Edda Cattani

Riti del Giovedì Santo

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Ricordando… 

Giovedì santo: Lavanda dei piedi

Nel 2016 Papa Francesco per 12 profughi

Per la prima volta il rito si è svolto fuori Roma a Castelnuovo di Porto

“Tutti noi, insieme, musulmani, indi, cattolici, copti, evangelici, fratelli, figli dello stesso Dio, che vogliamo vivere in pace, integrati: un gesto. Tre giorni fa un gesto di guerra, di distruzione, in una città dell’Europa, da gente che non vuole vivere in pace, ma dietro quel gesto” “ci sono i fabbricatori, i trafficanti delle armi che vogliono il sangue non la pace, la guerra, non la fratellanza”. Il Papa ha spiegato così la lavanda dei piedi che stava per compiere nel CARA di Castelnuovo di Porto. “Due gesti, – ha riflettuto – Gesù lava i piedi e Giuda vende Gesù per denaro, noi tutti insieme diverse religioni, di diverse culture ma figli dello stesso padre, fratelli, e quelli che comprano le armi per distruggere”. Papa Francesco ha voluto imprimere il sigillo della unità dei credenti per la pace, e della fratellanza contro l’odio, le guerre e il traffico di armi, al rito della lavanda dei piedi che ha compiuto al CARA, acronimo per Centro di accoglienza per richiedenti asilo, cioè dove i profughi vengono ospitati in attesa che vengano espletate le procedure per accogliere o meno la loro domanda di protezione internazionale. Bergoglio ha lavato i piedi a 11 profughi e una operatrice del CARA, in tutto cinque cattolici, quattro musulmani, un indù e tre cristiani copti. 

I riti del Giovedì Santo 2015

 

Settimana Santa, Bergoglio celebra la messa del Crisma a San Pietro e parla ai sacerdoti: “Non chiudetevi in uffici o auto oscurate”. Poi sceglie di stare “dalla parte degli ultimi” e va nel carcere romano per la lavanda dei piedi. Ai baci e agli applausi dei reclusi risponde: “Grazie per la calorosa accoglienza”. E si china a baciare i piedi a dodici detenuti.

 

 

Prima il mònito ai sacerdoti. Poi i baci e gli abbracci ai detenuti del carcere di Rebibbia. Nel Giovedì Santo che precede la Pasqua,  Papa Francesco sceglie di stare, come lo scorso anno, “dalla parte degli ultimi”. E nell’omelia che accompagna la messa crismale a San Pietro – durante la quale i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della sacra ordinazione – il Pontefice ha detto: “La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo, alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io”.
Il messaggio ai sacerdoti. Per un prete, ma questo probabilmente vale per ogni persona umana, “la stanchezza di se stessi è forse la più pericolosa”, ha proseguito, elencando i diversi tipi di stanchezza che possono affliggere la vita pastorale, a partire “dalla stanchezza della gente, delle folle, spossante come dice il Vangelo, ma buona, piena di frutti e di gioia”. “Una stanchezza – dunque – buona e sana: la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore, ma con sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto”. “Siamo – ha osservato Francesco – gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia”.

Papa Francesco: “Penso alla stanchezza dei sacerdoti. E anche alla mia”

 

Il Pontefice si è poi soffermato su “quella che possiamo chiamare la stanchezza dei nemici”. “Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sè stessi dal male”.


 

“E per ultima, perché questa omelia non vi stanchi”, Papa Bergoglio ha affrontato la “stanchezza di se stessi, che forse è la più pericolosa perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare, siamo quelli che si prendono cura”. “Questa stanchezza invece – ha rilevato Bergoglio – è più auto referenziale: è la delusione di se stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il volere e non volere, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro”. “Questa stanchezza – ha concluso – mi piace chiamarla civettare con la mondanità spirituale: quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva”.

 

Con i detenuti a Rebibbia.

