Edda Cattani

Gli animali hanno un’anima?

No comments

 

 

Ricevo da comuni amici la partecipazione per la perdita dei loro amici animali… Ripropongo allora queste storie vere… e anche qualcosa di più

 

Gli animali hanno un’anima?

Era il 25 settembre 1989. Lo ricordo benissimo perché ero tornata a casa dal lavoro molto provata. Oltre alla stanchezza per i numerosi impegni, un mio collaboratore era stato ricoverato con una sindrome che lasciava poco ben sperare e la cosa mi aveva lasciato confusa ed addolorata.

Loro, Andrea e Vanessa, erano in camera con un batuffolo di pelo rosso in mano che, a stento, riuscivano a trattenere. Ridevano i miei ragazzi cercando di nasconderlo fra le coperte del letto. “Un gatto in casa? Non ne abbiamo avuto abbastanza dell’altro? Non se ne parla nemmeno. Portatelo via subito!”

Ricordavo di avere cambiato da poco tende e tappezzeria dopo che era scomparso e finito non so dove un altro esemplare della specie che, un mattino, dopo essere stato la notte in giardino, non aveva fatto ritorno.

Tutto sommato mi ero affezionata a quella presenza, come al cricetino Tino, agli uccellini, alle tartarughe, al pesce rosso e, poiché uno alla volta se ne erano andati tutti, lasciando in me, dal momento che ero costretta ad accudirli, una naturale amarezza,  avevo giurato a me stessa: “Mai più bestie in casa mia!”

Invece non c’era stato nulla da fare. Andrea diceva che “quel pallottolino” gli si era attaccato ai calzoni mentre passava da una strada dove era abbandonato e che era stato proprio lui a sceglierlo.

Così dovetti abituarmi al nuovo giro: tende da rifare, poltrone sdrucite, tappeti e moquette da ripiegare. A dire il vero ci provai a trovargli un padrone, ma Andrea, appena lo seppe, se l’andò a riprendere trattando anche male la persona che si era offerta di tenerlo.

Lo chiamavano Pub Music, i miei ragazzi, o meglio Pelo Rosso, Mix e tante altre cose, giocando con lui che sembrava veramente aver trovato il suo ambiente ideale. A dire il vero sapeva comportarsi bene: non sporcava in casa, era regale e rispettoso ad un tempo, ma quando vedeva Andrea impazziva. Facevano corse, si arrotolavano sul pavimento, saltavano di qua e di là.

La sera Mix scendeva in giardino e risaliva il mattino. Quando mi affacciavo alla finestra e tiravo su la tapparella lo vedevo sotto, con gli occhioni verdi spalancati: “meo, meo, meo…”, scendevo le scale e lo portavo su. Ormai mi ero rassegnata a quell’intruso, come avevo fatto le altre volte. Era un compito mio. In questo mi aiutava anche Elena che faceva colazione con lui sulle ginocchia, dandogli qualche pezzetto di plumcake; così Mix divenne il gioco di tutti.

Ogni sera, al cancello aspettava i suoi padroni: prima arrivava Elena dal lavoro e saliva le scale con lei, poi tornava sotto con Andrea e con lui andava in fondo al viottolo, dove c’erano i ragazzi della “compagnia” e si strusciava sulle gambe di tutti. Era divenuto il boss dei paraggi, ormai: un bel gattone rosso “da pubblicità”. Tutti conoscevano il gatto di Andrea e lui sapeva farsi rispettare ed accarezzare da coloro di cui si fidava.

Poi Elena andò via di casa e Mix l’aspettò invano. Una sera, dopo diverso tempo, la vide arrivare e le corse incontro con tanta gioia che si incespicava dappertutto e addirittura, mentre la seguiva, per l’emozione, se la fece addosso. Lei rideva e anch’io a dire il vero, ero commossa nel vedere la capacità di ricordare e di sentire di una bestiola che, in fondo, era pur sempre un animale “senz’anima”…

Andrea però era ancora in famiglia ed ogni sera, verso le undici, come un orologio, il gatto rosso si appostava sul cancello di casa e lo aspettava. Freddo, pioggia o neve non lo smuovevano; al suo arrivo, veniva di sopra con lui e andavano a letto insieme. Dormiva ai suoi piedi o intorno al suo collo.

Era commovente vederli abbracciati. Non posso dimenticare quei quadretti “da poster”: un ragazzone bruno con un peluche rosso fiamma intorno al viso, attorcigliato come una ciambella.

Poi Andrea partì per il servizio militare e furono lunghi mesi di attesa: ogni sera ad aspettarlo al cancello, finché un pomeriggio, mentre faceva la siesta sull’erba del prato, lo vide sopraggiungere dal viottolo, in fondo. Arrivava dalla stazione il mio Andrea, in congedo per la sua prima licenza. Chi si accorse del suo arrivo fu proprio lui, il gatto Mix o Pelo Rosso che, in quattro balzi, gli fu accanto e gli saltò addosso. Andrea rideva e lo accarezzava, così pure erano commossi gli altri ragazzi della compagnia, accorsi dal circondario, per aver saputo della sua venuta.

Andrea era partito con le scarpe da tennis, la maglietta e i calzoni di jeans ed era tornato in divisa, ma Mix lo sentiva ugualmente come il suo, solo padrone ed amico e, in quel rapporto univoco, c’erano tutti i loro giochi, le loro intese, i loro complotti, il loro scambiarsi affettuosità esclusive.

Così continuò la storia finché Andrea fu assegnato al corpo della scuola Trasporti e Materiali di Padova ed essendo stato nominato ufficiale capo della Regione Nord Est, poteva tornare a casa a dormire tutte le sere.

Dalle undici a mezzanotte, una palla di pelo rosso stanziava vicino al cancello di casa, ogni sera, attendendo l’arrivo dell’amico; con lui saliva e con lui scendeva il mattino alle cinque quando Andrea si recava in caserma per l’alzabandiera.

Ma una sera, era il 5 dicembre 1991, Andrea non tornò a casa e Mix lo attese invano. Lo attese a non finire, incurante del tempo e dell’avanzare degli anni, ogni sera, alla stessa ora.

I primi tempi, io, sempre di corsa e affannata per il mio dolore, non avevo altro luogo dove dare sfogo al mio pianto irrefrenabile che recarmi giù in garage e chiudermi dentro la macchina di Andrea, rimasta parcheggiata, per piangere liberamente, accarezzando le sue cose.

Una sera a cui seguirono tante altre sere, mi accorsi che fuori dal garage venivano tre, quattro, cinque gattini al seguito di Mix e mi guardavano silenziosi.

Così presi ad andare di sotto portando loro qualcosa da mangiare; ogni giorno, per tutti questi anni, la stessa cerimonia. Quelli del condominio cominciarono a vedermi un po’ come “la mamma dei gatti”, o meglio, a compatirmi per non avere più nessuno da accudire, se non quattro gatti randagi.

Mix sapeva bene quale fosse la sua casa, ma difficilmente saliva le scale. Viveva di sotto ormai, nel suo regno di gatti senza padrone e primeggiava su tutti. A volte lo sentivo giù, nell’ingresso lamentarsi: “ meo, meo, meo…” tre volte, mentre saliva e allora gli aprivo la porta e lui si accomodava sulla sedia della cucina dove rimaneva fino al mattino.

Non andò più in camera, non salì più su in mansarda, luogo dei giochi e delle  capriole. Elena ci regalò un persiano bianco e quindi Pelo Rosso e Pelo bianco non amarono frequentarsi: uno stava sotto, in giardino, ed uno sopra.

Sono passati otto anni quasi, da quella notte del ‘91 e mai Mix ha cessato di attendere. Poi, per lui ci sono stati un rincrudirsi di episodi che, data la condizione in cui ha vissuto, sempre di sotto in giardino, l’hanno fatto ammalare e così si è sfinito un po’ alla volta.

Ha subito tre interventi e l’ho curato con ogni tipo di medicinali, cambiando anche medico, ma un giorno dello scorso settembre, prima di partire per il 13° Convegno del Movimento della Speranza, ho capito che non c’era più nulla da fare.

L’ho messo nella gabbia, mentre lui mi guardava con i suoi occhioni verdi e tristi, povera palla spelacchiata, ormai tutto ossa, senza un lamento e l’ho lasciato dal veterinario: “Faccia lei dottore, quello che crede, ma non mi chieda cosa deve fare. Mi telefoni fra qualche giorno se riuscirà a guarirlo, altrimenti non dica nulla. Mi farò viva io.”

