Edda Cattani

Afghanistan come Nassirya

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 Afghanistan, come Nassirya

per non dimenticare

TRIBUTO

In questo giorno in cui si celebra un anniversario di libertà e di pace, non possiamo dimenticare coloro che hanno dato la vita per difendere entrambe.

 

Questa pagina vuole essere un tributo ai soldati italiani in servizio all’Italia e a quelli caduti, per non dimenticare chi ogni giorno si alza e indossa una divisa per proteggere il prossimo e non sa se a casa tornerà vivo o morto…

E’ dedicata a tutti i soldati che ogni giorno combattono per la giustizia e per la libertà, che rischiano la vita per noi in ogni luogo e che credono in un ideale.

Quando mio figlio è mancato, ormai prossimo a partire per il Kossowo, ho trovato nel taschino della sua giacca un’immaginetta gualcita ove era stampata la preghiera che recitava ogni giorno:

Preghiera del Soldato

Signore Iddio, che hai costituito di molti popoli l’ umana famiglia,

da Te creata e redenta, guarda benigno noi,

che abbiamo lasciato le nostre case per servire l’ Italia.

Aiutaci, Signore, affinché, con la forza della Tua fede,

siamo capaci di affrontare fatiche e pericoli

in generosa fraternità d’ intenti,

offrendo alla Patria la nostra pronta obbedienza,

la nostra serena dedizione.
Fa che sentiamo ogni giorno,

nella voce del dovere che ci guida,

l’ eco della Tua voce;

fa che siamo d’ esempio a tutti i cittadini

nella fedeltà ai Tuoi comandamenti,

alla Tua Chiesa

e nell’ osservanza delle leggi dello Stato.
Dona, o Signore, il riposo eterno ai nostri morti

ed ai caduti di tutte le guerre.

Concedi ai popoli la pace nella giustizia e nella libertà

e che l’ Italia nostra, stimata ed amata nel mondo,

meriti la protezione Tua e la materna custodia di Maria

anche in virtù della concordia operosa dei suoi figli.
Amen.

 

 

Edda CattaniAfghanistan come Nassirya
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L’Omelia di Papa Leone

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L’Omelia di Papa Leone:

“Il matrimonio è il vero amore tra uomo e donna”

È anche il Giubileo dei bambini e dei nonni: “Contento di vedere tanti bimbi, rinnovano la nostra speranza. I nonni sono modello genuino di fede”. Prima della messa, giro in papamobile tra i fedeli.

Piazza San Pietro
VII Domenica di Pasqua – Domenica, 1° giugno 2025

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“Il matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la donna: amore totale, fedele, fecondo” dice il Papa nell’omelia della Messa del Giubileo delle famiglie sottolineando che questo amore “rende capaci, a immagine di Dio, di donare la vita”. Quindi, il Pontefice ha invitato i genitori ad essere per i figli “esempi di coerenza, comportandovi come volete che loro si comportino, educandoli alla libertà mediante l’obbedienza, cercando sempre in essi il bene e i mezzi per accrescerlo. E voi, figli, siate grati ai vostri genitori: dite grazie, per il dono della vita e per tutto ciò che con esso ci viene donato ogni giorno”. “Infine a voi, cari nonni e anziani, raccomando di vegliare su coloro che amate, con saggezza e compassione, con l’umiltà e la pazienza che gli anni insegnano”.

Tutti viviamo “grazie a una relazione, cioè a un legame libero e liberante di umanità e di cura vicendevole. È vero, a volte questa umanità viene tradita. Ad esempio, ogni volta che s’invoca la libertà non per donare la vita, bensì per toglierla, non per soccorrere, ma per offendere. Tuttavia, anche davanti al male, che contrappone e uccide, Gesù continua a pregare il Padre per noi, e la sua preghiera agisce come un balsamo sulle nostre ferite, diventando per tutti annuncio di perdono e di riconciliazione”.

 

Edda CattaniL’Omelia di Papa Leone
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Ascensione. Scavare il Cielo

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Ascensione :Scavare il Cielo 

ascensione

Ascensione (Luca 24,46-53)“Il Cristo patirà e risorgerà il terzo giorno”. È vero, Signore, siamo figli del Terzo Giorno, figli di una promessa di Resurrezione, eppure facciamo davvero fatica a sentire vere le tue parole in queste nostre vite affaticate. Persi nel lungo cammino del primo giorno, dentro quel venerdì di dolore e di passione che sembra non finire mai, tempo di sogniarrestati, di tradite speranze, di vita che sbrana pezzi di carne da una colonna che continuiamo ad abbracciare per sfinimento. A volte invece ci sentiamo figli del secondo giorno, quel sabato di silenzio solo apparentemente meno violento: quello delle cose che non cambiano, quello del vuoto di futuro, camminiamo in un mondo che non volevamo così, tutto è fermo, niente cambia, noi, soprammobili lussuosi di uno sfondo nauseante. “Il Cristo patirà”, sì, lo sai bene, anche a noi è data la nostra parte di patimento. Nel cuore della Storia, cruda e spesso atroce, parlare di gioia diventa quasi fuori luogo. E mentre infastidisce certa retorica cattolica a buon mercato, rimaniamo ancora in ricerca di parole buone per osare dire quella speranza che in cuore nostro cerchiamo per arrivare al terzo giorno.