 

 

Nel pomeriggio, Papa Francesco raggiunge il carcere di Rebibbia per il rito della lavanda dei piedi: al suo arrivo, molti detenuti lo abbracciano e lo baciano. Bergoglio saluta e bacia uno ad uno i detenuti che lo attendono a centinaia per la messa del Giovedì Santo. Il Papa stringe le mani di 300 detenuti, li abbraccia, scambia con loro baci sulle guance e parole di conforto e di incoraggiamento. Ad accompagnarlo lungo la transenna è il cappellano di Rebibbia, don Pier Sandro Spriano, da cui è partito l’invito per la visita. Don Spriano gli parla delle situazioni e delle provenienze di alcuni dei reclusi. “Grazie per la calorosa accoglienza”, dirà loro il Papa prima di entrare nella chiesa del carcere. Poi nell’omelia: “L’amore di Gesù non delude mai perché lui non si stanca di amare come non si stanca di perdonare e di abbracciarci”. Poi si è chinato a lavare, asciugare e baciare i piedi a dodici detenuti, sei uomini e sei donne, per metà stranieri. Tra loro due nigeriane, una congolese, un’ecuadoregna, un brasiliano e un nigeriano. Gli altri sei, due donne e quattro uomini, sono italiani. A sorpresa, lavato i piedi anche del piccolo bambino, figlio di una delle sei detenute partecipanti al rito, che la mamma aveva in braccio. Diversi i volti rigati dalle lacrime tra i detenuti. E si congeda così: “Anche io ho bisogno di essere lavato. Il Signore lavi anche le mie sporcizie perchè io possa essere di più al servizio della gente, come lo è stato Gesù”.


 

 

 

 

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Gli animali hanno un’anima?

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Ricevo da comuni amici la partecipazione per la perdita dei loro amici animali… Ripropongo allora queste storie vere… e anche qualcosa di più

 

Gli animali hanno un’anima?

Era il 25 settembre 1989. Lo ricordo benissimo perché ero tornata a casa dal lavoro molto provata. Oltre alla stanchezza per i numerosi impegni, un mio collaboratore era stato ricoverato con una sindrome che lasciava poco ben sperare e la cosa mi aveva lasciato confusa ed addolorata.

Loro, Andrea e Vanessa, erano in camera con un batuffolo di pelo rosso in mano che, a stento, riuscivano a trattenere. Ridevano i miei ragazzi cercando di nasconderlo fra le coperte del letto. “Un gatto in casa? Non ne abbiamo avuto abbastanza dell’altro? Non se ne parla nemmeno. Portatelo via subito!”

Ricordavo di avere cambiato da poco tende e tappezzeria dopo che era scomparso e finito non so dove un altro esemplare della specie che, un mattino, dopo essere stato la notte in giardino, non aveva fatto ritorno.

Tutto sommato mi ero affezionata a quella presenza, come al cricetino Tino, agli uccellini, alle tartarughe, al pesce rosso e, poiché uno alla volta se ne erano andati tutti, lasciando in me, dal momento che ero costretta ad accudirli, una naturale amarezza,  avevo giurato a me stessa: “Mai più bestie in casa mia!”

Invece non c’era stato nulla da fare. Andrea diceva che “quel pallottolino” gli si era attaccato ai calzoni mentre passava da una strada dove era abbandonato e che era stato proprio lui a sceglierlo.

Così dovetti abituarmi al nuovo giro: tende da rifare, poltrone sdrucite, tappeti e moquette da ripiegare. A dire il vero ci provai a trovargli un padrone, ma Andrea, appena lo seppe, se l’andò a riprendere trattando anche male la persona che si era offerta di tenerlo.

Lo chiamavano Pub Music, i miei ragazzi, o meglio Pelo Rosso, Mix e tante altre cose, giocando con lui che sembrava veramente aver trovato il suo ambiente ideale. A dire il vero sapeva comportarsi bene: non sporcava in casa, era regale e rispettoso ad un tempo, ma quando vedeva Andrea impazziva. Facevano corse, si arrotolavano sul pavimento, saltavano di qua e di là.

La sera Mix scendeva in giardino e risaliva il mattino. Quando mi affacciavo alla finestra e tiravo su la tapparella lo vedevo sotto, con gli occhioni verdi spalancati: “meo, meo, meo…”, scendevo le scale e lo portavo su. Ormai mi ero rassegnata a quell’intruso, come avevo fatto le altre volte. Era un compito mio. In questo mi aiutava anche Elena che faceva colazione con lui sulle ginocchia, dandogli qualche pezzetto di plumcake; così Mix divenne il gioco di tutti.