Passarono i giorni, ritornai da Cattolica e non ebbi il coraggio di telefonare. Capivo quel silenzio, ma speravo. Poi, sabato, 25 settembre, mentre eravamo alla Messa, alla riunione mensile della nostra ACSSS, durante la comunione, alle cinque e mezza, sentii distintamente quell’inconfondibile “meo, meo, meo..” nell’ingresso dell’istituto… Gatti non ce n’erano in quel luogo e capii che qualcosa doveva essere avvenuto.

Tornammo nel salone e mentre facevamo una registrazione, distintamente, si ripeté il miagolio… Non c’erano dubbi: un gatto, il mio Pelo Rosso, il gatto Mix di Andrea mi era accanto e non potendo esserci da vivo, voleva pur dire che in qualche modo mi aveva raggiunto.

L’avevo chiesto ad Andrea: “Aiutalo, prendilo con te… sono otto anni che ti aspetta ogni sera… E’ l’ultima cosa vivente che mi resta di te, figlio mio, ma non posso vederlo soffrire così!”

Il lunedì successivo ho telefonato al medico: “Signora, sabato scorso mi sono deciso. Non c’era più niente da fare ormai. Soffriva e null’altro. Ho fatto in modo che si addormentasse per sempre, senza soffrire”.

“L’ho saputo dottore, l’ho saputo. Alle cinque e mezza, vero?”

Ho sognato il gatto Mix che faceva salti da un divano all’altro con il suo padrone ed una grande pace è subentrata allo sconforto. Mi è caro pensare ad una palla di pelo rosso che si rotola fra le nuvole, in braccio al mio Andrea, finalmente uniti, lassù, in Paradiso.

                                                               Edda Cattani

 

Ed ora vi aggiorno su “Martino” l’ultimo arrivato in casa mia proprio il giorno di San Martino … un po’ di allegria… tante capriole, fusa, rincorse che mi facevano sorridere… Piccolo Martino, gatto rosso come un suo precedente inquilino di cui trovate la storia più sotto… ha fatto un volo troppo alto… ed ha battuto il nasino … anche lui … piccolo birichino farà le fusa con Mix, Max in braccio ad Andrea…

Ed ora la storia di “Un cavallo da corsa in un mondo senza piste”

A tutti capita di essere per lo meno una volta nella vita, cavalli da corsa in un mondo senza piste. Che vuol dire che ci sentiamo dei puro sangue in un luogo che non ci contempla. Cerchiamo le piste, vorremmo le piste, ma non ci sono, per lo meno per noi. E allora non ci resta che adattarsi al pascolo. 

I più fortunati trovano la prateria, un’unica immensa distesa dove dispiegare la propria corsa e dunque la propria libertà. Infinito e cielo. 

Ho pensato a questo sentendo di Vale, il cavallo di HELGA che se n’è andata dopo aver donato l’ultima passeggata alla sua grande amica:

 

Questa è una leggenda indiana…
THE RAINBOW BRIDGE
(il ponte dell’arcobaleno)



Questa del ponte dell’arcobaleno è un antica leggenda che si tramanda dalle tribù degli indiani d’america ed è dedicata a tutte quelle persone che soffrono per la morte di un loro caro amico e tutti gli animali che sulla terra hanno amato gli uomini. Davanti all’entrata del Paradiso c’è un luogo chiamato Ponte dell’arcobaleno per i bellissimi colori da cui è formato. Quando muore una bestiola che è stata particolarmente cara e speciale a qualcuno, questa bestiola va sul ponte dell’arcobaleno. Questo è un posto meraviglioso ci sono prati, grandi alberi, e colline verdi dove l’erba è sempre fresca e profumata per tutti i nostri amici tanto speciali e là corrono e giocano tutti insieme. C’è tanto cibo (il loro preferito) ruscelli con acqua fresca con la quale dissetarsi e il sole che splende, tutto a volontà e i nostri amici sono al caldo e stanno bene. Tutti i piccoli che erano ammalati e vecchi sono tornati ad essere in salute, giovani e pieni delle loro forze. Quelli che erano feriti e mutilati sono tornati ad essere nuovamente integri e forti, così come li ricordiamo nei nostri sogni di giorni e tempi passati. Gli animali sono felici e contenti, tranne che per una piccola cosa: ad ognuno di loro manca qualcuno di speciale, molto amato, che si sono lasciati alle spalle, indietro, lontano verso l’orizzonte. Corrono e giocano insieme, ma verrà il giorno in cui uno di loro si fermerà improvvisamente e guarderà lontano. Tutti i suoi sensi saranno all’erta, i suoi occhi splendenti, luminosi e lucidi saranno attenti, il suo corpo palpiterà e tremerà dall’emozione, per l’eccitazione e impazienza. Improvvisamente si staccherà dal gruppo, inizierà a correre sull’erba verde, le sue zampe sembreranno volare sempre più veloci sul prato. Ti ha visto e ti riconosciuto. E quando finalmente vi raggiungete, incontrerete e sarete insieme vi stringerete in un abbraccio gioioso, unico, per non separarvi mai più. Baci felici pioveranno dal tuo viso, le tue mani accarezzeranno nuovamente la testina tanto amata e potrai finalmente fissare ancora i suoi fiduciosi occhietti, stati lontani tanto tempo dalla tua vita ma mai lontani ed assenti dal tuo cuore. Allora insieme attraverserete il ponte dell’arcobaleno…

Gli animali hanno un’anima?

Dopo l’uscita dell’articolo sul libro che sottopongo alla vostra attenzione, in cui il giornalista pubblicò la storia del mio gattino Mix, ho visto soprattutto da parte dei giovani un grande interesse per questo argomento. Ho pensato perciò di pubblicare gli articoli con le mie storie personali ed altri che mi sono giunte. Ringrazio i coordinatori di:

http://it.unitedcats.com/forum/312/fl/2051/t/45008  che si sono premurati di pubblicare il mio articolo facendone gradevoli commenti. Propongo quindi, oltre alle mie,  nuove storie appena giunte ed invito, chi voglia, di inviarne altre a  edda.cattani@alice.it

 

 

Anche gli Animali Vanno in Paradiso

Storie di cani e di gatti oltre la vita

Questo libro aiuterà ad amare gli animali di più e con maggiore generosità, proprio come loro amano noi. Le testimonianze e le storie che raccoglie, scritte da famosi medium, da mistici e teologi ma anche da persone comuni, saranno di sicuro conforto per chi ha perso il proprio fedele compagno a quattro zampe. Questo libro aiuterà a ritrovare l’amico cane o gatto, a continuare ad amarlo, a parlargli, perché la vita sulla Terra non è che un passaggio che ci prepara alla vera vita.

 ANCHE GLI ANIMALI HANNO UN’ANIMA 

(espressioni di esponenti della Chiesa)

 

Padre Luigi Lorenzetti, teologo ,di Famiglia cristiana, spalanca le porte del Paradiso agli animali : “Hanno ricevuto un soffio vitale da Dio , scrive e sono attesi anch’essi dalla vita eterna”.

Paolo VI disse : “Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo”, e rivolto ai Medici Veterinari: “Vi esprimiamo il nostro compiacimento per la cura che prestate agli animali, anch’essi creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’universale stigma del peccato e dell’universale attesa della redenzione finale, secondo le misteriose parole dell’apostolo Paolo.”

Gaspare Gherardini , canonico di Santo Spirito di Roma , nella metà del Settecento affermò:
“Scopersi nella macchina degli animali un fine savissimo, un fine degnissimo della Divinità”

Papa Giovanni Paolo II nel 1990 si espresse in tali termini: “La Genesi ci mostra Dio che soffia sull’uomo il suo alito di vita. C’è dunque un soffio, uno spirito che assomiglia al soffio e allo spirito di Dio.   Gli animali non ne sono privi.”
Non sono solo animali , cioè non è solo un cane, un gatto, una tartaruga o un criceto etc.: Fanno parte del valore affettivo dell’uomo, a sua volta questo strano animale che non si arrende all’idea che tutto finisca, e che aspira all’immortalità per sé e per tutti i suoi cari.

 

Da http://www.amicianimali.it/paradiso/index.html

 Gli animali hanno un’anima? La storia del gatto Mix

Anche le piccole cose non andranno perdute. La storia di Max 

 

 

Anche le piccole cose non andranno perdute!

 

 

In questi mesi di grande calura estiva può far piacere occuparci di piccole cose che pur circondano la nostra vita e diventano importanti nei nostri affetti. Vorrei parlare dei piccoli animali, dei quali ebbi già modo di scrivere tempo fa in occasione della pubblicazione del testo “Gli animali hanno un’anima” ediz. Mediterranee.

Ebbene, in questo ultimo periodo segnato dalla sofferenza e da grandi prove che hanno mutato il volto della mia famiglia, mi sono trovata anche ad affrontare la scomparsa di Max, fedele amico della mia esistenza da oltre quindici anni.