Non resta che cercare tra il pudore delle parole evangeliche, pagina figlia del bisogno di sopravvivere nel cuore dei due giorni, parole disegnate per camminare, magari lentamente, ma per camminare incontro al giorno terzo. Cerchiamo nella grammatica biblica qualche appiglio possibile e forse lo troviamo in quella promessa che lasci scivolare tra le pareti del nostro cuore. Poi ci porterai a Betania, luogo del cuore, dell’intimità, dell’amore, ma prima ci chiedi di restare per lasciarci “rivestire di potenza dall’alto”, queste le tue parole. Se ci avessi portato subito a Betania il nostro cuore sarebbe andato in frantumi, non avremmo retto, avevamo bisogno di stare ancora in Gerusalemme, luogo di passione. È la pedagogia dei due giorni, tempo di sepolcro vuoto, scavato nella roccia. Con le lacrime agli occhi Signore ci pare di capire che noi possiamo essere riempiti di Te solo se sappiamo lasciarci scavare, come roccia, sepolcro nuovo nella nostra intimità. Il dolore del primo giorno, le carni strappate a violenza, l’umiliazione e il tradimento; il feroce silenzio del secondo giorno, quel niente che succede ad altro niente, sono passaggi che creano vuoto dentro di noi. Il nostro cuore deve essere svuotato a sepolcro. È la vita stessa che scava. Ed è un vuoto che deve essere mantenuto tale. Intravedo un barlume di buona notizia, un timido raggio di luce. Noi siamo figli dei giorni del divino svuotamento e la nostra storia non è altro che riconoscerci come un Vuoto aperto all’Infinito. Per diventare preghiera, per implorare questo terzo giorno che sembra non venire mai. Chiamati a vivere con questo vuoto nel cuore, questo Niente in attesa di una carezza, di una benedizione. E mi pare di cominciare a comprendere, e forse vorrei non fosse così. Testimone credibile è colui che cammina nel mondo con quel vuoto brutale inchiodato nel cuore, è consegnare al fratello un cuore scavato di bisogno d’amore, dolore e nostalgia. Un cuore ferito, ricucito, rattoppato, sempre affamato, delicato come un pulcino appena nato… solo così noi possiamo tentare di essere testimoni credibili di conversione e di perdono: “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono”. Perché è solo il vuoto che ci portiamo dentro, questa eterna nostalgia da marinai dell’Infinito, questa paurosa inquietudine, questa dilaniante fame di vita a parlare, in modo credibile, di Te. Senza il Vuoto il Terzo giorno sarebbe solo facile retorica.

Occorre sostare nei due giorni che precedono il Terzo. Occorre non voler affrettare il finale. Un Vangelo che mette in guardia contro i cuori troppo pieni di buone intenzioni, di tante consolazioni, di eccessive sicurezze, persino troppo pieni di una idea di Dio che diventa giudicante. Solo un cuore affamato può provare ad accogliere la promessa di Gesù, quella “potenza dall’alto” che risulta, come ogni riga del Vangelo, paradossale. Paradossalmente potente è Betania, la casa dell’intimità e della tenerezza, potente è l’amicizia, quella che piange la morte di un amico; potente è la cura delle piccole cose: una casa accogliente, il pane spezzato, le parole scambiate alla luce di un fuoco; potente è l’amore, di chi siede ai tuoi piedi e vive di Te. Potente, paradossalmente potente, è Betania, la casa degli affetti, casa di cuori innamorati. E non c’è niente di più affamato di un cuore innamorato, la potenza paradossale del Vangelo è imparare questa fame: vuoti a implorare una pienezza che solo un giorno sarà, nel Terzo tempo di questa storia che chiamiamo vita.
Solo un cuore affamato può accogliere la paradossale potenza dall’alto, che è una benedizione infinita sulla storia. Alla fine di tutto rimangono due mani ad accarezzare ogni spigolo di mondo. Gesù, benedicendo, tocca, dall’alto, ogni aspetto della vita, come a dire che ogni cosa rimanda a Lui. Ogni cosa canta o soffre o lamenta una fame d’Amore radicale. Da quel giorno il mondo implora amore dall’Alto. Non resta che liberarci dalla tentazione di una resurrezione a buon mercato, siamo popolo da traversata, barca in mezzo al mare, gente di primo e secondo giorno, cuori scavati dalla vita, come sepolcri in attesa di essere Oltre-passati dal Sacro Vuoto che lascia nostalgia d’Amore.

Signore, come ai discepoli della prima ora concedi anche a noi di lasciarci “condurre fuori”, primo movimento necessario del cuore affamato. Docilità di chi non basta a se stesso. Conduci fuori da noi stessi il nostro baricentro Signore, scavaci dentro il vuoto che parla del fratello, solo un cuore svuotato dal nostro egoismo può riscoprire l’inquietudine della fame. E sarà elogio del cammino.
“Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. C’è un Vuoto grande sopra le nostre teste, un respiro infinito, e noi viviamo respirando da quel Grande Spazio. Dacci il coraggio di lasciare entrare Infinito dalle nostre pupille affaticate. Elogio del Cielo.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui”, un grande definitivo inchino, elogio della terra, a baciare il visibile. A baciare questo amore che chiede carne per potersi raccontare. Ad evitare di fuggire il mondo, ad abitarlo e ad amarlo con tutte le sue tensioni.
Elogio del presente: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Elogio sofferto di una vita che sarà scavo, scavo doloroso, che sarà ripetersi di primo e secondo giorno. La gioia è saper intravedere benedizione dentro le lacrime. Vorrei avere il coraggio di chiederti anche questo dono.

 

Edda CattaniAscensione. Scavare il Cielo
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Giubileo delle Famiglie 2025

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Giubileo delle Famiglie, dei Bambini, dei Nonni e degli Anziani

Una festa della famiglia? No, meglio una festa delle generazioni. Una festa capace di coinvolgere in un solo abbraccio coppie, genitori, figli, nonni, parenti, persone anziane. Ancora meglio: una festa delle buone relazioni che fanno vivere e danno speranza alla Chiesa e al mondo. Perché tra comunità ecclesiale e comunità civile non c’è mai opposizione quando al centro ci sono famiglie attive e consapevoli, disposte a mettersi in gioco per costruire una società più giusta e più vivibile.

Da oggi venerdì 30 maggio a domenica, con la Messa celebrata da papa Leone XIV, la grande festa delle famiglie con tanti momenti: riflessioni, giochi, spiritualità e incontri per genitori, bambini, nonni, anziani

 

Ecco il senso dei tre giorni che, da oggi a domenica, quando si concluderà con la Messa di papa Leone XIV, il cammino giubilare dedica a tutto ciò che fa famiglia, dai bambini ai nonni. Un programma intenso (https://www.iubilaeum2025. va/it), che mescola riflessione e festa, aspetti pastorali e socio-politici, santità familiare e spazi ludici. Perché la vita della famiglia è questo, un prisma con tante sfaccettature, in cui non c’è un aspetto che prevale sull’altro. Dentro – e fuori – le pareti di casa, tutto è importante e tutto dev’essere tenuto in equilibrio: relazioni, preghiera, lavoro, educazione, lavoro di cura, scelte di sobrietà, impegno sociale ed ecclesiale, riposo, svago e tanto altro.