Ogni sera, al cancello aspettava i suoi padroni: prima arrivava Elena dal lavoro e saliva le scale con lei, poi tornava sotto con Andrea e con lui andava in fondo al viottolo, dove c’erano i ragazzi della “compagnia” e si strusciava sulle gambe di tutti. Era divenuto il boss dei paraggi, ormai: un bel gattone rosso “da pubblicità”. Tutti conoscevano il gatto di Andrea e lui sapeva farsi rispettare ed accarezzare da coloro di cui si fidava.

Poi Elena andò via di casa e Mix l’aspettò invano. Una sera, dopo diverso tempo, la vide arrivare e le corse incontro con tanta gioia che si incespicava dappertutto e addirittura, mentre la seguiva, per l’emozione, se la fece addosso. Lei rideva e anch’io a dire il vero, ero commossa nel vedere la capacità di ricordare e di sentire di una bestiola che, in fondo, era pur sempre un animale “senz’anima”…

Andrea però era ancora in famiglia ed ogni sera, verso le undici, come un orologio, il gatto rosso si appostava sul cancello di casa e lo aspettava. Freddo, pioggia o neve non lo smuovevano; al suo arrivo, veniva di sopra con lui e andavano a letto insieme. Dormiva ai suoi piedi o intorno al suo collo.

Era commovente vederli abbracciati. Non posso dimenticare quei quadretti “da poster”: un ragazzone bruno con un peluche rosso fiamma intorno al viso, attorcigliato come una ciambella.

Poi Andrea partì per il servizio militare e furono lunghi mesi di attesa: ogni sera ad aspettarlo al cancello, finché un pomeriggio, mentre faceva la siesta sull’erba del prato, lo vide sopraggiungere dal viottolo, in fondo. Arrivava dalla stazione il mio Andrea, in congedo per la sua prima licenza. Chi si accorse del suo arrivo fu proprio lui, il gatto Mix o Pelo Rosso che, in quattro balzi, gli fu accanto e gli saltò addosso. Andrea rideva e lo accarezzava, così pure erano commossi gli altri ragazzi della compagnia, accorsi dal circondario, per aver saputo della sua venuta.

Andrea era partito con le scarpe da tennis, la maglietta e i calzoni di jeans ed era tornato in divisa, ma Mix lo sentiva ugualmente come il suo, solo padrone ed amico e, in quel rapporto univoco, c’erano tutti i loro giochi, le loro intese, i loro complotti, il loro scambiarsi affettuosità esclusive.

Così continuò la storia finché Andrea fu assegnato al corpo della scuola Trasporti e Materiali di Padova ed essendo stato nominato ufficiale capo della Regione Nord Est, poteva tornare a casa a dormire tutte le sere.

Dalle undici a mezzanotte, una palla di pelo rosso stanziava vicino al cancello di casa, ogni sera, attendendo l’arrivo dell’amico; con lui saliva e con lui scendeva il mattino alle cinque quando Andrea si recava in caserma per l’alzabandiera.

Ma una sera, era il 5 dicembre 1991, Andrea non tornò a casa e Mix lo attese invano. Lo attese a non finire, incurante del tempo e dell’avanzare degli anni, ogni sera, alla stessa ora.

I primi tempi, io, sempre di corsa e affannata per il mio dolore, non avevo altro luogo dove dare sfogo al mio pianto irrefrenabile che recarmi giù in garage e chiudermi dentro la macchina di Andrea, rimasta parcheggiata, per piangere liberamente, accarezzando le sue cose.

Una sera a cui seguirono tante altre sere, mi accorsi che fuori dal garage venivano tre, quattro, cinque gattini al seguito di Mix e mi guardavano silenziosi.

Così presi ad andare di sotto portando loro qualcosa da mangiare; ogni giorno, per tutti questi anni, la stessa cerimonia. Quelli del condominio cominciarono a vedermi un po’ come “la mamma dei gatti”, o meglio, a compatirmi per non avere più nessuno da accudire, se non quattro gatti randagi.

Mix sapeva bene quale fosse la sua casa, ma difficilmente saliva le scale. Viveva di sotto ormai, nel suo regno di gatti senza padrone e primeggiava su tutti. A volte lo sentivo giù, nell’ingresso lamentarsi: “ meo, meo, meo…” tre volte, mentre saliva e allora gli aprivo la porta e lui si accomodava sulla sedia della cucina dove rimaneva fino al mattino.

