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Il rapporto viventi di oggi e di ieri

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Il rapporto tra i viventi di oggi e di ieri

(Padre A.Gentili a Cattolica 2013)

 

Cari amici, care amiche,

 

Per dirla con papa Giovanni Paolo, il nostro Convegno può essere considerato come uno dei moderni “Areopaghi” (ricordate quello di Atene dove san Paolo “predicò”?), in cui convengono non soltanto “curiosi”, ma soprattutto sinceri ricercatori di senso, ed è chiaro che la più convincente risposta agli enigmi e ai misteri della vita viene dal di dentro di noi stessi, sia pure provocata o sollecitata da eventi esterni. Per questo mi auguro che i nostri convegni bilancino sempre meglio i due aspetti suddetti, e sempre per questo mi auguro sinceramente – ed è anche una proposta che mi permetto di avanzare – che durante simili convegni si inserisca per tutti, all’inizio o alla fine degli incontri plenari un esercizio di meditazione, poiché questa è la via che conduce direttamente a quelle profondità interiori di cui vi ho detto poco sopra. Chi di voi ha potuto partecipare all’esercizio che abbiamo compiuto la prima sera, ricorderà come la meditazione si inserisce a pieno titolo nel contesto di iniziative come quelle del MdS e di quanti vi appartengono o lo frequentano. Infatti – come si diceva – la meditazione

– è una pratica che ci ricentra e ci guarisce sotto ogni profilo;

– ci consente un massimo di comunicazione profonda con i viventi nei due mondi terreno e ultraterreno ed è di enorme vantaggio a entrambi gli abitatori;

– ci situa al di qua della morte, in quanto risanatrice e riequilibratrice (come il sonno!) della nostra persona sotto il triplice aspetto fisico, psichico e spirituale; e ci situa al di là della morte poiché anticipa la condizione del dopo-morte in quanto ci fa percepire simultaneamente l’eclissarsi del corpo, del quale in certo senso si perde la percezione, e l’emergere dell’anima o del nostro io profondo o della dimensione spirituale che dir si voglia.

 

Invocando su di voi e sui vostri cari la benedizione del Signore, vi porgo un affettuoso saluto,

 

p. Antonio Gentili

 

Campello sul Clitunno, 25 settembre 2013

 

 

Il rapporto tra i viventi di oggi e di ieri come “compresenza” degli uni con gli altri

 

 

Due mondi che sembrano escludersi, data la (apparente) incomunicabilità, quello dei viventi e quello dei cosiddetti morti. Le antiche visioni consideravano la morte l’altra faccia della vita, si direbbe il suo rovescio, e il regno dei morti alla stregua di un luogo di tenebra. L’inestirpabile anelito verso un oltre che infrangesse la barriera della morte, era pagato al prezzo o di una mutilazione dell’essere umano privato della sua dimensione corporea o di una liberazione dal corpo ritenuto un ospite temporaneo dell’anima in ordine alla sua evoluzione, oppure un gravame passeggero finalizzato alla sua purificazione.

 

In quest’ottica, i morti erano ritenuti una sorta di larve e il rapporto con essi più legato al ricordo che ne conservavano i viventi che a una vera comunione reciproca. A simile visione si è opposto, con illuminanti considerazioni, una singolare figura di intellettuale e nel contempo di militante della pace all’insegna della non-violenza gandhiana: Aldo Capitini, promotore fra l’altro delle celebri “Marce della pace” che annualmente si svolgono da Perugia ad Assisi, delle quali si è di recente celebrata la cinquantesima edizione. Nativo di Perugia e morto quasi settantenne quarantacinque anni or sono, Capitini fu il teorico della “religione aperta”, ossia di una visione religiosa disancorata da ogni riferimento istituzionale (arrivò a chiedere la cancellazione del suo battesimo!) e finalizzata a cogliere la ragione profonda che lega l’umano al divino.

 

 

Compresenza

 

Aldo Capitini ritiene che si possa sperimentare di fatto e concretamente un rapporto con i defunti – ben al di là di discutibili prassi divinatorie – che egli racchiude nel concetto di “compresenza”. Sulla scorta delle sue riflessioni ci chiediamo come si possa giungere a percepire tale compresenza, a farne la nostra stessa esperienza.

La risposta – egli sostiene – è possibile soltanto in una visione religiosa che abbraccia simultaneamente i due mondi di cui si diceva: quello terrestre e l’oltretomba. Capitini considera la morte come denuncia della finitudine umana e appello verso un aldilà “religioso” che ci trascende, per cui ritiene che la protesta di fronte all’ineluttabilità della morte sia più religiosa di una scontata accettazione.