Era un gatto bianco dal lungo pelo folto, un siamese simile a quello reclamizzato dalla Gourmet, che faceva parte del nostro contesto da quando Andrea se n’era andato. Era entrato come un dono all’interno della casa,acquistato a Milano da Elena che l’aveva notato in un cestino dentro una vetrina. Ogni sabato, venendo a casa nostra, lo portava con sé; Mentore lo prendeva con delicatezza in braccio e lo cullava come un bambino, chiamandolo: “…piccino, piccino…”.

Elena aveva capito che nella nostra solitudine quel piccolo animale avrebbe portato un po’ di calore ed un sabato finse di dimenticarlo; così Max rimase da noi. Abitavamo allora in un appartamento con mansarda e lui si divertiva a saltare dal terrazzino sul tetto per rincorrere gli uccellini. Una sera addentò un pipistrello e lo depose in camera, fra le urla di Alessandra e la meraviglia di quel piccolo essere che pensava di dimostrarle il suo affetto con quel dono prezioso.

Così Max visse i suoi anni migliori, guardando il mondo dall’alto e tentando qualche volo spericolato: una volta dal terzo piano si buttò sull’albero sottostante e non pago dell’esperienza, continuò a camminare sul davanzale guardando il giardino. Poi cambiammo casa e venimmo in questa villetta dove Max conobbe la vita vista da sotto. Potè correre nel prato, arrampicarsi sugli alberi, ma soprattutto rincorrere i gatti del vicinato che si permettevano di affacciarsi al nostro cancello. Dispotico ed esclusivista di temperamento, non tollerava nessuna intromissione nella sua proprietà, ma con noi, soprattutto con Mentore, era di una dolcezza infinita. Quando si guardavano sembravano dipendenti l’uno dall’altro e vivevano in una sorta di simbiosi che commuoveva. Era Max che aveva colmato i silenzi delle lunghe mie assenze dovute al lavoro ed era Max che accorreva sentendo il motore della macchina, al mio ritorno. Si mostrò incuriosito quando a casa nostra cominciarono a venire i piccoli Simone, Tommaso e Giulio i quali lo guardavano con altrettanto stupore e lo rincorrevano cercando di afferrarlo per la coda. Quante gare di velocità… e infine un nascondiglio sicuro, al riparo dai monelli!

E venne il tempo in cui Simone si ammalò mentre io correvo impegnata con Tommaso ormai ospite fisso a casa nostra, dove tutti cambiammo umore ed abitudini. Mentore proseguiva nel suo silenzio e nella sua amnesia, ma all’ora stabilita, non mancava di preparargli la ciotola. Io non mi accorsi che entrambi erano molto ammalati, che Max ormai beveva solo acqua e rimaneva a dormire troppo a lungo.

Quando Simone tornò dall’ospedale e anche Tommaso raggiunse la famiglia, capii che Max non era più lo stesso e decisi di portarlo in clinica. Mi dissero di lasciarlo lì perché c’erano vari esami da fare e dopo qualche giorno la diagnosi fu drastica: non vi era più funzionalità renale e poco ci sarebbe stato per farlo sopravvivere. Feci di tutto per salvarlo: lo portai a casa con iniezioni, pappe di ogni genere, cure omeopatiche… Max ormai era a pezzi, senza forze, né equilibrio. Mentore lo guardava silenzioso senza nulla chiedere. Una sera mi appoggiò la testina su una spalla e fece un lungo lamento quasi a chiedermi di lasciarlo andare. Scesi a pian terreno e gli feci una lunga toeletta: doveva essere bello per il grande salto! Poi lo fotografai con il cellulare, più e più volte; guardando le foto notai subito che intorno a lui si era formata un’aura prima verde, poi rosa, poi luminosissima. Tutto era compiuto e Max era atteso, piccola creatura, dolce ricordo della mia famiglia al completo, del mio tempo migliore. Il mattino successivo lo portai dal veterinario: “Le lascio un pezzo del mio cuore, tenga pure la cassetta, non mi serve più… “ e Max mi guardò a lungo, riconoscente per aver compreso la sua sofferenza… ma quanto strazio. Mi vergogno a dire che piansi lasciando quel piccolo battutolo peloso, ormai tutto pelo e ossa che mi guardava con i suoi incantevoli occhi tristi. Il pomeriggio pensavo: ”Dove sei piccolo Max? Forse mi starai guardando da una nuvoletta!”. In quel momento giunse un MMS da una mia amica sul cellulare: senza nulla sapere aveva scattato una immagine del cielo; era una nuvola soffice e in alto c’era la testina di Max.

Non bastò questo segno… il giorno successivo scattai una foto in giardino e sull’albero di susine, di fianco, dove si metteva Max c’era lui accovacciato.

Il mio piccolo Max, fedele amico delle pareti domestiche che hanno visto tanti mutamenti e trasformazioni, a volte gioiose, a volte dirompenti mi raggiunge ogni sera e, all’ora della pappa sento spostare la ciotola o fregare la zampina sulla poltrona e sulla mia testa. Ci sono momenti in cui mi giro sicura di vederlo perché lo sento correre, fermarsi, saltare sui mobili;  sento il suo tenue, delicato miagolio, il suo richiamo. Mentore non mi ha detto, né chiesto nulla; ora che il suo caro amico non c’è più ha rari motivi di interesse e di compagnia… solo una sera l’ho sentito mormorare: “Andrea sta bene, è in cielo che gioca con i suoi gattini”.

la testina di Max

sulla nuvoletta

ecco Max a destra

come ogni giorno

seduto sul ramo

dell’albero

il mio caro Max con me l’ultima sera insieme

      Jazz e la sua famiglia. La storia del cane Jazz

 

Jazz e la sua famiglia

 

 Vi presento jazz ,un bracco ungherese che per 11 anni ha rallegrato la nostra vita con sguardi dolci con cui ci comunicava il suo star bene insieme a noi. Anche i nostri tre gatti erano suoi amici ed era felicissimo di poter giocare con loro. Seguiva attentamente i nostri discorsi e i nostri atteggiamenti e ci faceva capire se li condivideva oppure no. Il 18 novembre scorso cominciò a manifestare inappetenza e portato dal veterinario, gli venne diagnosticato un linfoma maligno dei più devastanti, pochi mesi di sopravvivenza…. Ma il giorno 11 dicembre le sue condizioni precipitarono senza scampo e con il cuore a pezzi dovemmo percorrere quella strada che si chiama “eutanasia” (terribile esperienza). Poco tempo per renderci conto che tutto era finito, il sollievo di non vederlo più soffrire ma un immenso vuoto dentro di noi. Anche gli animali hanno un’anima e saperlo vivo in una dimensione parallela alla nostra anche se invisibile, ci dà un po’ di sollievo. Sappiamo che ogni volta che penseremo a lui c’è…… senza più sofferenze ma con grande amore; siamo stretti per sempre in un legame energetico, un filo che non viene tagliato neppure dalla morte. Ci rende sereni immaginarlo  correre e saltare nel nostro giardino che tanto amava e sicuramente continuerà a farlo insieme a noi…

                                                                               la famiglia di jazz     aldo enza helga

Gentilissima sig. Edda, ho trascritto questo breve sunto della vita di jazz, se le fa piacere farlo conoscere. La ringrazio molto della sua dolcezza e gentilezza, se per caso ha 10 min di tempo provi con il registratore e se dovesse manifestarsi e comunicarle qualcosa ci piacerebbe avere questa meravigliosa testimonianza. Ho letto il libro di Kate Solisti “Parola di cane” che con telepatia parla con loro e ne riceve le risposte perché tutti gli esseri sono partecipi della coscienza divina.

un abbraccio Enza

 

… e ci puoi credere…

“   Bu…bau…si spezza il filo per strada, ma non moriamo…. “

 

                                                                                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniGli animali hanno un’anima?
Leggi Tutto

Al di là dei sogni

No comments

“… ma io lo sogno…”

Possiamo comunicare con i nostri Cari, attraverso il sogno?

 

Franco era un bel bambino, con due grandi occhi bruni, sorridente e sereno. I miei zii l’avevano accolto con tanto amore e su di lui avevano fatto mille progetti. Poi, un giorno terribile, subentrò una circostanza nella felice famigliola e nella vita di Franco che fu inibito nelle principali funzionalità. I genitori, pur nella sventura, ebbero cura di seguire il loro figliolo e, grazie a questo amore, egli poté condurre una esistenza al limite della normalità. Ma, com’era prevedibile, non ebbe la durata di una vita media ed un giorno Franco se ne andò; andò via in silenzio com’era vissuto, ormai distrutto nel corpo, quasi cieco, povera creatura martoriata da mille dolori. La madre, quella santa donna di mia zia, gli stette vicino, determinata fino all’ultimo, per raccoglierne gli ultimi istanti finché lo vide sorridere verso la porta… i nonni defunti erano venuti a ricevere il loro nipotino.