Nella “tre giorni” familiare che da oggi animerà e umanizzerà piazze e parchi di Roma il filo conduttore sarà naturalmente quello dell’anno giubilare, la speranza. Una virtù che sembra ritagliata a misura per tutto quanto vive e rappresenta la famiglia, a livello simbolico ma, soprattutto, a livello concreto.

Edda CattaniGiubileo delle Famiglie 2025
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Spighe lasciate al sole

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Spighe lasciate al sole

 

 

Già dai primi anni ricordo il mio risveglio in una stanza fredda, con la sveglia vibrante in modo enorme per le mie piccole dimensioni e, sulla mensola, una mezza tazza di latte dove papà, prima di andare al lavoro, aveva messo un granellino di sale…”…vedrai Gagì che la sentirai dolce…”  ma per me sapeva sempre di sale. Poi scendevo dal lettone dove avevamo dormito tutti insieme, mi vestivo con il cappotto ormai stretto e sdrucito e mi caricavo sulle spalle la pesante cartella di cuoio. Chiudevo la porta dal cui soffitto scorgevo la luce (il tetto era bucato e c’era da augurarsi che non piovesse mai …. altrimenti ci si metteva la bacinella sotto… e si dormiva sentendo il gocciolare implacabile dell’acqua piovana).


 

Iniziavo il mio cammino scendendo quegli alti quaranta gradini…. (li avevo contati tante volte e per le mie piccole gambe non finivano mai), poi la lunga strada e l’affanno per il percorso interminabile che conduceva alla vecchia scuola allocata in un vecchio palazzo diroccato, dove mi aspettavano altre scale. Ciò che maggiormente mi creava ansia era la presenza di un “gendarme” ….un’anziana bidella che era implacabile con i ritardatari ed io, data la distanza, ero spesso fra quelli. Allora venivo accompagnata dalla direttrice che indossava un grembiule nero e che mi diceva di mostrare le mani… a quel punto un colpo secco non me lo risparmiava nessuno…. Ma poco dopo… almeno, il dolore era passato.


 

Il ritorno a casa non era allegro, specialmente d’inverno quando non mi aspettava un pasto caldo e una casa tiepida, ma dovevo arrangiarmi ad accendere la stufa a segatura (non senza qualche piccolo incidente), poi riordinavo la casa e preparavo qualcosa per i miei genitori che sarebbero tornati dal lavoro la sera tardi. La parte bella del pomeriggio era quando venivo raggiunta dalle mie amichette dei cortili vicini, meschine come me, alle quali davo ciascuna una bella fetta di pane… Eh sì…anche questa era il frutto sudato del mio babbo che andava la notte nei campi a “spigolare” raccogliendo le spighe rimaste a terra, poi con mamma le battevano sul tavolo della cucina e i chicchi venivano macinati con il macinino a manovella del caffè… mamma con la farina setacciata ne faceva una pagnotta che doveva durare tutta la settimana. In verità questo non avveniva perché io la distribuivo a tante creature, misere come me …. Ma quando mamma se ne accorgeva non mi risparmiava il famoso “tiro della ciabatta” mentre io scappavo a nascondermi.

 

Era solitudine la mia? No… la mia fantasia inventava, fate, principi e castelli e sapevo volare pensando ai tempi felici in cui avrei visto tante cose e goduto di tanta appagamento.

Questa condizione può viverla un bambino, ma per l’adulto la solitudine è una condizione, un sentimento umano nella quale l’individuo si isola per scelta propria, a volte per vicende personali e accidentali di vita, come è il caso di tante persone colpite da malattie o lutti gravi. Alle volte si viene isolati dagli altri esseri umani dando luogo ad un rapporto non tanto soddisfacente con se stessi.

Saudade (AM.G)

e guardare il mare
con lo sguardo perso in quella pozza di oro colato
guardare il mare
e sentire dentro, prepotente, 
la voglia di partire.

Saudade 
dolorosa e dolcissima, 
tristezza che non fa solo male, 
piacere che non fa solo bene
desiderio agrodolce, soave nostalgia
compagna della solitudine, 
amica dell’amore
uno squarcio di passione, 
una lieve tenerezza, 
un momento di affetto 
presenza dell’assenza.

Saudade 

e sentire il cuore cantare la melodia di un nome
vivere il SOGNO 
come una danza lenta alla quale vuoi solo abbandonarti
ad occhi chiusi
ad occhi aperti.

 

Ma ciascuno di noi viene al mondo per condividere, per spezzare il pane come facevo io da piccola e anche in condizione di solitudine è coinvolto sempre in un intimo dialogo con gli altri. Quindi, più che alla socialità, la solitudine si oppone alla socievolezza. Talvolta è il prodotto della timidezza e/o dell’apatia, talaltra di una scelta consapevole.

Il saggio conclude che l’uomo come essere sociale non può fare a meno degli altri per tempi molto lunghi, ma seguire un cammino di benessere psicofisico tendenzialmente condizionato da comportamenti etici collaborativi.

La mia solitudine attuale è creata dalla condizione dell’abbandono che mi è piovuto addosso a volte o per eventi imprevedibili, a volte per scelte di allontanamento da persone che ho creduto amiche. La mia casa è diventata una sorta di protezione ove posso camminare e parlare con i miei ricordi, ma se qualcuno suonerà il campanello troverà sempre quella fetta di pane fresco che saprò trovare nella madia del mio cuore.

Ed ora una “chicca” troppo ben scritta per non riportarla:

Sulle strade del mio vivere 
Non è stato sempre facile 
Ma dal dolore s’impara un po’ di più 

Quando il tempo no n è docile 
Quando tutto sembra immobile 
Io non mi fermo, io non mi butto giù 

Domani è un altro giorno 
E il mondo 
Avrà un respiro che si avvolgerà su me 
Poi mi chiedo, e credo 
Che il cambiamento sia la fonte della mia energia 

Il mio contrario mi aiuta a crescere 
A capire che si può perdere 
Ma l’importante è non darsi vinti mai

E così se cado mi rialzo sempre 
E rimango qui 
Contro le mie ombre 

Poi mi chiedo, e credo 
Che il cambiamento sia la fonte della mia energia 
Che il cambiamento dia un senso a questa vita mia

…e m’illudo che tutto possa ricominciare…così com’era ….prima….