E infatti la religione di sua natura è in stretto rapporto con il problema della morte in tutte le epoche e in tutti i luoghi, e nel contempo la religione si misura con la morte nella persuasione della sua fine, ossia del superamento di un simile evento. Con espressione quanto mai pregnante, Capitini afferma che la vita religiosa supera la morte perché la interpreta, l’anticipa e la risolve. Interpreta significa che ne sa cogliere il senso in una visione dell’uomo che abbraccia presente e futuro come due “tempi” non in contrasto ma in successione. La anticipa, in quanto ne ravvisa la presenza all’interno stesso della vita, come ci ricorda il poeta: “La morte si sconta vivendo” (Salvatore Quasimodo). Possiamo anzi dire di più, seguendo gli insegnamenti tradizionali che parlano di “grande morte” o di “morte mistica”, della quale il giusto muore prima di morire ([Battista da Crema], Detti notabili, IV,28). E infine la risolve, in quanto la morte è accesso alla vita; è, secondo un aforisma egizio, la scala per vedere gli dèi.

 

 

 

Verso una realtà liberata

 

La religione, sostiene sempre il nostro autore, è impazienza di vivere il sacro, impazienza dell’attendere il fine, e la visione che si dischiude all’uomo religioso proietta la realtà presente, che definisce “finiente”, vale a dire prigioniera della finitudine, in una realtà futura liberata dai lacci della morte. Si tratta di un processo di affrancamento non soltanto dalla finitudine, ma anche dalla concomitante fallibilità che accompagna gli esseri umani nel corso della loro esistenza quaggiù.

Una comprensione religiosa della realtà ci rivela il limite dell’orizzonte terreno e proietta l’esistenza presente verso una meta che la trascende e nel contempo la invera, conferendole pienezza eterna. Per questo Capitini afferma, per un certo aspetto, che ogni essere che muore è un “martire”, un testimone dei limiti della realtà umana ed è uno che ne ha sofferto, consapevole che, a ben vedere, abitiamo in un immenso cimitero. Per un altro aspetto Capitini sostiene che chi è aperto religiosamente è “custode di presenza”, consapevole dell’unità che lega i due mondi dei viventi e dei trapassati e quindi capace di cogliere la compresenza.

In questo conteso egli ravvisa l’importanza del cristianesimo, la cui “rivoluzione” consiste nel considerare “apparente” la morte, in forza della vittoria che ne ha riportato Cristo con la sua risurrezione.

La visione cui conduce una “religione aperta” abbraccia gli eventi umani nella loro globalità inclusiva di presente e futuro, consente di uscire da un’esistenza chiusa entro limitati orizzonti, meccanica nel suo svolgersi e presuntuosa nella sua illusoria autosufficienza. Questa stessa visione, proiettandosi verso l’oltre della trascendenza, annuncia una realtà liberata dalla prigionia della morte, realtà che sarà costituita da un nuovo “corpo” individuale, da un nuovo corpo sociale e da un nuovo cosmo: i nuovi cieli e la nuova terra di cui ci parlano le Scritture ebraico-cristiane.

 

 

Esperienza dell’oltre

 

Siamo quindi sollecitati a orientare la vita da uno stato attuale “finiente” verso una condizione futura liberata. Capitini riconosce che simile tensione verso l’oltre può essere in qualche modo figurata e anticipata in alcune esperienze umane alla portata di tutti. In primo luogo, il sonno – che già i poeti definivano “della fatal quiete l’immagine” (Ugo Foscolo) – può essere ritenuto apertura verso l’oltre cui ci proietta la morte, che Walter Chiari considerava alla stregua di un sonno arretrato. La preghiera liturgica di Compieta ci familiarizza con una simile visione, per cui l’addormentarci è l’equivalente quotidiano del morire, del consegnarci nelle mani che ci hanno plasmato e che ci accolgono nel loro abbraccio amoroso.

In secondo luogo Capitini, da convinto pacifista secondo la dottrina gandhiana della non-violenza, ravvisa nell’assunzione del cibo un’apertura alla realtà liberata da ogni forma di sopraffazione, se ne riconosciamo la dimensione sacra traducendola in un corretto rapporto con gli alimenti e nel rispetto della natura che ce li offre. Di qui la sua scelta rigorosamente vegetariana.

E infine la sessualità. Se è vero che il suo esercizio, finalizzato alla ricomposizione dell’essere umano bipolare e alla conseguente procreazione, può essere considerato una rivalsa sulla morte, il suo superamento annuncia la futura realtà del Regno in cui le creature terrestri saranno trasformate in creature celesti. Ne segue, al dire di Capitini, la simpatia della religione per la castità che ci proietta in una realtà diversa da quella del mondo presente e imperitura.

Chiave di volta, secondo il Nostro, della religione aperta e della conseguente realtà liberata, è l’amore, che ispira sentimenti di pace con la morte del proprio corpo e con la morte di chi ci è caro. Citiamo a conferma quanto ebbe ad affermare in un discorso funebre del 2008 don Andrea Gallo, un “prete contro” come è stato definito, di recente scomparso: «Non è facile imparare a morire, non è facile obbedire fino alla morte e quindi fare obbedienza alla morte, non è facile fare di essa un dono d’amore», si tratti della propria morte o di quella altrui.

 

Antonio Gentili, 2013

 

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