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La dinamica di vita e morte

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La dinamica di vita e morte 


LA VITA È POSSIBILE GRAZIE ALLA MORTE.

(da Vito Mancuso).

 

Il motore della vita


Ogni giorno nel corpo umano muoiono circa cento miliardi di cellule, sostituite da un processo rigenerativo che lavora a una velocità di un milione di nuove cellule al secondo. Questo avviene per quasi tutte le componenti del corpo, dalla pelle al sangue, dal sistema immunitario al cuore. Ogni essere umano viene continuamente rinnovato, il suo corpo non è mai lo stesso.
Questa dinamica di vita e di morte, di vita dalla morte, è la struttura di fondo che muove l’organismo umano, così come ogni altro organismo vivente.
Ma se si guarda più da vicino questo processo, come ha fatto l’immunologo francese Jean-Claude Ameisen, se ne scopre la sorprendente dinamica interna: ciò che avviene in continuazione nel corpo sembra contrastare col movimento fondamentale della vita quale viene percepita dalla coscienza comune, la vita come volontà di sé, come volontà di potenza.

A un certo punto, senza che si possa registrare alcuna costrizione esterna, la cellula mette in circolo delle proteine con il compito di distruggere il filamento di DNA racchiuso nel suo nucleo. Le proteine killer eseguono il loro lavoro e la cellula finisce per frammentarsi in una miriade di pezzettini. Nel contempo la stessa cellula rende attive altre proteine che segnalano quanto sta avvenendo alle cellule vicine, le quali, captato il messaggio, si stringono alla membrana della cellula e la divorano.
Ameisen usa al riguardo l’espressione di «suicidio cellulare». Questa morte volontaria della cellula che si dà in pasto alle altre cellule (fenomeno contrassegnato dai biologi col nome di apoptosi, che nel greco antico indica la caduta delle foglie) avviene in continuazione nel singolo organismo, milioni e milioni di volte ogni giorno, ed è alla base della vita.
Accompagna la vita dell’uomo in tutte le sue fasi. Già nell’utero materno l’embrione ottiene la forma definitiva del suo corpo grazie a questa «morte creatrice»: è il suicidio delle cellule, dice Ameisen, che «scolpisce» gli organi.

Ogni organismo è un frenetico mutare, non c’è nulla di statico; anche quando si pensa, nei momenti di contemplazione, di essere immobili e di uscire con lo spirito dal flusso della natura e della storia, in realtà nel corpo avvengono continue trasformazioni, e alcune cellule stanno divorando altre cellule. Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume, non solo perché muta il fiume, come diceva Eraclito, ma anche perché continuamente muta chi vi si immerge.
L’apoptosi è così radicalmente connessa con l’evolversi della vita che quando si blocca, perché le cellule si rifiutano di morire e tendono a immortalizzarsi, ha origine il cancro. La volontà di potenza della singola cellula equivale alla morte dell’intero organismo; il lasciarsi morire della singola cellula equivale alla vita dell’intero organismo.
Ma questa stessa dinamica di suicidio cellulare, così come costituisce il processo vitale, è anche all’origine delle malattie e della morte. Il prezzo della riproduzione si paga con l’invecchiamento e con la morte, in quanto le cellule germinali emettono segnali che accelerano l’arrivo della vecchiaia:

«Ciò che fa invecchiare e scomparire è forse la stessa cosa che ha permesso ai nostri antenati di farci nascere, e che consente anche a noi di avere dei figli … Nel mondo vivente tutti i fenomeni di riproduzione si accompagnano a una forma di invecchiamento».

La legge della vita è strettamente connessa a quella della morte. La legge della vita è la legge della morte.
A partire dai vegetali, la vita si produce, si alimenta, solo a scapito di altri. La vita è lotta. «Pélemos è il padre di tutte le cose» diceva un tempo Eraclito; “Struggle for life” dice oggi Darwin. La vita può vivere solo grazie alla sofferenza e alla morte. Ma ciò significa che l’essenza stessa della vita è impastata di morte. Che l’una senza l’altra non stanno, non possono esistere. E chiaro che la morte, per esistere, presuppone la vita, ma risulta altrettanto chiaro che anche la vita ha bisogno della morte, della morte altrui per procacciarsi il nutrimento, e della morte propria per generare figli e lasciare lo spazio vitale alle generazioni future. Si tratta di un processo scritto nella nostra stessa carne.