         Franco mancò quasi contemporaneamente al mio Andrea e, con la zia, abbiamo sovente scambiato lacrime ed espressioni. Lei ascoltava quanto le dicevo e leggeva, attraverso “l’Aurora”, quanto raccontavo e commossa mi chiedeva: “… ma tu gli parli? E cosa ti dice? Sta bene? E’ felice?”. Sono queste le domande di sempre che tutti i genitori “orfani” rivolgono; ma alle mie risposte lei replicava: “Io non lo sento, ma lo sogno sempre!”. Sono convinta e credo a questo, come sono certa che Franco abbia trovato una via privilegiata per contattare la sua mamma che l’ha accudito ed amato con disperata fermezza. Mi chiedo allora cosa ci possa essere al di là di questo fenomeno così enigmatico che gli studiosi del settore definiscono “sogno veridico” asserendo che, fra tutte le vie primarie di possibile contatto con coloro che ci hanno lasciato, la via più naturale passa attraverso il sogno.

        

         Ricordo di avere letto, qualche tempo fa, che nell’ora della giornata in cui le tensioni si attenuano e giungiamo al riposo, la coscienza riesce a percepire le vere immagini o messaggi che giungono dall’altra dimensione. E’ come se, fra noi e loro, ci fosse una rete di maglie; queste si allentano proprio nel momento del contatto per farci percepire quanto i nostri Cari vogliono dirci. Ovviamente stiamo parlando sempre di “sogni veridici” o meglio paranormali  cioè corrispondenti a fatti reali. E’ in questo campo che si verificano le premonizioni, sia nel bene che nel male, che anticipano il futuro e che possono essere attribuibili a facoltà di colui che sogna, ma anche a presumibili entità spirituali.

         Si tratta, pertanto, di circostanze straordinarie ed enigmatiche perché trascendono la nostra realtà corporea e psichica proponendoci una situazione impalpabile e labile, sfuggente e da ripercorrere a ritroso con opportune riflessioni e agganci. Il sogno si presenta denso di significato che acquista per noi una valenza determinante per farci considerare che qualcosa o qualcuno ci ha raggiunto e ci presenta prove certe della sua esistenza.

         Spesso alcuni affermano di non sognare e di non avere esperienze in tal senso ma in verità questo non è possibile, perché lo stato di sonno, con le cosiddette fasi di REM e NON-REM, appartiene a tutti; in caso contrario piomberemmo nel patologico. Quando mancò Andrea, ci trovammo sommersi da un’infinità di segni a cui non sapevamo dare spiegazione: io non connettevo e vivevo in una condizione di astenia totale finchè dopo qualche giorno, mio marito che afferma di non sognare si svegliò all’improvviso per raccontarmi quanto gli era successo. Mi disse di avere visto Andrea con una grossa borsa da viaggio, in partenza per una stazione indefinibile; il ragazzo non si decideva a salire sul treno, ma Mentore, pure in un grande stato di angoscia, lo prese per mano e lo condusse verso la carrozza. Mi disse di aver visto il treno che si allontanava pian piano e di averlo seguito a lungo, con lo sguardo; egli era certo che Andrea, dopo i tanti tentativi fatti, intorno a noi, per darci prova della sua esistenza, dovesse a quel punto allontanarsi e che abbia voluto farsi accompagnare dal suo papà, nel suo estremo viaggio, per essere da lui rassicurato, come aveva fatto nelle fasi più importanti della sua esistenza sulla terra.

         Qualche giorno dopo vennero gli amici di Andrea a casa nostra e si fermarono nella sua stanza, come sempre, per sentire un po’ di musica; io e Mentore ci eravamo appartati in malinconica riflessione sui tempi andati e sulla nostra famiglia ormai distrutta. All’improvviso fummo raggiunti da un suono forte e dolce ad un tempo che Mentore definì di “una tromba d’argento” che persisteva, con tono uguale senza volere cessare. I vicini di casa uscirono per vedere se qualche auto non avesse l’allarme innescato, ma fuori non vi erano macchine in questa condizione. I ragazzi con molta semplicità si affacciarono alla finestra dicendo: “questo zé Andrea che fa casìn” , mentre una vecchierella nella casa accanto confessava allarmata: “Madona, ghe zé i spiriti!”. Noi ci trovammo inebetiti a sorridere, comprendendo il messaggio finché Mentore disse: “Ora basta Andrea, abbiamo capito che sei tu!”. A quel punto il suono cessò. Qualche notte dopo sognai Andrea che ben distintamente mi disse: “Sono io mamma, quell’angelo che suona la tromba.”

        

La mia amica Cettina

              Ora vorrei raccontare un sogno accaduto ad altri, ma che mi ha coinvolto direttamente. Nei primi congressi a cui ho partecipato ho conosciuto una cara persona, la mamma di Giovanni, che mi è diventata amica al punto che Andrea definisce Giovanni “mio fratello”. E’ stata lei stessa, che ritroverò a Cattolica proveniente da Taormina, a raccontarmi quanto segue:

“Ho conosciuto, andando in cimitero, la mamma e la zia di Danilo, un ragazzo mancato dopo i nostri figli. Un giorno la zia mi disse di avere sognato di trovarsi in cimitero e di avere visto accanto a sé un bel giovane che le sorrideva e che le aveva detto ‘Sono Andrea, il fratello di Giovanni!’. Io le feci presente che a Taormina non c’era il fratello di Giovanni, che si chiama con un altro nome ed abita a Torino. Ci incamminammo verso casa e giunti lì, la zia di Danilo entrò e le feci vedere l’altarino dove tengo le foto del mio Giovanni e, accanto a lui, c’é quella di Andrea che tu mi desti al nostro primo incontro. A quel punto la zia trasalì e mi disse: “…ma questo è il giovane che ho visto in cimitero!” E’ chiaro che Andrea ha voluto dire anche ad altri, attraverso un sogno, che lui e Giovanni sono vicini come fratelli.”

            Tanti sono gli episodi che potrei raccontare, di cui tanti di noi sono in possesso, ma ci sarà modo di approfondire l’interessante tematica del sogno paranormale in un incontro congressuale futuro. Non vi è dubbio, però, che fra le varie “tecniche” che abbiamo a disposizione per riprendere i contatti con i nostri Cari, in un dialogo che supera la morte fisica, vi sia anche una via naturale, spontanea quale quella del sogno.

         Anche le scritture bibliche parlano, più volte, di sogni attraverso i quali Dio ha dato conto della sua presenza e dei suoi disegni: pensiamo a Giacobbe che proprio in sogno ebbe la visione della scala che poggiava sulla terra e la cima giungeva fino al cielo, mentre angeli andavano e venivano attraverso essa (Genesi 28,12). I padri della Chiesa interpretarono questo sogno come un’anticipazione dell’incarnazione del Verbo che avrebbe mediato fra cielo e terra. Gesù poi  confermò il sogno del Patriarca: “vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Giovanni 1,51). Altri hanno voluto interpretare l’immagine della Provvidenza di Dio attraverso gli angeli.

 

Dalle nostre amiche di FB 

Questa è Vanessa

 Io sono Loredana Valente.. nonché la zia dell’angelo di Vanessa Di Roma.. Figlia di mia sorella Anna Maria Valente…Vanessa era una figlia per me…!! La sogno spesso..ma questa notte è successo una cosa bellissima..!! Io tutte le notti.. o per insonnia o non so che sia.. mi sveglio e vedo l’orario dalla radiosveglia..!! Potevano essere circa le ore 4.. e.. vedo sui numeri della radiosveglia un e.. poi altri tre numeri… poco dopo .. mi sveglio e vedo 2 e altre numeri(dei minuti).. poco dopo mi sveglio e vedo 3 … ed un numero (dei minuti).. alla fine mi sveglio e vedo la mia radiosveglia con i 4 … Che cosa bellissima..!!! Peccato che non ho fatto le foto… non ho pensato a farle..!! Pensavo fosse una vista mia ottica???? Cosa vuol dire?? Il mio angelo era con me?? E’ stato bellissimo…!!!

Edda CattaniAl di là dei sogni
Leggi Tutto

2 Novembre: una ricorrenza

No comments

2 NOVEMBRE: GIORNO DEI DEFUNTI

(dalla bacheca di P.Alberto Maggi)

Il messaggio dei vangeli è che attraverso la morte la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione di se stessa verso la piena realizzazione, come recita il Prefazio per la messa dei defunti: “La vita non viene tolta, ma trasformata”.

