri della Chiesa interpretarono questo sogno come un’anticipazione dell’incarnazione del Verbo che avrebbe mediato fra cielo e terra. Gesù poi  confermò il sogno del Patriarca: “vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Giovanni 1,51). Altri hanno voluto interpretare l’immagine della Provvidenza di Dio attraverso gli angeli.

 

Dalle nostre amiche di FB 

Questa è Vanessa

 Io sono Loredana Valente.. nonché la zia dell’angelo di Vanessa Di Roma.. Figlia di mia sorella Anna Maria Valente…Vanessa era una figlia per me…!! La sogno spesso..ma questa notte è successo una cosa bellissima..!! Io tutte le notti.. o per insonnia o non so che sia.. mi sveglio e vedo l’orario dalla radiosveglia..!! Potevano essere circa le ore 4.. e.. vedo sui numeri della radiosveglia un e.. poi altri tre numeri… poco dopo .. mi sveglio e vedo 2 e altre numeri(dei minuti).. poco dopo mi sveglio e vedo 3 … ed un numero (dei minuti).. alla fine mi sveglio e vedo la mia radiosveglia con i 4 … Che cosa bellissima..!!! Peccato che non ho fatto le foto… non ho pensato a farle..!! Pensavo fosse una vista mia ottica???? Cosa vuol dire?? Il mio angelo era con me?? E’ stato bellissimo…!!!

Edda CattaniAl di là dei sogni
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Alda Merini : Ognissanti

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Festa di Ognissanti:

la scomparsa di una grande donna

LA SEMPLICITA’-VENTO

La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili,
di finire alla mercé di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, in forza appunto.
Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore.

Alda Merini 

In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.» È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.» Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo. Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.» Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta). Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro). Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui. Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.» Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. » È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale. Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55). Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.» Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.» Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010. In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.»

È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.»

Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo.

Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.»

Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta).

Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro).

Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui.

Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.»

Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. »

È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale.

Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55).

Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.»

Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.»

Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010.

Edda CattaniAlda Merini : Ognissanti
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Nati per vivere

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NATI PER VIVERE

Si avvicina la ricorrenza della commemorazione dei defunti che, in questo mese  rivede la  consuetudine di andare al Cimitero e in tale occasione abbellire le tombe. In molti modi le comunità parrocchiali esprimono questo senso della speranza cristiana, ma anche la tradizione popolare porta a rappresentare usanze gradevoli in cui sono coinvolti vecchi e bambini. Il mio quotidiano pellegrinaggio al “santuario” si è trasformato in una commovente visione che ha richiamato alla memoria una poesia della mia infanzia di Ugo Betti  “Schiarita di Novembre” che così recita:

Schiarita di Novembre
al tuo breve sereno
già il camposanto di fioretti è pieno.

Sembra infatti che, ogni anno, pur in condizione di maltempo, compaia, in questa circostanza, un tenue raggio di sole a voler dare conforto e luce ai tanti visitatori .

In questi giorni non può mancare una riflessione sui grandi temi che riguardano i misteri principali dell’esistenza: la vita e la morte. 

L’atteggiamento della Chiesa, non può che essere in favore della vita e non rinuncerà mai a fare questo, né a pregare per chi è in difficoltà né, infine, al suo impegno culturale e pubblico, affinché l’uomo capisca di essere soggetto e non soltanto oggetto.

Leggo anche che Hugo Claus più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, nel 2000 vincitore del premio Nonino è morto a 78 anni in un ospedale di Anversa, nel giorno e l’ora in cui aveva deciso. Il più grande scrittore fiammingo, romanziere, drammaturgo e poeta, Hugo Claus, voleva andarsene con fierezza e dignità, prima che la malattia, l’Alzheimer, lo consumasse, gli impedisse di scrivere, dipingere, lo rendesse estraneo a se stesso e agli altri. E così è stato. Se n’è andato per eutanasia, ha comunicato la sua casa editrice, perché il Belgio è uno dei tre paesi europei, con Lussemburgo e Olanda, dove la “buona morte” – dal 2002 – è legale.