Buena vida a tutti!!! 


Edda CattaniSpighe lasciate al sole
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Fiori: speranze esaudite

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Fra ricorrenze e Santi: ripropongo ogni anno…

I fiori sono le speranze esaudite della terra

(Pam Brown)

E’ ancora  il 22 Maggio e il mio giardino è esploso ancora una volta in tutta la sua bellezza…con il ricordo e l’incanto del linguaggio dei fiori:

 

…poche cose vorrei da te soltanto

zampilli di fresche parole

che, come acqua di fiume,

scorressero verso me…

 

 

Abbiamo registrato la nostra Associazione come Promozione Culturale e abbiamo finalmente un’immagine ufficiale… quella che con il profumo dei fiori, ho sempre cercato di trasmettere…

 

E’ tornata la festa di Santa Rita e non posso fare a meno di aggiornare questo articolo che ha testimoniato tante mie esperienze e la bellezza della comunicazione con i miei diletti che sempre mi accompagnano. Questo dialogo è stato condiviso da tanti cari amici a da alcune Mamme in particolare … sulla cui bacheca avevo postato questa ricorrenza.

Fra queste menziono Laura, la Mamma di Marian… divenuta una “Madre Coraggio” testimone a Roma all’udienza dal Papa per le Vittime della strada:

“S.RITA era la mia protettrice e di seguito quella di mia figlia… Anche io adoro i fiori ,il giardino e di seguito anche mia figlia… lavorava presso un vivaio e studiava i giardini e gli insetti… mi ha colpito proprio il sito …è tutto ciò che ero io ed era mia figlia… lei amava tanto S. RITA tanto che a sua figlia ha dato il suo nome… era anche una devota moglie (si sarebbe sposata quest’anno) ma più che altro ha nel suo breve tempo cercato di cambiare le idee di un ragazzo sfortunato sacrificandosi nella rinuncia… di questi tempi trovare ragazze così non è facile anzi son criticate …non è che ne voglia fare un’eroina ma è così che mi hanno detto coloro che  l’hanno conosciuta ….come S. RITA io i segni non li so….ma questo è già uno… anche se la rabbia è ancora tanta e tantissimo il dolore ….in casa sua non c’erano riviste …ma solo immagini …e statue e la sua adorata S. RITA…vorrei tanto saper come andare avanti e farmene una ragione …è tutto un mosaico la mia vita e non riesco ancora ad assemblarla… grazie!”

Il ventidue maggio, nel calendario dei santi si ricorda S.Rita da Cascia. Di questa grande Santa si raccontano eventi straordinari che io ho cominciato a comprendere fin da bambina. Nella chiesa parrocchiale vicina alla mia abitazione, vi era un altare con una statua a lei dedicato ed ogni devoto che entrava, si inginocchiava per rivolgere una preghiera. La Santa infatti viene definita “la Santa degli impossibili” per le grandi sciagure che avevano devastato la sua vita: la morte del marito prima e dei tre figli poi e la Sua grande Fede nel superarle. Nella mia città, quando ero bambina si facevano ancora le “processioni” con le statue dei Santi; il 22 maggio mio padre addobbava il portone d’ingresso e la mamma stendeva sulle finestre le più belle coperte di seta. Poi al passaggio della Santa si lasciavano cadere sul corteo petali di rosa multicolori raccolti dai giardini delle case.

Questo atto di devozione è legato al trapasso di Rita, quando una parente le fece visita in un giorno di inverno e la Santa disse che avrebbe desiderato una rosa.  La parente si recò nell’orticello e grande fu la meraviglia quando vide una bellissima rosa sbocciata che colse e portò a Rita. Essa disse: “ Quando me ne andrò farò cadere dal cielo una pioggia di rose”. Cosi S. Rita divenne la Santa della “Spina” e la Santa della “Rosa”. Era il 22 Maggio del 1447. S. Rita prima di chiudere gli occhi per sempre, ebbe la visione di Gesù e della Vergine Maria che la invitavano in Paradiso. Una sua consorella vide la sua anima salire al cielo accompagnata dagli Angeli e contemporaneamente le campane della chiesa si misero a suonare da sole, mentre un profumo soavissimo si spanse per tutto il Monastero e dalla sua camera si vide risplendere una luce luminosa come se vi fosse entrato il Sole.



La grande devozione a questa Santa, devota Sposa e Madre,  a cui mi sono da sempre affidata, ha riempito il mio cuore di tenerezza per tutta la mattinata di sabato, anche quando sono andata a portare le rose in cimitero.
Ho posato il capo sulla pietra nuda della cappella dove abbiamo composto le splendide spoglie del nostro adorato figlio Andrea ed ho avvertito che emanava un debole vapore. Ho azzardato una carezza ed un alito di vento mi ha accarezzato il volto, i capelli. Ho pensato: “Mancava questo soffio! Dio è qui!” Sulla mensola a fianco ho posto un cero, simbolo del  fuoco e sul ritratto ho appeso una colombina bianca. Ho pensato che l’indomani sarebbe stata la V Domenica di Pasqua ed ho avvertito una grande pace interiore. 

«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto;
quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io.
E del luogo dove io vado, voi conoscete la via».


Giovedì in serata sono venuti a casa mia alcuni amici della nostra associazione con i quali ci eravamo dati appuntamento per scambiare liberamente, fra noi, commenti ed esperienze. E’ la prima volta che questo accade da quando sono rimasta sola e Mentore non è in mia compagnia, per cui si è trattato di una circostanza veramente speciale. La mia casa ha le pareti “benedette” perchè vi si respira un’aria fatta di mistiche presenze; per questo ne amo i colori e le mille piccole cose di cui è ricolma, anche se si tratta di oggetti senza valore, ma con il dolce sapore dei “ricordi”.