Si tratta di un processo scritto, ancora più radicalmente, dentro la carne dell’universo. Secondo le leggi di crescita dell’entropia, sarebbe molto più probabile per l’universo essere un semplice gas in equilibrio termico, ben lontano dalla complessa organizzazione attuale che rende possibile la vita.
Se il mondo ospita la vita è perché nell’universo ci sono sorgenti di luce e di calore che sono le stelle. L’esistenza delle stelle spiega l’esistenza della vita; o meglio, la morte delle stelle genera la possibilità della vita. Sono le stelle che, esplodendo a conclusione del loro ciclo evolutivo (quando viene dato loro il nome di novae, supernovae ò, recentemente, di ipernovae), immettono nell’universo enormi quantità di energia da cui scaturiscono gli elementi chimici necessari alla vita, il primo dei quali è il carbonio. La vita, già a livello degli elementi fondamentali, è possibile grazie alla morte.

Vita e morte non entrano solo in duello, come cantavano i medievali (mors et vita duello conflixere mirando), ma celebrano anche un fecondo matrimonio che è il theatrum mundi, la scena di questo mondo. C’è chi, guardando a tutto ciò, sente nascere dentro di sé un senso di meraviglia, meraviglia che ci sia qualcosa e non il nulla, che dal freddo glaciale degli spazi cosmici sia potuta arrivare l’energia necessaria alla vita, e che questa abbia preso una forma via via sempre più organizzata, fino alla complessità, che ha dell’incredibile, del cervello o dell’occhio umani. Già Aristotele scriveva che la filosofia nasce dalla meraviglia, e su questa strada è stato seguito da molti, tra cui Leibniz e Heidegger, che a loro volta hanno posto a fondamento del proprio pensare la domanda sul perché esista qualcosa e non il nulla.

In questa prospettiva George Coyne e Alessandro Omizzolo, sacerdoti cattolici e astronomi, scrivono: «L’immensa ricchezza del cosmo, dal microcosmo al macrocosmo … può condurci a una sorgente che trascende la nostra comprensione e alla quale ci si avvicina meglio pensandola come amore. Questo amore si autorivela in tutte le pieghe della creazione».

Vi sono però anche coloro i quali, guardando alla vita sulla terra, ben più che dalla meraviglia vengono presi da un sentimento del nulla, quando non dall’orrore: «Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo», così Steven Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979, conclude il suo celebre saggio sull’origine dell’universo Darwin ha individuato nella selezione naturale il meccanismo che regola l’avanzare della vita, e selezione naturale significa lotta, significa sangue. La natura, che si declina sulla terra in oceani, foreste, deserti, montagne, e può apparire bucolica solo a chi non vi è esposto, è il teatro di una lotta spietata che a ogni istante esige il suo tributo di sangue. Ne fece esperienza anche un grande cristiano come Blaise Pascal: «La natura è tale che dovunque attesta un Dio perduto, sia nell’uomo, sia fuori dell’uomo, e una natura corrotta».

Chi ha ragione? Ha ragione chi, osservando la natura, giunge alla meraviglia perché intravede un disegno, uno scopo, un senso, oppure chi è preso dal senso del nulla, dall’orrore, dalla nausea?
Entrambi, e nessuno. A chi sa fissare in tutti i suoi particolari lo spettacolo, ora nobile ora osceno, del theatrum mundi, ciò che appare regnare è la libertà, mostro a due teste che può generare oppressione e delitto, e insieme commuovere per purezza e amore. Certo, esiste l’amore, ma è solo una delle possibilità, peraltro di continuo negata, che emerge dalle «pieghe della creazione» (l’amore bisogna volerlo perché ci sia, non è un fatto naturale, è un evento spirituale).

La natura scaturisce dal matrimonio tra la morte e la vita, il cui figlio primogenito è la sofferenza. La natura è sofferenza. Si soffre perché si è vivi, perché si è fatti per un progetto che contrasta altri progetti, e quanto più si sale nella scala dell’essere tanto più si soffre; l’uomo è il sofferente per eccellenza.
La scena di questo mondo, scaturita dal matrimonio tra la morte e la vita, anche già solo a livello naturale appare come l’epifania, l’apoteosi della contraddizione.
Quando il pensiero contempla la natura, ben lungi dall’ascendere a Dio come voleva Tommaso d’Aquino nelle celebri cinque vie che aprono la Summa Theologiae, viene inchiodato all’antinomia.
Ma dalla vita delle cellule e delle stelle si devono trarre orientamenti decisivi anche per la vita dello spirito.

Occorre tornare a pensare insieme la scienza e le discipline spirituali, visto che lo spirito non può non avere le stesse leggi della materia, essendo tutto, sia lo spirito sia la materia, ultimamente energia (lo spirito, energia allo stato puro; la materia, energia solidificata come massa).

(da V. Mancuso, Il dolore innocente, pp. 163-167)

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