Mentre mi accingevo a scrivere il titolo di questo breve saggio, ho pensato come queste  vicende possano dar rilievo ad una iniziativa contrastante, quella dell’ Associazione “Nati per vivere”. L’Associazione si è costituita nel 1996 per iniziativa di un gruppo di genitori di bambini nati prematuri e di alcuni medici ed infermieri operanti nel reparto di Neonatalogia dell’Ospedale Civile di Brescia con lo scopo di migliorare la cura e l’assistenza dei neonati a rischio e di fornire un’assistenza di carattere psicologico e materiale ai genitori attraverso un’opera di volontariato. “Nati Per Vivere” è un progetto concreto, fondato sullo scambio etico-professionale e psicologico tra medici e familiari dei neonati.

Cosa non si fa quando nasce un bambino? E’ vivo in me il ricordo del momento in cui sono venuti alla luce i miei piccoli nipoti , leggermente in anticipo sulla data prevista e quanto si è temuto per la loro crescita.

Inoltre  mi trovo a riflettere sulle condizioni psicologiche di tanti parenti come me che hanno seguito i loro cari in una struttura, luogo in cui gli ospiti, a volte non anziani, vivono il calvario della perdita progressiva delle funzioni dell’autonomia e della memoria.

Queste storie, la mia storia dolorosa, sono l’immagine della nostra vita crocifissa con Cristo,  oggi come ogni giorno, spalanca anche noi alla piena comunione con Dio Padre; il suo onore, la sua gloria in noi, danno peso, consistenza, senso e pienezza alla nostra vita.

Tutto quello che cerchiamo, che ogni uomo spasmodicamente cerca tra lifting, sport, investimenti, studio, affetti e sforzi e compromessi, è il desiderio più profondo del nostro cuore che ci è donato sulla nostra sofferenza, il luogo che invece disprezziamo e fuggiamo. Con Cristo sulla Croce la nostra vita è ritrovata, conservata, realizzata. Dove si perde si ritrova, è questo il segreto della felicità.

Andiamo avanti dunque e non dimentichiamo che la vita è un dono, una grande opportunità che ci è offerta affinché , in ogni momento si dia il meglio in ogni circostanza… me lo hanno insegnato i miei nipotini che, ieri sera, guardando un  cartone animato, ripetevano con le parole di un personaggio saggio:

“ IERI E’ PASSATO, DOMANI E’  UN  MISTERO, MA L’OGGI  E’ UN DONO… PER QUESTO SI CHIAMA  PRESENTE !”


Edda CattaniNati per vivere
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Questo amore

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Vi dono, per questa domenica, una delle poesie d’amore più belle di tutti i tempi.

Questo Amore

di Jacques Prevert

1b

Questo amore
Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
E cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gaio
E così beffardo
Tremante di paura come un bambino
al buio
E così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore
della notte
Questo amore che impauriva gli altri
Che li faceva parlare
Che li faceva impallidire
Questo amore spiato
Perché noi lo spiavamo
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Perché noi l’abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Questo amore tutto intero
Ancora così vivo
E tutto soleggiato
E’ tuo
E’ mio
E’ stato quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
E che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda e viva come l’estate
Noi possiamo tutti e due
Andare e ritornare
Noi possiamo dimenticare
E quindi riaddormentarci
Risvegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognare la morte
Svegliarci sorridere e ridere
E ringiovanire
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
E ci parla senza dir nulla
E io tremante l’ascolto
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti coloro che
si amano
E che si sono amati
Sì io gli grido
Per te per me e per tutti
gli altri
Che non conosco
Fermati là
Là dove sei
Là dove sei stato altre volte
Fermati
Non muoverti
Non andartene
Noi che siamo amati
Noi ti abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre
E non importa dove
Dacci un segno di vita
Molto più tardi ai margini di un bosco
Nella foresta della memoria
Alzati subito
Tendici la mano
E salvaci.

 

Edda CattaniQuesto amore
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