Ciò che però colpisce nell’entrare dal cancello è l’immensa fioritura multicolore che fa somigliare il mio giardino ad un piccolo paradiso. In esso vi sono piante fiorite di tutte le dimensioni e colore e alberi da frutto. Fin qui non vi sarebbe nulla di speciale, ma, da quando è mancata la mia mamma, l’inverno scorso, ogni anniversario o data importante viene accompagnata da una nuova scoperta. La mia mamma amava tanto i fiori e quando era mia ospite le compravo sempre una piantina di piccole rose che ponevo sul davanzale della sua finestra; poi, quando se ne andava, la interravo in un angolo del giardino. Ora tutte quelle pianticelle sono diventate roseti che mi regalano boccioli lungo tutto il corso dell’anno e quando apro le finestre al mattino sono curiosa nello scoprire quale sorpresa mi sia stata data.

Questa è la più bella ed è sbocciata il giorno della festa della Mamma

Questa bellissima orchidea è sbocciata per la seconda volta nell’anniversario della sua dipartita.

La mia piccola palma, regalatami dalle mie insegnanti qualche anno fa, è fiorita per la prima volta, il giorno di Pasqua!

Dovrei, ora creare un album fotografico per raccontare le mille esperienze vissute nel mio giardino incantato, ma esse fanno parte di quel linguaggio nascosto che accompagna le mie giornate, così dense di impegni, impregnate di sofferenza, ma calde di affetti silenziosi che parlano nel profondo del mio cuore. Per questo, cari amici volevo mettervene a conoscenza… perchè i segni sono tanti che il Signore ci dà a nostro conforto… basta saperli cogliere!

  Un saluto “fiorito” da un angolo della mia casa, con un grande abbraccio di Luce!

Edda CattaniFiori: speranze esaudite
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Abbandono al Padre e “Affido a Maria”

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Abbandoniamoci al Padre

In questi giorni di maggio, fra mille notizie poco rassicuranti passate attraverso i media, ho sentito vivo in me il desiderio di “pace” e di un’unione interiore con il Padre, attraverso Maria. Nella mia precarietà quotidiana molti sono i momenti di sconcerto ed ho bene accettato il suggerimento, di “ritirarmi un po’ nel deserto” per uscire da quest’amara, rabbiosa confusione e capire meglio…tante cose…tante realtà diverse da quelle ben organizzate nelle quali si ha la fortuna di vivere… Ho riletto con attenzione il messaggio di un amico, che mi ha inviato in allegato la locuzione interiore ricevuta da un sacerdote napoletano in odore di santità, don Dolindo Ruotolo e l’ho fatta mia, trasmettendola anche alle mamme di FB:  Angela,  Vera, Maria Grazia..… perché la condivisione portasse realmente frutto.

amore

“Passate il vostro tempo libero nella preghiera di abbandono e di lode. Purché questa preghiera non sia per forza solo secondo le formule, e se le formule scompaiono, non pensate che anche la preghiera di abbandono scompare. Voi potete per esempio dire una preghiera orale, una formula, un salmo, se questo vi aiuta a stare in unione con Dio, nella sua presenza, che sia percepita o no, ma non mettetevi a ripetere la formula… è questa la via dell’abbandono alla sua azione che non possiamo definire né prolungare, ma alla quale dobbiamo abbandonarci. Abbandonatevi dunque tra le sue mani non solo nelle situazioni prevedibili ma anche in ciò che rimane nascosto in Dio, dietro tutto ciò che può o deve capitarci. Vivete l’abbandono all’azione di Dio in noi, questo Dio da cui di continuo riceviamo l’essere, il movimento, la vita”   

“Abbandonandoci al Padre”

Gesù è l’Uomo rivelato a se stesso !

 Padre mio,

io mi abbandono a Te,

fa’ di me ciò che ti piace;

qualunque cosa tu faccia di me,

Ti ringrazio.

 

Sono pronto a tutto, accetto tutto,

purché la Tua volontà si compia in me

e in tutte le Tue creature :

non desidero altro, mio Dio.

 

Rimetto la mia anima nelle tue mani,

Te la dono, mio Dio,

con tutto l’amore del mio cuore,

perché Ti amo.

 

Ed è per me una esigenza d’amore

Il donarmi,

il rimettermi nelle Tue Mani,

senza misura,

con una confidenza infinita,

poiché Tu sei il Padre mio.

Per questa intima unione, un grande monito ci viene dato:

 il Santo Padre  ha affidato il Paese alla Madonna

“Mater Unitatis” 

rievocando i 150 anni dall’Unità d’Italia.

Secondo il sussidio liturgico diffuso dalla Cei a tutte le diocesi per la celebrazione del rosario, l’appellativo con cui ci si rivolgerà alla Madonna sarà quello di «Mater Unitatis». «Fratelli e sorelle, – si legge nel sussidio della Conferenza episcopale italiana – in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la Chiesa desidera affidare a Maria, che invochiamo con il titolo di Mater Unitatis, tutto il popolo italiano. In comunione con le altre comunità cristiane, celebreremo i misteri della luce».

mater unitinitas

 «Nel seno di Maria lo Spirito ha reso possibile l’incontro tra il cielo e la terra, tra la Gloria e il fango. E’ avvenuto uno scambio ammirevole. La venuta dello Spirito ha prodotto un essere umano, nel quale ogni essere umano può dire: “sono io” e in cui Dio dice: ”sono io”. In questo essere umano l’umanità futura ha cominciato ad esistere.”

( Brani Tratti da “Sulle orme di Fratel Carlo… Esercizi Spirituali Jesus-Caritas – Nov.2003”)

Edda CattaniAbbandono al Padre e “Affido a Maria”
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1° Maggio: un insieme di ricorrenze

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Questo è un mese benedetto …anni fa è iniziato con un grande dono : la beatificazione di Papa Giovanni 23° e del nostro Santo  Pontefice Carol Wojtyla, amante di Maria Santissima e grande lavoratore della vigna del Signore!

 

 

MAGGIO: Mese di Maria, Festa di San Giuseppe Artigiano… la meravigliosa unione della Sacra Famiglia

Dedicato a te Mentore, per il grande Padre che sei stato! 

San Giuseppe ebbe meriti smisurati al pari di Maria, per noi fedeli deve essere egli dunque un “maestro di bottega”, come lo fu per Gesù:… un artigiano che col suo lavoro, silenzioso e faticoso, ma sempre risoluto, si fa per noi modello di umiltà, semplicità, povertà, amore. San Giuseppe ci ricorda come il cammino della fede sia fatto di osservazione: l’osservare un gesto banale ma che nell’ottica della fede ci appare invece illuminante più di ogni scritto, più di ogni omelia, più di ogni miracolo.