Non andò più in camera, non salì più su in mansarda, luogo dei giochi e delle  capriole. Elena ci regalò un persiano bianco e quindi Pelo Rosso e Pelo bianco non amarono frequentarsi: uno stava sotto, in giardino, ed uno sopra.

Sono passati otto anni quasi, da quella notte del ‘91 e mai Mix ha cessato di attendere. Poi, per lui ci sono stati un rincrudirsi di episodi che, data la condizione in cui ha vissuto, sempre di sotto in giardino, l’hanno fatto ammalare e così si è sfinito un po’ alla volta.

Ha subito tre interventi e l’ho curato con ogni tipo di medicinali, cambiando anche medico, ma un giorno dello scorso settembre, prima di partire per il 13° Convegno del Movimento della Speranza, ho capito che non c’era più nulla da fare.

L’ho messo nella gabbia, mentre lui mi guardava con i suoi occhioni verdi e tristi, povera palla spelacchiata, ormai tutto ossa, senza un lamento e l’ho lasciato dal veterinario: “Faccia lei dottore, quello che crede, ma non mi chieda cosa deve fare. Mi telefoni fra qualche giorno se riuscirà a guarirlo, altrimenti non dica nulla. Mi farò viva io.”

Passarono i giorni, ritornai da Cattolica e non ebbi il coraggio di telefonare. Capivo quel silenzio, ma speravo. Poi, sabato, 25 settembre, mentre eravamo alla Messa, alla riunione mensile della nostra ACSSS, durante la comunione, alle cinque e mezza, sentii distintamente quell’inconfondibile “meo, meo, meo..” nell’ingresso dell’istituto… Gatti non ce n’erano in quel luogo e capii che qualcosa doveva essere avvenuto.

Tornammo nel salone e mentre facevamo una registrazione, distintamente, si ripeté il miagolio… Non c’erano dubbi: un gatto, il mio Pelo Rosso, il gatto Mix di Andrea mi era accanto e non potendo esserci da vivo, voleva pur dire che in qualche modo mi aveva raggiunto.

L’avevo chiesto ad Andrea: “Aiutalo, prendilo con te… sono otto anni che ti aspetta ogni sera… E’ l’ultima cosa vivente che mi resta di te, figlio mio, ma non posso vederlo soffrire così!”

Il lunedì successivo ho telefonato al medico: “Signora, sabato scorso mi sono deciso. Non c’era più niente da fare ormai. Soffriva e null’altro. Ho fatto in modo che si addormentasse per sempre, senza soffrire”.

“L’ho saputo dottore, l’ho saputo. Alle cinque e mezza, vero?”

Ho sognato il gatto Mix che faceva salti da un divano all’altro con il suo padrone ed una grande pace è subentrata allo sconforto. Mi è caro pensare ad una palla di pelo rosso che si rotola fra le nuvole, in braccio al mio Andrea, finalmente uniti, lassù, in Paradiso.

                                                               Edda Cattani

 

Ed ora vi aggiorno su “Martino” l’ultimo arrivato in casa mia proprio il giorno di San Martino … un po’ di allegria… tante capriole, fusa, rincorse che mi facevano sorridere… Piccolo Martino, gatto rosso come un suo precedente inquilino di cui trovate la storia più sotto… ha fatto un volo troppo alto… ed ha battuto il nasino … anche lui … piccolo birichino farà le fusa con Mix, Max in braccio ad Andrea…

Ed ora la storia di “Un cavallo da corsa in un mondo senza piste”

A tutti capita di essere per lo meno una volta nella vita, cavalli da corsa in un mondo senza piste. Che vuol dire che ci sentiamo dei puro sangue in un luogo che non ci contempla. Cerchiamo le piste, vorremmo le piste, ma non ci sono, per lo meno per noi. E allora non ci resta che adattarsi al pascolo. 

I più fortunati trovano la prateria, un’unica immensa distesa dove dispiegare la propria corsa e dunque la propria libertà. Infinito e cielo. 