È la vita stessa che continua, non un’essenza spirituale dell’individuo (l’anima). La vita, trasformata e arricchita dal patrimonio di bene che l’individuo reca con sé, entra nella pienezza della condizione divina, come scrive l’autore dell’Apocalisse: “Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).

Unendo paradossalmente due termini contrastanti quali la morte e la beatitudine, l’autore afferma che la morte fisica non ha l’ultima parola sulla vita del credente. La morte non è una sconfitta o un annientamento e neanche l’ingresso in uno stato di attesa, ma un passaggio a una dimensione di pienezza definitiva. Per questo la risurrezione non è una seconda vita né una nuova vita, ma la piena realizzazione di questa unica vita che l’uomo ha.

Eterno riposo?

I defunti non stanno al cimitero, il luogo dei “resti mortali”, ma continuano la loro esistenza nella pienezza di Dio, è questo il significato di “Riposeranno dalle loro fatiche”.

Il riposo al quale allude l’autore non indica la cessazione delle attività, ma la condizione divina, come il Creatore che “compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno” (Gen 2,2). Con la morte l’individuo riposa dalle opere compiute nella sua esistenza terrena, ma viene chiamato a collaborare all’azione creatrice di Dio comunicando vita agli uomini: “Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie” (Eb 4,10).

La morte non conduce a un eterno riposo inteso nel senso di un divino ozio per tutta l’eternità, ma all’attiva e vivificante collaborazione con l’azione del Creatore. In quest’azione creatrice l’amore che il defunto aveva verso i suoi cari non viene affievolito, ma arricchito dalla stessa potenza d’amore del Padre. La morte non allenta i rapporti umani ma li potenzia.

L’unica cosa che l’uomo porta con sé nella nuova dimensione di vita sono le opere compiute nella sua esistenza terrena. Le opere con le quali l’uomo ha trasmesso vita agli altri, sono la sua ricchezza, quel che hanno resola vita eterna già in questa esistenza, innescando nell’individuo un processo di trasformazione che non viene fermato dalla morte, ma potenziato.

La morte non è niente.

Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu.

Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.

Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.

Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.

Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.

Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronun-cialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.

La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.

Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?

Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.

Rassicurati, va tutto bene.

Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.

Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.

Henry Scott Holland (1847-1917). Canonico della cattedrale di St. Paul (Londra).


Edda Cattani2 Novembre: una ricorrenza
Leggi Tutto

Ognissanti e Defunti: preghiera di Francesco

No comments

Ognissanti e Defunti

(la preghiera di Papa Francesco)     

 

 

Ci prepariamo a celebrare due importanti ricorrenze: la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti. «Sono giorni di speranza», ha detto papa Francesco lo scorso anno nell’omelia della messa celebrata al cimitero monumentale del Verano, a Roma, dove tornerà anche quest’anno. E ha spiegato che «nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti è necessario pensare un po’ alla speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sonoi Santi, dove è Gesù, dove è Dio».

Ad accomunare le due ricorrenze, per Francesco, è «la speranza che non delude». Ma dove e come hanno avuto origine? Va detto, innanzitutto, che solo la prima (Ognissanti) è una festa di precetto, che prevede cioè l’obbligo per i fedeli di partecipare alla messa. Vi si celebrano l’onore e la gloria di tutti i Santi in ossequio al credo cristiano della “Comunione dei Santi” che Paolo VI, nel “Credo del popolo di Dio”, definiva «la comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati in cielo: tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere».

La festa dei martiri la festa dei santi

Le origini della celebrazione risalgono al IV secolo (le prime tracce portano ad Antiochia, in Siria) quando la Chiesa celebrava la memoria dei martiri della fede il 13 maggio. A cambiare la data di quella che, nel 615, Bonifacio VI aveva ufficializzato come Festa di tutti i Martiri, fu Gregorio III che scelse il 1° novembre (secondo alcuni per “cristianizzare” la festa pagana del Capodanno celtico che cadeva proprio nei primi giorni di novembre). In seguito, su richiesta di Gregorio IV, il re dei Franchi Luigi il Pio decretò festa di precetto quel giorno che, da Festa di tutti i Martiri, diventò la Festa di Ognissanti. è grazie a questo nome che oggi, comunemente, vi si festeggia anche l’onomastico di tutte le persone il cui nome non compare nel calendario cristiano (adespoti). Dal 1° giugno 1949 il giorno di Ognissanti è stato inserito tra quelli considerati festivi.

Fiori, dolci e visite al cimitero
Anche le origini della festa dei defunti risalgono all’antichità, più precisamente all’inizio del Decimo secolo. In quel periodo nel convento di Cluny, in Francia, viveva l’abate benedettino Odilone, canonizzato da Clemente VI nel 1345 (la sua memoria liturgica ricorre il 1° gennaio). Il monaco era talmente devoto alle anime del Purgatorio da dedicare loro messe, preghiere e penitenze. Secondo la tradizione un giorno, tornando dalla Terra Santa, uno dei suoi confratelli gli raccontò una storia che lo colpì moltissimo: dopo avere fatto naufragio, il monaco era approdato sulle coste della Sicilia dove aveva incontrato un eremita che gli aveva riferito di avere sentito provenire da una grotta i lamenti delle anime del Purgatorio e le urla dei demoni che gridavano proprio contro Odilone. Sentita questa storia, l’abate ordinò ai suoi monaci di far suonare le campane dell’abbazia con rintocchi funebri dopo la celebrazione dei vespri del 1° novembre, quelli dei Santi, per commemorare i Morti.

Il giorno dopo, dunque il 2 novembre, l’eucaristia sarebbe stata offerta per la pace di tutti i defunti. In seguito il rito fu esteso a tutta la Chiesa cattolica. Ancora oggi è consuetudine, in quello che viene comunemente chiamato il “giorno dei morti”, recarsi al cimitero e portare fiori sulle tombe dei propri cari. In molte località italiane, per celebrare la giornata, si usa anche preparare dei dolci, i cosiddetti “dolci dei morti”.

di Tiziana Lupi

Edda CattaniOgnissanti e Defunti: preghiera di Francesco
Leggi Tutto

Santi e Morti: tra storia e riti

No comments

 

FESTIVITA’ DI OGNISSANTI – E – COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI.

E’ la festa cattolica di tutti i santi con la quale si sogliono onorare non solo i santi, iscritti nel Martirologio romano e nel calendario delle singole Chiese, ma tutti i trapassati che godono la gloria del Paradiso.

Di origine antica, la festività di Ognissanti, dapprima dedicata ai soli martiri, era celebrata, nelle varie Chiese, subito dopo la Pasqua; fu spostata, poi dopo la Pentecoste.

Il 13 maggio 609, con decorrenza 610, il Papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon in onore

della Madre di Dio e di tutti i martiri e ogni anno se ne celebrava l’anniversario con grande solennità e largo concorso di pellegrini.

Da queste feste sembra derivare quella di Tutti i Santi, fissata al primo di novembre dell’anno 835 dal Papa Gregorio IV.

Più tardi, nel 998, Odilo abate di Cluny aggiungeva la celebrazione, nel giorno seguente, della festa di tutte le anime a soddisfare l ‘aspirazione generale per un giorno di commemorazione dei morti.

 

Nell’antico e colorito, ma realistico, mondo contadino esiste un proverbio legato al primo giorno del mese di novembre: Ognissanti, manicotti e guanti, la comparazione è chiara: comincia la stagione fredda.

 

 1 e 2 Novembre – Ognissanti e il giorno dei morti

Poesie di Vincenzo Cardarelli

Santi del mio paese

 

Ce ne sono di chiese e di chiesuole,
al mio paese, quante se ne vuole!
E santi che dai loro tabernacoli
son sempre fuori a compiere miracoli.
Santi alla buona, santi famigliari,
non stanno inoperosi sugli altari.
E chi ha cara la subbia, chi la pialla,
chi guarda il focolare e chi la stalla,
chi col maltempo, di prima mattina,
comanda ai venti, alla pioggia, alla brina,
chi, fra cotanti e così vari stati,
ha cura dei mariti disgraziati.
Io non so se di me qualcuno ha cura,
che nacqui all’ombra delle antiche mura.
Vien San Martino che piove e c’è il sole,
vedi le vecchie che fanno all’amore.
Rustico è San Martin, prospero, antico,
e dell’invidia natural nemico.
Caccia di dosso il malocchio al bambino,
dà salute e abbondanza San Martino.
Sol che lo nomini porta fortuna
e fa che abbiamo sempre buona luna.
Volgasi a lui , chi vuol vita beata,
in ogni istante della sua giornata.
Vien Sant’Antonio, ammazzano il maiale.
Col solicello è entrato carnevale.
L’uomo è nel sacco, il sorcio al pignattino,
corron gli asini il palio e brilla il vino.
Viene, dopo il gran porcaro,
San Giuseppe frittellaro,
San Pancrazio suppliziato,
San Giovanni Decollato.
E San Marco a venire non si sforza,
che fece nascer le ciliege a forza.
E San Francesco, giullare di Dio,
è pure un santo del paese mio.
Ce ne sono di santi al mio paese
per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno
di gloria, con il popolino intorno

 

Il giorno dei morti fu ufficialmente collocato alla data del 2 Novembre nel X sec. d.c. circa, praticamente fondendosi con il 1 Novembre, già festa di ognissanti dall’anno 853, per sovrapporsi alle più antiche celebrazioni di quei giorni.