 

“Dio combina le combinazioni”, affermava San Pio da Pietralcina. 

Quanto appare singolarmente adatto, questo suo pensiero, al mese di maggio! 

Per una splendida “combinazione” il mese mariano per eccellenza,  prende l’avvio con una festa dedicata a San Giuseppe, cosicchè lo Sposo, quasi “accompagni” per mano la Sposa, introducendola con squisita “galanteria” nel periodo a lei particolarmente dedicato per poi lasciarla unica regina incontrastata dei 30 giorni successivi!

 

La speciale “vocazione” mariana del mese di maggio ha origini antiche, che affondano le proprie radici nella tradizione popolare. 

La festa di San Giuseppe artigiano fu invece istituita nel 1955, da Pio XII e in Italia si festeggia il 1° maggio.

Questa felice coincidenza sottolinea -quasi “simbolicamente”- la forte unione fra gli sposi di Nazaret, Giuseppe, l’uomo giusto e silenzioso, si presenta il primo maggio per accompagnare Maria, ricordandoci che a suo tempo, nella storia dell’incarnazione,  fu scelto da Dio per “affiancare” la Vergine nel suo percorso di maternità del Figlio di Dio, per non lasciarla sola,  rispettando in tal modo anche quelle che erano le “consuetudini” sociali del tempo.

Se Dio avesse voluto, non avrebbe avuto bisogno né di Maria né di Giuseppe, per far nascere Gesù, ma, volendo servirsi degli uomini, ha deciso di fare le cose in pienezza.

Dio non ha fatto della Vergine una “ragazza madre”, ma le ha donato un degno sposo, inserendola così in un nucleo familiare che non ingenerasse scandali (anche per questo motivo, si ritiene che San Giuseppe non fosse un vegliardo, come tanta produzione artistica ci fa credere!).

In un piccolo libricino, edito dal Movimento Giosefino, si legge :

“Il Figlio è stato ricevuto da entrambi per mezzo della mente, non della carne. Infatti, se Maria è verginalmente e castamente madre, altrettanto lo è Giuseppe come padre. Già San Girolamo fu primo e grande assertore di questa verità”.

Se questa fu la grande “condivisione” di Maria e Giuseppe in terra, figuriamoci quale possa essere in Cielo, la loro unione spirituale!

A testimonianza di questo, molte sono le visioni in cui grandi Santi hanno visto assieme i due Sposi, e grande la devozione nutrita verso di essi.

Nell’ultima apparizione di Fatima, oltre alla Vergine, i tre pastorelli, videro anche San Giuseppe -vestito di bianco e che teneva in braccio il Bambinello-.

E fu proprio “il falegname”, insieme al Figlioletto, a benedire il popolo che sostava in preghiera. 

Non è questo un inequivocabile segno dell’armonia che alberga -anche e soprattutto in Paradiso!- fra i membri della Santa Famiglia?

Papa Pio XI, nel 1935, affermò: “sorgente di ogni grazia è il Redentore Divino, accanto a Lui è Maria Santissima, dispensatrice dei divini favori; ma se c’è qualche cosa che supera queste due sublimi potenze è, in un certo modo, il riflettere che è S. Giuseppe che comanda all’uno o all’altra, colui che tutto può presso il Redentore Divino e presso la Madre Divina in una forma ed in un potere che non sono soltanto di famulatoria custodia”.

In effetti, se i “legami” terreni, trovano il loro “compimento”, la pienezza, soltanto in Paradiso, si potrebbe mai credere che San Giuseppe diventi un “estraneo” per il Figlio di Dio, proprio in Paradiso? 

In maniera molto semplice, si potrebbe dire che il “capofamiglia” rimanga pur sempre tale! Troviamo una conferma di questo, in un episodio della vita di Suor Consolata Bertrone, verificatosi subito dopo la morte del suo babbo. La clarissa cappuccina, così racconta:

“Babbo mio era morto. -Ebbene, mi dissi, lo sostituirà San Giuseppe!- E mi affidai a lui, eleggendolo per mio padre. Una soave visione internamente venne a rallegrare la mia anima: la Madonna e San Giuseppe! -Che cos’hai, Consolata, che sei così mesta?- O San Giuseppe, babbo è in Purgatorio e Gesù non vuole liberarlo sino a sabato mattina. -Vedrai, lo libererà domani, Venerdì Santo- Ma Gesù non vuole, l’ho già pregato tanto! -Oh, Gesù lo comando io (mi disse sorridendo) e domani tuo babbo sarà liberato, te lo prometto…-”

E fu proprio una visione del babbo, il giorno successivo, a far capire a Consolata, che la promessa era stata mantenuta!

L’episodio -sebbene si tratti di una visione “privata”- è quantomai significativo, testimonia la completa armonia tra i due sposi, che riporta alla mente quella manifestata al momento del ritrovamento di Gesù al tempio, sebbene qui, i ruoli, si “invertano”.

Stavolta è Maria ad essere silenziosa, ma proprio con il suo silenzio, dimostra una perfetta concordanza di intenti con il suo sposo, il quale -a sua volta- sottolinea con le sue parole bonarie (sorride, mentre parla!), l’intima unione con Gesù. 

Il “capofamiglia” sa di poter “comandare” al proprio figlio…anche se si tratta del Figlio di Dio! E’ la legge dell’amore, che fa obbedire un Figlio ai giusti comandi del padre..anche se Padre Putativo! E questo perché, in Paradiso, i Santi (come lo è San Giuseppe) altro non possono che desiderare la volontà di Dio…

Dunque, avviamo il mese mariano invocando l’aiuto e la protezione di San Giuseppe della Vergine Maria: come la Vergine è considerata la “mediatrice di tutte le grazie”, il suo sposo è, oltre che “uomo di contemplazione e di sogni celesti, uomo d’azione; pronto nell’operare in obbedienza a Dio, e nel sovvenire a quanti gli sono affidati.”

Santa Teresa d’Avila disse: “Ad altri santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso S. Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte”.