Ho pensato a questo sentendo di Vale, il cavallo di HELGA che se n’è andata dopo aver donato l’ultima passeggata alla sua grande amica:

 

Questa è una leggenda indiana…
THE RAINBOW BRIDGE
(il ponte dell’arcobaleno)



Questa del ponte dell’arcobaleno è un antica leggenda che si tramanda dalle tribù degli indiani d’america ed è dedicata a tutte quelle persone che soffrono per la morte di un loro caro amico e tutti gli animali che sulla terra hanno amato gli uomini. Davanti all’entrata del Paradiso c’è un luogo chiamato Ponte dell’arcobaleno per i bellissimi colori da cui è formato. Quando muore una bestiola che è stata particolarmente cara e speciale a qualcuno, questa bestiola va sul ponte dell’arcobaleno. Questo è un posto meraviglioso ci sono prati, grandi alberi, e colline verdi dove l’erba è sempre fresca e profumata per tutti i nostri amici tanto speciali e là corrono e giocano tutti insieme. C’è tanto cibo (il loro preferito) ruscelli con acqua fresca con la quale dissetarsi e il sole che splende, tutto a volontà e i nostri amici sono al caldo e stanno bene. Tutti i piccoli che erano ammalati e vecchi sono tornati ad essere in salute, giovani e pieni delle loro forze. Quelli che erano feriti e mutilati sono tornati ad essere nuovamente integri e forti, così come li ricordiamo nei nostri sogni di giorni e tempi passati. Gli animali sono felici e contenti, tranne che per una piccola cosa: ad ognuno di loro manca qualcuno di speciale, molto amato, che si sono lasciati alle spalle, indietro, lontano verso l’orizzonte. Corrono e giocano insieme, ma verrà il giorno in cui uno di loro si fermerà improvvisamente e guarderà lontano. Tutti i suoi sensi saranno all’erta, i suoi occhi splendenti, luminosi e lucidi saranno attenti, il suo corpo palpiterà e tremerà dall’emozione, per l’eccitazione e impazienza. Improvvisamente si staccherà dal gruppo, inizierà a correre sull’erba verde, le sue zampe sembreranno volare sempre più veloci sul prato. Ti ha visto e ti riconosciuto. E quando finalmente vi raggiungete, incontrerete e sarete insieme vi stringerete in un abbraccio gioioso, unico, per non separarvi mai più. Baci felici pioveranno dal tuo viso, le tue mani accarezzeranno nuovamente la testina tanto amata e potrai finalmente fissare ancora i suoi fiduciosi occhietti, stati lontani tanto tempo dalla tua vita ma mai lontani ed assenti dal tuo cuore. Allora insieme attraverserete il ponte dell’arcobaleno…

Gli animali hanno un’anima?

Dopo l’uscita dell’articolo sul libro che sottopongo alla vostra attenzione, in cui il giornalista pubblicò la storia del mio gattino Mix, ho visto soprattutto da parte dei giovani un grande interesse per questo argomento. Ho pensato perciò di pubblicare gli articoli con le mie storie personali ed altri che mi sono giunte. Ringrazio i coordinatori di:

http://it.unitedcats.com/forum/312/fl/2051/t/45008  che si sono premurati di pubblicare il mio articolo facendone gradevoli commenti. Propongo quindi, oltre alle mie,  nuove storie appena giunte ed invito, chi voglia, di inviarne altre a  edda.cattani@alice.it

 

 

Anche gli Animali Vanno in Paradiso

Storie di cani e di gatti oltre la vita

Questo libro aiuterà ad amare gli animali di più e con maggiore generosità, proprio come loro amano noi. Le testimonianze e le storie che raccoglie, scritte da famosi medium, da mistici e teologi ma anche da persone comuni, saranno di sicuro conforto per chi ha perso il proprio fedele compagno a quattro zampe. Questo libro aiuterà a ritrovare l’amico cane o gatto, a continuare ad amarlo, a parlargli, perché la vita sulla Terra non è che un passaggio che ci prepara alla vera vita.

 ANCHE GLI ANIMALI HANNO UN’ANIMA 

(espressioni di esponenti della Chiesa)

 

Padre Luigi Lorenzetti, teologo ,di Famiglia cristiana, spalanca le porte del Paradiso agli animali : “Hanno ricevuto un soffio vitale da Dio , scrive e sono attesi anch’essi dalla vita eterna”.