Tra il popolo comunque, le vecchie abitudini furono adattate alla nuova festa e al suo mutato significato, mantenendo la credenza che in quei giorni i defunti potevano tornare tra i viventi, vagando per la terra o recandosi dai parenti ancora in vita.

In tutta italia si possono ancora oggi ritrovare gesti e pratiche tradizionali per la celebrazione di queste feste.

Riti popolari per i defunti – Cibo tradizionale

 

In quasi tutte le regioni possiamo trovare pratiche e abitudini legate a questa ricorrenza. Una delle più diffuse era l’approntare un banchetto, o anche un solo un piatto con delle vivande, dedicato ai morti.

 

Qualche esempio caratteristico.

 

In Abruzzo si decoravano le zucche, e i ragazzi di paese andavano a bussare di casa in casa domandando offerte per le anime dei morti, solitamente frutta di stagione, frutta secca e dolci. Questa tradizione è ancora viva in alcune località abruzzesi.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

A Pettorano sul Gizio (Abruzzo) essa suona così:


Ogge è lla feste de tutte li sande:
Facete bbene a st’aneme penande

Se vvu bbene de core me le facete,
nell’altre monne le retruverete.

 

In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, ci si avviava praticamente in corteo verso i cimiteri: dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si approntavano banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche i visitatori a partecipare.

 

In Emilia Romagna nei tempi passati, i poveri andavano di casa in casa a chiedere la carita’ di murt, ricevendo cibo dalle persone da cui bussavano.

In Friuli – a quanto informa l’Osterimann – i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul desco. E’ il motivo che ispira la già ricordata poesia del Pascoli La tovaglia, dove la sensazione della presenza dei morti nella casa, nel silenzio della notte, è resa in maniera oltremodo commovente e suggestiva:


Entrano, ansimano muti:
ognuno è tanto mai stanco!
e si fermano seduti
la notte, intorno a quel bianco.

Stanno li sino a domani
col capo tra le mani,
senza che nulla si senta
sotto la lampada spenta.

Sempre in Friuli, come del resto nelle vallate delle Alpi lombarde, si crede che i morti vadano in pellegrinaggio a certi santuari, a certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi entrasse in quella notte le vedrebbe affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della bella stella.

A queste credenze s’ispira uno dei più significativi racconti di Caterina Percoto, la ben nota scrittrice friulana, che tanti motivi trasse dal folklore della sua terra.

Questa presenza dei morti, avvertita con un’intensità che raggiunge la potenza di una visione, è però sempre associata, nella mentalità popolare, all’azione benefica e alla speranza nella beatitudine eterna.

In Lombardia abbiamo invece gli oss de mord, o oss de mort, fatti con pasta e mandorle toste, cotti al forno, di forma bislunga, con vago sapore di cannella in particolare:

A Bormio, la notte del 2 novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena.

Ma anche nel Vigevanasco (Vigevano) e in Lomellina si suole mettere in cucina un secchio (l’acqua fresca, una zucca di vino, piena, e sotto il camino il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare

A Comacchio c’e’ invece il punghen cmàciàis, il Topino Comacchiese, dolce a forma di topo preparato in casa

  

In Piemonte, si soleva per cena lasciare un posto in più a tavola, riservato ai defunti che sarebbero tornati in visita.

In Val d’Ossola sembra esserci una particolarità in tal senso: dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero andare lì a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, perchè i defunti potessero ritirarsi senza fastidio.

In Puglia la sera precedente il due novembre, si usa ancora imbandire la tavola per la cena, con tutti gli accessori, pane acqua e vino, apposta per i morti, che si crede tornino a visitare i parenti, approfittando del banchetto e fermandosi almeno sino a natale o alla befana.

Sempre in Puglia, ad Orsara in particolare, la festa veniva (e viene ancora chiamata) Fuuc acost e coinvolge tutto il paese. Si decorano le zucche chiamate Cocce priatorje, si accendono falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze e si cucina sulle loro braci; anche qui comunque gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

Questa costumanza in Puglia si chiama senz’altro cercare l’aneme de muerte e si apre con questa specie di breve serenata rivolta alla massaia:


Chemmare Tizie te venghe a cantà
L’aneme de le muerte mò m’a da dà.
Ah ueullà ali uellì
Mittete la cammise e vien ad aprì.


La persona a cui è rivolta la canzone di questua si alza, fa entrare in casa la brigata ed offre vino, castagne, taralli ed altro.

 

In Sardegna  dopo la visita al cimitero e la messa, si tornava a casa a cenare, con la famiglia riunita. A fine pasto però non si sparecchiava, lasciando tutto intatto per gli eventuali defunti e spiriti che avrebbero potuto visitare la casa durante la notte. Prima della cena, i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo: <<Morti, morti…>> e ricevendo in cambio dolcetti, frutta secca e in rari casi, denaro.

  

In Sicilia c’e’ l’usanza di preparare doni e dolci per i bambini, ai quali viene detto che sono regali portati dai parenti trapassati. I genitori infatti raccontano ai figli che se durante l’anno sono stati buoni e hanno recitato le preghiere per le anime dei defunti, i morti porteranno loro dei doni.

Dolci Tradizionali

In Sicilia troviamo la mani, un pane ad anello modellato a forma di unico braccio che unisce due mani, e il pane dei morti, un pane di forma antropomorfa che originariamente si suppone fosse un’offerta alimentare alle anime dei parenti morti

 

Le strenne.

In Sicilia, le anime dei morti, il 2 novembre, recano i doni ai bimbi, doni che vengono appunto chiamati cose dei morti.

 Per ottenerli, i bimbi recitano questa preghiera:



Armi santi, armi santi (= anime sante)
Io sugnu unu e vuatri siti tanti: (
= io sono uno e Voi siete tante)
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittiminni assai

cose dei morti, cioè regali, mettetemene assai; s’intende nella scarpetta o nel cestello che i bimbi lasciano la sera appesa alla finestra o a capo del letto.
E i morti scendono a schiere bianche e spettrali, entrano in chiesa, assistono alla prima messa, poi si dirigono alle loro case a ritrovare i loro cari. L’ingenua fantasia del popolo li vede.

A Palermo una antica tradizione, legata alla festa dei morti, voleva che i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti. Di solito per i maschietti si usava donare armi giocattolo, alle bimbe: bambole, passeggini, assi da stiro, fornelli. I più facoltosi regalavano tricicli e biciclette fiammanti. Al mattino si trovava il regalo nascosto in un punto insolito della casa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre. La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati  a grattare i piedi! 

  La festa ha un origine e un significato che si collegano al banchetto funebre, di cui si ha ancora un ricordo nel consulu siciliano , il pranzo che i vicini di casa offrivano ai parenti, dopo che il defunto era stato tumulato.

  Celebri tra questi dolci sono quelli a forma umana, quali i pupi ri zuccaru detta Pupaccena: una statuetta cava fatta di zucchero indurita e dipinta con colori leggeri con figure tradizionali (Paladini, ballerini ed altri personaggi del mondo infantile) o di pasta di miele o i biscotti detti ossa ri muortu o “u pupu cu l’ovu”.

 

Tipici sono la tradizionale muffulietta, un tipo particolare di pane (spugnoso e morbido) con poca mollica che si conza (si prepara) con OLIO, ACCIUGA, ORIGANO, SALE E PEPE con la variante del POMODORO fresco.  I frutti di martorana, fatti con pasta di mandorle e poi dipinti, sono spesso vere opere d’arte per la straordinaria somiglianza a quelli veri: nespole, castagne, pesche, fichidindia, arance e tanti altri che riempiono, associati al misto (u ruci mmiscu): il dolce misto fatto da rimasugli di biscotti impastati una seconda volta, bianco per la velatura di zucchero e marrone per la presenza di cacao; U CANNISTRU, con frutta secca, fichi secchi e datteri e che riempie la base , la martorana e i biscotti, ‘a MURTIDDA e il tutto sormontato dalla Pupaccena. Per renderlo più scintillante bastava aggiungere dei cioccolattini con carta stagnola e filamenti di carta di diversi colori. a Palermo si svolge La Fiera dei Morti: bancarelle offrono ai vari visitatori nonché ai genitori l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario, dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale Cannistru.

