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L’umanizzazione di Dio

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L’umanizzazione di Dio

 

Premetto che non trovo di meglio che richiamare alcuni dei concetti espressi in un recente volume del teologo José Marìa Castillo, “L’umanità di Dio”, che alla maniera dei testi dei grandi filosofi tedeschi dei secoli scorsi riesce a coniugare sociologia, filologia, speculazione e, appunto, teologia in una serena divulgazione per esperti e profani, laici e religiosi, credenti ed agnostici. Invito tutti a leggerlo!

Come parlare del sovrannaturale, dove cercarlo? Dal libro dell’Esodo al Vangelo di Giovanni è possibile trattare, quale fil rouge, il tema dell’assoluta inconoscibilità del (presunto? reale?) Essere superiore, perlomeno secondo i parametri sensibili o cognitivi propri dell’uomo. Ne consegue che qualunque “fatto” religioso, di per sé “trascendente”, è stato tradotto nella storia sempre e comunque secondo i codici culturali di un’epoca e di un luogo, quindi secondo caratteri meramente “immanenti”, che spesso ne facevano un evento “numinoso” (da “numen”), ossia “sacro”. Laddove quest’ultimo termine, in latino come in greco, come nella maggior parte delle lingue antiche, racchiudeva in sé idee di sublime e nel contempo di mostruoso, di puro ma anche di contaminato, comunque di “tabù” e di intoccabile. Se da un lato ciò è servito alle gerarchie religiose della storia per tenere facilmente imbrigliate le masse, dall’altro ha comportato, per chiunque sia dotato di un minimo di senso critico, grande imbarazzo per la trasformazione di un “concetto assoluto” in una “cosa”, ovvero della trascendenza nella quintessenza dell’immanenza. Anche io sono convinto che da questo derivi la crisi reale della religiosità di questo secolo, la “secolarizzazione” tanto temuta dai pensatori spirituali conservatori, e non tanto dal “relativismo imperante” o dalla degenerazione della condotta umana paventati da Benedetto XVI (persona degnissima, io credo, ma, me ne scuso, completamente disancorata alla realtà in cui è vissuta). Per farla breve: le chiese si sono svuotate, perché il ritrattino preconfezionato di Dio da parte dei preti è apparso (finalmente, aggiungo) veramente improponibile.
Ci hanno sempre venduto il Padreterno come onnipotente e di infinità bontà: due caratteristiche tra loro inconciliabili, e non serve pensare ad Auschwitz o alle catastrofi naturali. Basta vivere la vita di tutti i giorni. A ciò, per dirla con le parole di Congar, si è affiancata una vera e propria “mistica dell’obbedienza”, nella quale credere alla Chiesa significa credere in Dio, e viceversa, in un titanico vortice quasi idolatrico.

Parlando continuamente di Misericordia, quasi come leitmotiv, papa Francesco, nel pieno rispetto della tradizione e senza atti eclatanti, ricorda semplicemente, a cristiani e non, che il fondamento del Cristianesimo non è l’ennesimo Libro ispirato, non è l’ennesima religione, l’ennesimo insieme di riti e rituali. È la vita di un uomo che calcò la sabbia di una delle terre, duemila anni fa come oggi, più vessate del mondo. Dire che il nucleo del Cristianesimo non è un’idea di Dio, ma la storia di un uomo, significa che il centro della fede non può essere il divino, dev’essere necessariamente l’umano. Non è forse la kénosis, la “spoliazione”, il senso ultimo della lettera ai Filippesi? È come dire, traslando, che acquisisce dignità divina chi si spoglia di se stesso, chi si riduce a servo, chi si fa realmente uomo, rinunciando ad ogni forma di potere. La trascendenza, non potendosi realmente “spiegare” attraverso l’immanenza, si rende visibile in essa. “E si compiacque di tenere nascoste queste cose ai sapienti, per rivelarle ai piccoli”.

Eleggere la Misericordia a parametro di giudizio significa conoscere fino in fondo la finitezza umana e renderla parametro unico di misura. In questo modo elemento determinante per la salvezza non diviene il sacro, ma l’umano; elemento centrale di ogni credo religioso non diviene una presunta fede, ma l’etica universale al servizio della Misericordia, ben più importante di ogni singola morale bigotta. Non vi sarà alcun giudizio su quanto correttamente avremo seguito un rito o una regola, su quanto avremo obbedito o meno ad una indicazione morale o religiosa. Probabilmente l’eterno condono sarà solo accompagnato dalla timorosa domanda: hai dato da mangiare? hai dato da bere? hai fornito cura e vestiti? hai accolto lo straniero, vestito il carcerato? In altre parole: ti sei preso cura dell’uomo, anziché pensare a pinnacoli, turiboli e preghiere, anziché omaggiare spazi (il tempio) o tempi sacri (il sabato)? “Dio risplende, nel suo significato più positivo, per la sua assenza” ha detto il teologo Martìn Velasco.

Parlando di Misericordia, Jorge Bergoglio è realmente cattolico, cioè inserito nella pienezza della grande tradizione, ossessivamente ricercata dai farisei dei giorni nostri. Perché non fa altro che usare parole e idee di meister Eckhart, che diceva “Chiedo a Dio che mi liberi di Dio, perché il mio essere essenziale sta sopra a Dio, se consideriamo Dio quale inizio di ogni creatura”. Di san Giovanni della Croce, col suo “Non ti trovavo, Signore, di fuori, perché fuori cercavo male te che stavi dentro”. Di Dietrich Bonhoeffer: “E’ al centro della nostra vita che Dio è aldilà”.

Parlando di Misericordia, il papa torna a dare finalmente voce ai grandi teologi del Novecento, padri diretti o indiretti del Concilio: von Balthasar, Congar, Chenu, De Loubac, Bouillard, Daniélou, Kung, Schillebeecks, e soprattutto Karl Rahner: “Ogni uomo, realmente e radicalmente ogni uomo, va visto come l’evento di un’autocomunicazione di Dio”.

Parlando di Misericordia, fa sì che d’un colpo la Chiesa la smetta di parlare di espiazione e di colpa, di sacrificio e di redenzione, “arrivando a volte fino al mostruoso sproposito di avvalersi di non so quali presunti diritti divini per finire di annulare o mutilare i diritti umani delle persone”.

Solo così la Chiesa diviene realmente “cattolica”. Solo così diviene patrimonio dell’umanità la vita di un uomo che, Dio o non Dio (a seconda di chi crede e chi no), fu la realizzazione di ciò che è profondamente umano, al di là delle culture, delle tradizioni e delle convinzioni religiose dei singoli.

(Michele Meschi – da FB)


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