Paolo VI disse : “Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo”, e rivolto ai Medici Veterinari: “Vi esprimiamo il nostro compiacimento per la cura che prestate agli animali, anch’essi creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’universale stigma del peccato e dell’universale attesa della redenzione finale, secondo le misteriose parole dell’apostolo Paolo.”

Gaspare Gherardini , canonico di Santo Spirito di Roma , nella metà del Settecento affermò:
“Scopersi nella macchina degli animali un fine savissimo, un fine degnissimo della Divinità”

Papa Giovanni Paolo II nel 1990 si espresse in tali termini: “La Genesi ci mostra Dio che soffia sull’uomo il suo alito di vita. C’è dunque un soffio, uno spirito che assomiglia al soffio e allo spirito di Dio.   Gli animali non ne sono privi.”
Non sono solo animali , cioè non è solo un cane, un gatto, una tartaruga o un criceto etc.: Fanno parte del valore affettivo dell’uomo, a sua volta questo strano animale che non si arrende all’idea che tutto finisca, e che aspira all’immortalità per sé e per tutti i suoi cari.

 

Da http://www.amicianimali.it/paradiso/index.html

 Gli animali hanno un’anima? La storia del gatto Mix

Anche le piccole cose non andranno perdute. La storia di Max 

 

 

Anche le piccole cose non andranno perdute!

 

 

In questi mesi di grande calura estiva può far piacere occuparci di piccole cose che pur circondano la nostra vita e diventano importanti nei nostri affetti. Vorrei parlare dei piccoli animali, dei quali ebbi già modo di scrivere tempo fa in occasione della pubblicazione del testo “Gli animali hanno un’anima” ediz. Mediterranee.

Ebbene, in questo ultimo periodo segnato dalla sofferenza e da grandi prove che hanno mutato il volto della mia famiglia, mi sono trovata anche ad affrontare la scomparsa di Max, fedele amico della mia esistenza da oltre quindici anni.

Era un gatto bianco dal lungo pelo folto, un siamese simile a quello reclamizzato dalla Gourmet, che faceva parte del nostro contesto da quando Andrea se n’era andato. Era entrato come un dono all’interno della casa,acquistato a Milano da Elena che l’aveva notato in un cestino dentro una vetrina. Ogni sabato, venendo a casa nostra, lo portava con sé; Mentore lo prendeva con delicatezza in braccio e lo cullava come un bambino, chiamandolo: “…piccino, piccino…”.

Elena aveva capito che nella nostra solitudine quel piccolo animale avrebbe portato un po’ di calore ed un sabato finse di dimenticarlo; così Max rimase da noi. Abitavamo allora in un appartamento con mansarda e lui si divertiva a saltare dal terrazzino sul tetto per rincorrere gli uccellini. Una sera addentò un pipistrello e lo depose in camera, fra le urla di Alessandra e la meraviglia di quel piccolo essere che pensava di dimostrarle il suo affetto con quel dono prezioso.

Così Max visse i suoi anni migliori, guardando il mondo dall’alto e tentando qualche volo spericolato: una volta dal terzo piano si buttò sull’albero sottostante e non pago dell’esperienza, continuò a camminare sul davanzale guardando il giardino. Poi cambiammo casa e venimmo in questa villetta dove Max conobbe la vita vista da sotto. Potè correre nel prato, arrampicarsi sugli alberi, ma soprattutto rincorrere i gatti del vicinato che si permettevano di affacciarsi al nostro cancello. Dispotico ed esclusivista di temperamento, non tollerava nessuna intromissione nella sua proprietà, ma con noi, soprattutto con Mentore, era di una dolcezza infinita. Quando si guardavano sembravano dipendenti l’uno dall’altro e vivevano in una sorta di simbiosi che commuoveva. Era Max che aveva colmato i silenzi delle lunghe mie assenze dovute al lavoro ed era Max che accorreva sentendo il motore della macchina, al mio ritorno. Si mostrò incuriosito quando a casa nostra cominciarono a venire i piccoli Simone, Tommaso e Giulio i quali lo guardavano con altrettanto stupore e lo rincorrevano cercando di afferrarlo per la coda. Quante gare di velocità… e infine un nascondiglio sicuro, al riparo dai monelli!