In Cianciana (Sicilia) escono dal Convento di S. Antonio de’ Riformati; attraversano la piazza e arrivano al Calvario: quivi, fatta una loro preghiera al Crocefisso, scendono per la via del Carmelo.

E’ nel passaggio appunto che lasciano i loro regali ai fanciulli buoni.
Nel viaggio seguono questo ordine: vanno prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, poi i disgraziati, cioè i morti per disgrazia loro incolta, i morti
di subito, cioè repentinamente, e via di questo passo.

In Casteltermini (Sicilia) il viaggio è ogni sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo le vie che devono percorrere le processioni solenni

  

LE FAVE

 

Cibo di rito per la ricorrenza dei morti sono le fave.

Secondo gli antichi – dice il Pitrè – le fave contenevano le anime dei loro trapassati: erano sacre ai morti. Presso i Romani avevano il primo posto nei conviti funebri.

Anche quest’uso fu dalla pietà cristiana portato sopra un piano più alto e riempito di un nuovo significato: poiché le fave, o anche i ceci lessi, in capaci bigonci venivano posti agli angoli delle strade e ciascuno vi poteva attingere a volontà. S’intende che più vi attingevano i poveri. Ancora oggi in Capitanata (Puglia) molte famiglie cuociono in grosse caldaie notevoli quantità di ceci o di grano, che condiscono col succo degli acini di melograno, e ne offrono dei piatti ai poveri in suffragio delle anime dei defunti. Ora le fave dei morti sono, di regola, sostituite con dolci di egual nome, e di foggia più o meno simile.

 

In Veneto le zucche venivano svuotate, dipinte e trasformate in lanterne, chiamate lumere: la candela all’interno rappresentava cristianamente l’idea della resurrezione.

 

 

 

 Per i contenuti di questa pagina ringraziamo i siti ed i libri:

(Estratto da: Paolo Toschi, Invito al folklore italiano, Studium, Roma)

Da http://www.palermoweb.com/

www.correrenelverde.it

 da cui abbiamo preso molte notizie.

 Vedi anche:

http://www.grifasi-sicilia.com/festedeimorti.html

 

 

Edda CattaniSanti e Morti: tra storia e riti
Leggi Tutto

Alda Merini : Ognissanti

No comments

Festa di Ognissanti:

la scomparsa di una grande donna

LA SEMPLICITA’-VENTO

La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili,
di finire alla mercé di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, in forza appunto.
Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore.

Alda Merini 

In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.» È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.» Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo. Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.» Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta). Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro). Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui. Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.» Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. » È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale. Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55). Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.» Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.» Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010. In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.»

È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.»

Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo.

Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.»

Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta).

Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro).

Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui.

Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.»

Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. »

È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale.

Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55).

Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.»

Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.»

Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010.

Edda CattaniAlda Merini : Ognissanti
Leggi Tutto

Solennità di TUTTI I SANTI

No comments

 1 NOVEMBRE: Solennità di TUTTI I SANTI

(P. Santo Sessa dal Santuario della Madonna del Carmine)


Dal VANGELO SECONDO MATTEO (Mt 5,1-12)

nel Vangelo di oggi Gesù ci parla della vera Beatitudine-Felicità:

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte:
si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

GESÙ VEDENDO MOLTA FOLLA SI MISE A INSEGNARE:
Gesù vede molta folla di poveri, affamati, bisognosi, ecc…
e si mette a insegnare, a dare Speranza a questi cuori afflitti.

BEATI VOI…:
quello di Gesù è un discorso sconvolgente e ‘rivoluzionario’:
come può essere ‘beato’ chi soffre, chi è povero…!?
Ma per Gesù non è beata la povertà o la sofferenza in se stessa,
ma è beato chi vive tutto ciò confidando in Dio che può tutto,
la sua beatitudine-felicità sarà nella ricompensa che Dio gli darà!
“Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli!”
A loro Gesù promette: “Il Regno è vostro!”
Non è una promessa fatta per il futuro. Il verbo è presente.
Il Regno appartiene già a loro. Loro sono beati fin da ora.

BEATI I POVERI IN SPIRITO…:

Non riguarda solo una povertà ‘materiale’ ma soprattutto ‘spirituale’,
la povertà di spirito è prima di tutto un atteggiamento interiore.
Povero in spirito è l’ANAWIM:
chi si affida e dipende totalmente da Dio
chi confida solamente in Lui, con fiducia totale.
L’Anawim, la povera per eccellenza è Maria:
“Ha guardato all’UMILTA’ (povertà-piccolezza) della sua serva…
ma GRANDI COSE ha fatto in me l’Onnipotente!”

● La seconda beatitudine parla di “afflitti” o “piangenti”,
di quanti attendono che Dio venga ad asciugare le loro lacrime:
solo Dio conosce il loro cuore, ascolta il loro grida e viene in soccorso.

● La terza beatitudine dice “Beati i miti”,
cioè coloro che si impegnano perché il mondo viva in modo fraterno.
Quante anime si spendono e hanno dato la vita per la Pace
per un mondo lacerato in cui possa esserci concordia e armonia!

● La quarta beatitudine ci dice che: “gli affamati e gli assetati della giustizia” saranno beati perché collaborano nella realizzazione del progetto di Dio….verranno sfamati e dissetati abbondantemente!

● “Beati i misericordiosi” è la quinta beatitudine.
Misericordiosi è un vocabolo che in ebraico non esiste al plurale
in quanto la misericordia è una virtù che appartiene solo al Signore
e in un sol caso è applicata al giusto (il Messia).
Possiamo essere misericordiosi verso tutti
solo se facciamo esperienza della Misericordia!

● La sesta beatitudine parla di ” Puri di cuore”,
di quanti sono semplici, integri, sinceri, autentici…
essi saranno beati perché sono i soli in grado di vedere Dio.

● La settima beatitudine dice che “quelli che fanno pace…”.
I pacifici non i ‘pacifisti’,
i portatori non di una pace ‘idealizzata’
ma i portatori di Gesù, vera e unica Pace!

● “I perseguitati” dell’ottava beatitudine
sono coloro che affidano a Dio la difesa della loro innocenza
che affidano la loro vita a Dio, come loro unico ‘rifugio’ sicuro.

LA VOSTRA RICOMPENSA È GRANDE NEI CIELI…:
non è facile vivere le Beatitudini
ma se la mèta è UNA GRANDE RICOMPENSA
se la mèta è il PREMIO che Dio ci darà PER SEMPRE
allora siamo incoraggiati a perseverare fiduciosi.

COSA DICE ALLA NOSTRA VITA CONCRETAMENTE…:
è difficile entrare in questa ‘logica’ e in questo linguaggio di Gesù,
ma sappiamo dai Santi e da persone che concretamente vivono
sulla loro pelle l’esperienza della povertà, sofferenza e ingiustizia,
offrendole e vivendole totalmente per il Signore, come siano
nella pace interiore e come vivano di una Gioia e Speranza
che solo la Fede sa donare…
Vivere le Beatitudini significa FIDARSI di Dio
nonostante la concretezza delle sofferenze che viviamo,
significa sentire di essere ‘più vicini’ a Cristo
che non ha scelto per sé la ricchezza e il successo,
ma la povertà, l’incomprensione e l’ingiustizia, fino a morire,
eppure risorgendo ha vinto ogni male dell’uomo e del mondo
e ci rende partecipi della Sua Vittoria se crediamo in Lui.
Non è facile ma se proviamo ci accorgiamo, già ora,
che ciò che Gesù promette nel Vangelo, si realizza oggi,
la fede non è illusione, è fiducia, è certezza…GIA’ ORA!!

PENSIERO SPIRITUALE: S. BERNARDO di Chiaravalle

«Che cosa ha trovato Gesù nella povertà
per amarla tanto e preferirla alle ricchezze?
O sbaglia Gesù Cristo o si sbaglia il mondo.»

 

 

Edda CattaniSolennità di TUTTI I SANTI
Leggi Tutto

Buon compleanno Lene!

No comments

Una festa per Lene!

… e dolcetto scherzetto  …

per tutti i bambini!!!

Sei nata stanotte, nella “notte delle streghe “ mentre il vento ululava alla luna ma tu sei la stella piu dolce del cielo — you were born tonight and the wind was howling to the moon, but you were and you still are the brighter star in the sky.