E stiamo pur certi che, se rivolgiamo le nostre preghiere al padre putativo di Gesù, sarà lui stesso a condurre le nostre richieste alla Vergine, ed entrambi, si faranno nostri amorevoli intercessori presso Gesù!

 

Buon mese mariano a tutti!

 

 

1 MAGGIO: SAN GIUSEPPE LAVORATORE – Intervista a p. Angelo Catapano

 

1° maggio, festa dei lavoratori, ma anche festa di San Giuseppe lavoratore. A San Giuseppe si ispira la Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, fondata da San Leonardo Murialdo, insieme con l’altra dei Giuseppini cosiddetti di Asti. Dei Giuseppini del Murialdo fa parte padre Angelo Catapano che è direttore del Centro Studi san Giuseppe ed è responsabile delle riviste “Vita giuseppina” e “La voce di San Giuseppe”. A padre Catapano, Giovanni Peduto della Radio Vaticana ha chiesto innanzitutto quale lavoro facesse san Giuseppe, che qualche volta viene definito falegname, altre volte carpentiere:

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R. – I termini che usano i Vangeli di Matteo e di Marco, sono dal greco “tecton”, in latino “faber” e poi tradizionalmente, nei secoli passati, si parlava piuttosto di falegname. Oggi si usa di più la traduzione “carpentiere”, proprio perché è un termine un po’ più ampio, generico, che comprende anche il lavoro del falegname, ma potrebbe essere anche fabbro: in qualche modo, chi costruisce. Ed è bello e simpatico già immaginare questo. Dobbiamo anche pensare, poi, che si trattava di un piccolo villaggio, Nazareth, dove i lavori non potevano essere così precisi.

D. – In questo lavoro, era aiutato da Gesù?

R. – Sicuro. Tant’è che il Vangelo stesso dice ad un certo punto: non è lui il figlio del falegname? Addirittura, gli si dice: non è lui il carpentiere? Effettivamente, Gesù ha passato tanti anni accanto a Giuseppe in quella bottega di Nazareth, in quella vita nascosta che ha una sua importanza, non solo come esempio per l’umiltà, ma anche per l’elevazione del lavoro ad una dignità che non è solo umana ma diventa a quel punto ‘divina’. Giuseppe ha educato Gesù, l’ha istruito nel lavoro, ma anche un poco alla volta, passando gli anni, da educatore si è fatto discepolo di Gesù e si è messo alla sua scuola. E lui ha imparato ed è stato istruito da Gesù!

D. – Qual è il senso cristiano del lavoro che ci viene oggi da questa festa?

R. – Questa festa del primo maggio ha bisogno di un rilancio. Nei lunghi anni del suo Pontificato, Giovanni Paolo II non ha perso occasione per incontrare in questa circostanza il mondo del lavoro. E’ per tutta la Chiesa un motivo di riincontrare il mondo del lavoro, i problemi di oggi, e non vederlo soltanto come una questione qualunque, perché il lavoro è la chiave, come ha detto Papa Wojtyla, della questione sociale.

D. – San Giuseppe è stato il custode del Redentore. Nel lavoro si può quindi chiedere anche la sua intercessione …

R. – Certo. E’ il modello, il patrono dei lavoratori. D’altra parte, l’opera che il nostro santo svolge accanto a Gesù nel mondo del lavoro accompagna quell’opera che Gesù Cristo stesso farà nella sua vita pubblica: l’opera della Redenzione, perché Gesù viene ad operare. E noi ci auguriamo che, insieme con la benedizione di San Giuseppe, ci sia anche – ed è di buon auspicio – il nuovo Papa, Benedetto, che porta nel nome di battesimo il nome stesso di San Giuseppe.

Ecco perché il primo maggio è anche
la festa dei lavoratori

Primo maggio : storia, origini e tradizioni

 

La Festa dei lavoratori, o meglio la Festa del lavoro, è una festività che annualmente viene attuata per ricordare l´impegno del movimento sindacale ed i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori. La festa del lavoro è riconosciuta in molte nazioni del mondo ma non in tutte. Più precisamente, intende ricordare le battaglie operaie per la conquista di un diritto ben preciso: l´orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore. Tale legge fu approvata nel 1866 nell´Illinois, (USA), la Prima Internazionale richiese che legislazioni simili fossero approvate anche in Europa. Convenzionalmente, l´origine della festa viene fatta risalire ad una manifestazione organizzata negli Stati Uniti dai Cavalieri del lavoro a New York il 5 settembre 1882. Due anni dopo, nel 1884, in un´analoga manifestazione i Cavalieri del lavoro approvarono una risoluzione affinché l´evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate alla Internazionale dei lavoratori – vicine ai movimenti socialista ed anarchico – suggerirono come data della festività il Primo maggio. Ma a far cadere definitivamente la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago (USA) e conosciuti come rivolta di Haymarket. Questi fatti ebbero il loro culmine il 4 maggio quando la polizia sparò sui manifestanti provocando numerose vittime. L´allora presidente Grover Cleveland ritenne che la festa del primo maggio avrebbe potuto costituire un´opportunità per commemorare questo episodio. Successivamente, temendo che la commemorazione potesse risultare troppo in favore del nascente socialismo, stornò l´oggetto della festività sull´antica organizzazione dei Cavalieri del lavoro. La data del primo maggio fu adottata in Canada nel 1894 sebbene il concetto di Festa del lavoro sia in questo caso riferito a precedenti marce di lavoratori tenute a Toronto e Ottawa nel 1872. In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889 e ratificata in Italia soltanto due anni dopo. In Italia la festività fu soppressa durante il ventennio fascista – che preferì festeggiare una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma – ma fu ripristinata subito dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1945. Nel 1947 fu funestata a Portella della Ginestra (Palermo) quando la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina.

Edda Cattani1° Maggio: un insieme di ricorrenze
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Ricordi di guerra.

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Oggi 25 Aprile, fra i ricordi di guerra, riteniamo che il migliore saluto possa essere costituito dal seguente brano tratto da «Centomila gavette di ghiaccio» di G. Bedeschi – Ed. Mursia, 1963 – e che ricorda l’ingresso dell’Autore a far parte di una divisione alpina.

Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli alpini, ignari d’ogni complicazione e spregiatori d’ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio. facesse imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul capello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un mozzicone malconcio, e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra: perché, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse: anzi!
E’ un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case, distaccato dal chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio, per ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell’ultimo nipote per vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un bell’alpino; bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C’è una ragione naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al bocia giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino: sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l’impressione di soffocare; con la neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno.
E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia.
E’ tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il fischio rabbioso debba passare sempre due dita in là, per non bucarlo; è così che dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta che, a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra che venga a fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno e farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi maledetti alpini!
E’ tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna venderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perchè la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un po’ di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuor così; sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com’è, vien su tal quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno «penna nera» senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a piacimento, o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le «penne nere»; che per la loro terra e l’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia.

GIULIO BEDESCHI

 

Edda CattaniRicordi di guerra.
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Coraggio e fermezza

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CORAGGIO E FERMEZZA

(dalle pagine degli anni precedenti)

 

Vengo da una generazione in cui nelle scuole, per imparare a scrivere, non si usava il computer, ma penna e calamaio … ed infine la pagina veniva ‘asciugata’ con la ‘carta assorbente’.  In questa rimanevano i caratteri fondamentali con un po’ di inchiostro in eccesso.  Anche nella vita si può essere ‘carta assorbente’ di ciò che di ‘fondamentale’ viene rilevato nella nostra quotidianità, perché questo può insegnarci a vivere. Io penso proprio di essere una di queste in quanto sono sempre stata  ‘carta assorbente’ nell’ ascoltare e cercare di rilevare dalle parole degli altri quanto occorre nella mia meditazione e riflessione quotidiana per crescere interiormente. Non si tratta perciò di fare ‘copia e incolla’ ma di estrapolare da una frase quel succo, quel messaggio profondo, che porta ad un cambiamento nelle opinioni e, pertanto, mi è di aiuto.

 

Questa mattina, dell’occhiello dell’articolo nella mia pagina di vita metto quanto ha detto il Presidente  nel discorso del 25 aprile, giorno della Resistenza (e la parola può essere tutto un programma) dopo aver deposto la corona di alloro all’altare della Patria:

“… abbiamo molto da imparare sul modo di affrontare i momenti cruciali: coraggio, fermezza…” ed ha aggiunto: “Dobbiamo fare tutti la nostra parte con realismo, consapevolezza, senso di responsabilità…”

 

A queste parole mi aggancio con quanto ha detto, Papa Francesco nell’udienza del mercoledì: “Il cristiano che tiene nascosti i suoi doni non è un cristiano. La storia della Chiesa è una storia d’amore perché alla fine saremo giudicati sulla carità.”

 

Unisco le due asserzioni… ed eccone la mia riflessione:

 

La vita ci mette sempre davanti a delle scelte e a secondo della strada intrapresa la nostra vita acquista il suo significato ed il suo peso.

 

Mi sembra inutile e superfluo aggiungere che dovremmo nelle nostre pur sempre infinite possibilità avere il coraggio giusto di percorrere la strada che porta ai nostri sogni.. non sempre ci si riesce è questo è un limite imposto dalle nostre paure e dalla nostra poca voglia di ricominciare a mettersi in gioco.

 

Ma la vita è fatta anche di questo, di azzardo, imprevedibilità coraggio, spontaneità ecc. tutti requisiti che perdiamo per strada e che dovremmo riacquistare se vogliamo vivere con la consapevolezza  di aver vissuto in pienezza.

 

Che cos’è, in fondo, una scelta di vita? Si tratta semplicemente di una decisione che non riguarda un aspetto particolare e limitato di noi, ma la nostra intera esistenza. Quel che non comprendiamo è che spesso le scelte di vita sono piccole catene di decisioni, apparentemente di poco valore, che trasformano la nostra vita giorno dopo giorno.

 

Ogni scelta, per quanto piccola possa sembrare, indica la strada che abbiamo deciso di seguire, ciò che riteniamo giusto o sbagliato e rafforzano questa consapevolezza interiore ogni giorno. Magari consideriamo queste piccole scelte insignificanti, ma ogni giorno esse rafforzano le convinzioni che poi ci guidano anche in decisioni molto più rilevanti.

 

Una scelta di vita non passa solo nei grandi momenti, ma soprattutto in quelli piccoli, quelli in cui, cioè, si forma la nostra forza, la nostra sicurezza, ciò a cui attingeremo nei momenti in cui la decisioni da prendere saranno determinanti ai nostri occhi. In realtà, proprio quando crediamo di scegliere la direzione in cui andare, non faremo che confermare quella che, ogni giorno in modo quasi invisibile, abbiamo già scelto.

 

La miglior scelta di vita possibile è l’amore: amare come modo di vivere è la decisione che tutti dovremmo prendere, che tutti dobbiamo compiere se vogliamo una vita felice, ricca di senso e valore, degna di essere vissuta. Imparare ad amare è così una decisione che trasforma la nostra vita, e non è una di quelle che ci appaiono monumentali, anzi, essa è fatta quasi soltanto di piccole scelte, decisioni quotidiane che ci indirizzano verso l’amore.

 

Amare è una scelta di vita che passa dall’ascolto sincero ad un amico, dal complimento onesto ad un collega, dal perdonare una svista al mio compagno, al dare fiducia a chi abbiamo di fronte. Possiamo fare queste cose ogni giorno, spesso in modo decisamente silenzioso, senza squilli di tromba, ma queste decisioni sono le fondamenta di una scelta di vita che cambia il nostro mondo, pur senza troppo clamore.

 

Alla fine vivere significa scegliere di amare. Tutto qui, senza trofei da ritirare o premi da mettere nel curriculum. Forse non riempiremo pagine di giornale o non avremo un sedile d’onore al prossimo concerto di capodanno, ma fare dell’amore la nostra scelta di vita renderà la nostra vita ricca come nulla al mondo potrebbe fare.

 

 

Non lascio che neanche un singolo fantasma del ricordo

svanisca con le nuvole,

ed è la mia perenne consapevolezza del passato

che causa a volte il mio dolore.

Ma se dovessi scegliere tra gioia e dolore,

non scambierei i dolori del mio cuore

con le gioie del mondo intero.

 

Kahlil Gibran “Self-Portrait”

 

 

 

Edda CattaniCoraggio e fermezza
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