Auguro una buona serata a tutti.. e mi raccomando.. dolcetto e scherzetto.. sennò che gusto c’è…. un abbraccione anche a Lene che stanotte verrà a farci un giro da stè parti, perchè le preparerò qualcosa di buono da mangiare .

your dad, il tuo papà

1 Novembre

Ecco, immaginate che stamattina pignone mi stava tenendo tra le sue “mani” èh si, pesavo solo 900 grammi, ecco perché il papà mi chiamava pulcetta o ranocchietta…. io volevo ringraziarvi tutte per i vostri splendidi messaggi che avete lasciato sulla mia bacheca, e nel contempo voglio lasciare un pensiero, lo stesso che ho lasciato al mio pignone quando piangeva di fronte alla mia tomba, gli dissi: non piangermi qui, questa non è casa mia, casa mia è il vento che ti accarezza il viso casa mia sono le stelle che illuminano i tuoi passi….. TVB

 

 

 

 

 

Halloween

 

Halloween (o Hallowe’en) è una festività che si celebra principalmente negli Stati Uniti, nord del Messico, e alcune provincie del Canada nella notte del 31 ottobre. Le attività tipiche di questa festa sono: dolcetto o scherzetto, partecipare a parate o sfilate in costume tipico, intagliare una tipica zucca di Halloween, o jack-o’-lantern, allestire falò, visitare attrazioni collegate a fantasmi e spiriti, fare scherzi, raccontare storie.

Nelle mie scuole i bambini, con le loro insegnanti di Lingua Inglese hanno sempre festeggiato la giornata di Halloween ed io ho collaborato con loro a costruire zucche dipinte, o scavate per mettere all’interno candele accese… Poi ci si travestiva con costumi sui quali banalizzare ogni immagine “horror”; quale occasione in più per  far tacere e ridicolizzare la simbologia delle “paure” profonde dei bambini.

 

 

 

 

Il simbolismo di Halloween include anche temi come la morte, il male, l’occulto o i mostri  mitologici. Nero e arancione sono i colori tradizionali di questa festa.

Il simbolismo di Halloween deriva da varie fonti, inclusi costumi nazionali, opere letterarie gotiche e horror (come i romanzi Frankenstein e Dracula) e film classici dell’orrore (come Frankenstein e La mummia). Tra le primissime opere su Halloween si ritrovano quelle del poeta scozzese John Mayne che nel 1780 annotò sia gli scherzi di Halloween in “What fearfu’ pranks ensue!”, sia quanto di soprannaturale era associato con quella notte in “Bogies” (fantasmi), influenzando la poesia Halloween dello scrittore Robert Burns. Prevalgono anche elementi della stagione autunnale, come le zucche, le bucce del grano e gli spaventapasseri. Le case spesso sono decorate con questi simboli nel periodo di Halloween.

           

 Per questo molti cristiani non ascrivono un significato negativo ad Halloween, vedendolo come una festa puramente secolare dedicata al celebrare “fantasmi immaginari” e a ricevere dolci. Infatti Halloween non costituisce una minaccia per la vita spirituale dei bambini: gli insegnamenti sulla morte e la mortalità e le credenze degli antenati celti possono essere una lezione di vita valida e una parte dell’eredità proveniente da varie culture. Ma c’è anche chi ritiene che Halloween abbia delle connessioni col paganesimo, perciò nelle scuole parrocchiali parrocchiali cattoliche si sorvola su questa opportunità giocosa e rigettano la festività, perché sono convinti che essa celebri il paganesimo, l’occulto, o altre pratiche e fenomeni culturali giudicati incompatibili con le loro credenze, o, addirittura, credono che si sia originata una celebrazione pagana dei defunti.

Fare “dolcetto o scherzetto” e travestirsi

 

 

Fare dolcetto o scherzetto è un modo per far la festa di Halloween per i bambini. I bambini vanno in costume di casa in casa chiedendo dolciumi come caramelle o qualche spicciolo con la domanda “Dolcetto o scherzetto?” La parola “scherzetto” è la traduzione dell’inglese “trick”, che si riferisce alla “minaccia” (“threat” in inglese) di fare danni ai padroni di casa o alla loro proprietà se non viene dato alcun dolcetto. In alcune parti della Scozia i bambini girovagano ancora travestiti. Con queste sembianze fanno qualche marachella, es. cantano o raccontano storie di fantasmi, per guadagnare i loro dolcetti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniBuon compleanno Lene!
Leggi Tutto

Nati per vivere

No comments

NATI PER VIVERE

Si avvicina la ricorrenza della commemorazione dei defunti che, in questo mese  rivede la  consuetudine di andare al Cimitero e in tale occasione abbellire le tombe. In molti modi le comunità parrocchiali esprimono questo senso della speranza cristiana, ma anche la tradizione popolare porta a rappresentare usanze gradevoli in cui sono coinvolti vecchi e bambini. Il mio quotidiano pellegrinaggio al “santuario” si è trasformato in una commovente visione che ha richiamato alla memoria una poesia della mia infanzia di Ugo Betti  “Schiarita di Novembre” che così recita:

Schiarita di Novembre
al tuo breve sereno
già il camposanto di fioretti è pieno.

Sembra infatti che, ogni anno, pur in condizione di maltempo, compaia, in questa circostanza, un tenue raggio di sole a voler dare conforto e luce ai tanti visitatori .

In questi giorni non può mancare una riflessione sui grandi temi che riguardano i misteri principali dell’esistenza: la vita e la morte. 

L’atteggiamento della Chiesa, non può che essere in favore della vita e non rinuncerà mai a fare questo, né a pregare per chi è in difficoltà né, infine, al suo impegno culturale e pubblico, affinché l’uomo capisca di essere soggetto e non soltanto oggetto.

Leggo anche che Hugo Claus più volte candidato al premio Nobel per la letteratura, nel 2000 vincitore del premio Nonino è morto a 78 anni in un ospedale di Anversa, nel giorno e l’ora in cui aveva deciso. Il più grande scrittore fiammingo, romanziere, drammaturgo e poeta, Hugo Claus, voleva andarsene con fierezza e dignità, prima che la malattia, l’Alzheimer, lo consumasse, gli impedisse di scrivere, dipingere, lo rendesse estraneo a se stesso e agli altri. E così è stato. Se n’è andato per eutanasia, ha comunicato la sua casa editrice, perché il Belgio è uno dei tre paesi europei, con Lussemburgo e Olanda, dove la “buona morte” – dal 2002 – è legale.

Mentre mi accingevo a scrivere il titolo di questo breve saggio, ho pensato come queste  vicende possano dar rilievo ad una iniziativa contrastante, quella dell’ Associazione “Nati per vivere”. L’Associazione si è costituita nel 1996 per iniziativa di un gruppo di genitori di bambini nati prematuri e di alcuni medici ed infermieri operanti nel reparto di Neonatalogia dell’Ospedale Civile di Brescia con lo scopo di migliorare la cura e l’assistenza dei neonati a rischio e di fornire un’assistenza di carattere psicologico e materiale ai genitori attraverso un’opera di volontariato. “Nati Per Vivere” è un progetto concreto, fondato sullo scambio etico-professionale e psicologico tra medici e familiari dei neonati.

Cosa non si fa quando nasce un bambino? E’ vivo in me il ricordo del momento in cui sono venuti alla luce i miei piccoli nipoti , leggermente in anticipo sulla data prevista e quanto si è temuto per la loro crescita.

Inoltre  mi trovo a riflettere sulle condizioni psicologiche di tanti parenti come me che hanno seguito i loro cari in una struttura, luogo in cui gli ospiti, a volte non anziani, vivono il calvario della perdita progressiva delle funzioni dell’autonomia e della memoria.

Queste storie, la mia storia dolorosa, sono l’immagine della nostra vita crocifissa con Cristo,  oggi come ogni giorno, spalanca anche noi alla piena comunione con Dio Padre; il suo onore, la sua gloria in noi, danno peso, consistenza, senso e pienezza alla nostra vita.

Tutto quello che cerchiamo, che ogni uomo spasmodicamente cerca tra lifting, sport, investimenti, studio, affetti e sforzi e compromessi, è il desiderio più profondo del nostro cuore che ci è donato sulla nostra sofferenza, il luogo che invece disprezziamo e fuggiamo. Con Cristo sulla Croce la nostra vita è ritrovata, conservata, realizzata. Dove si perde si ritrova, è questo il segreto della felicità.

Andiamo avanti dunque e non dimentichiamo che la vita è un dono, una grande opportunità che ci è offerta affinché , in ogni momento si dia il meglio in ogni circostanza… me lo hanno insegnato i miei nipotini che, ieri sera, guardando un  cartone animato, ripetevano con le parole di un personaggio saggio:

“ IERI E’ PASSATO, DOMANI E’  UN  MISTERO, MA L’OGGI  E’ UN DONO… PER QUESTO SI CHIAMA  PRESENTE !”


Edda CattaniNati per vivere
Leggi Tutto