E venne il tempo in cui Simone si ammalò mentre io correvo impegnata con Tommaso ormai ospite fisso a casa nostra, dove tutti cambiammo umore ed abitudini. Mentore proseguiva nel suo silenzio e nella sua amnesia, ma all’ora stabilita, non mancava di preparargli la ciotola. Io non mi accorsi che entrambi erano molto ammalati, che Max ormai beveva solo acqua e rimaneva a dormire troppo a lungo.

Quando Simone tornò dall’ospedale e anche Tommaso raggiunse la famiglia, capii che Max non era più lo stesso e decisi di portarlo in clinica. Mi dissero di lasciarlo lì perché c’erano vari esami da fare e dopo qualche giorno la diagnosi fu drastica: non vi era più funzionalità renale e poco ci sarebbe stato per farlo sopravvivere. Feci di tutto per salvarlo: lo portai a casa con iniezioni, pappe di ogni genere, cure omeopatiche… Max ormai era a pezzi, senza forze, né equilibrio. Mentore lo guardava silenzioso senza nulla chiedere. Una sera mi appoggiò la testina su una spalla e fece un lungo lamento quasi a chiedermi di lasciarlo andare. Scesi a pian terreno e gli feci una lunga toeletta: doveva essere bello per il grande salto! Poi lo fotografai con il cellulare, più e più volte; guardando le foto notai subito che intorno a lui si era formata un’aura prima verde, poi rosa, poi luminosissima. Tutto era compiuto e Max era atteso, piccola creatura, dolce ricordo della mia famiglia al completo, del mio tempo migliore. Il mattino successivo lo portai dal veterinario: “Le lascio un pezzo del mio cuore, tenga pure la cassetta, non mi serve più… “ e Max mi guardò a lungo, riconoscente per aver compreso la sua sofferenza… ma quanto strazio. Mi vergogno a dire che piansi lasciando quel piccolo battutolo peloso, ormai tutto pelo e ossa che mi guardava con i suoi incantevoli occhi tristi. Il pomeriggio pensavo: ”Dove sei piccolo Max? Forse mi starai guardando da una nuvoletta!”. In quel momento giunse un MMS da una mia amica sul cellulare: senza nulla sapere aveva scattato una immagine del cielo; era una nuvola soffice e in alto c’era la testina di Max.

Non bastò questo segno… il giorno successivo scattai una foto in giardino e sull’albero di susine, di fianco, dove si metteva Max c’era lui accovacciato.

Il mio piccolo Max, fedele amico delle pareti domestiche che hanno visto tanti mutamenti e trasformazioni, a volte gioiose, a volte dirompenti mi raggiunge ogni sera e, all’ora della pappa sento spostare la ciotola o fregare la zampina sulla poltrona e sulla mia testa. Ci sono momenti in cui mi giro sicura di vederlo perché lo sento correre, fermarsi, saltare sui mobili;  sento il suo tenue, delicato miagolio, il suo richiamo. Mentore non mi ha detto, né chiesto nulla; ora che il suo caro amico non c’è più ha rari motivi di interesse e di compagnia… solo una sera l’ho sentito mormorare: “Andrea sta bene, è in cielo che gioca con i suoi gattini”.

la testina di Max

sulla nuvoletta

ecco Max a destra

come ogni giorno

seduto sul ramo

dell’albero

il mio caro Max con me l’ultima sera insieme

      Jazz e la sua famiglia. La storia del cane Jazz

 

Jazz e la sua famiglia

 

 Vi presento jazz ,un bracco ungherese che per 11 anni ha rallegrato la nostra vita con sguardi dolci con cui ci comunicava il suo star bene insieme a noi. Anche i nostri tre gatti erano suoi amici ed era felicissimo di poter giocare con loro. Seguiva attentamente i nostri discorsi e i nostri atteggiamenti e ci faceva capire se li condivideva oppure no. Il 18 novembre scorso cominciò a manifestare inappetenza e portato dal veterinario, gli venne diagnosticato un linfoma maligno dei più devastanti, pochi mesi di sopravvivenza…. Ma il giorno 11 dicembre le sue condizioni precipitarono senza scampo e con il cuore a pezzi dovemmo percorrere quella strada che si chiama “eutanasia” (terribile esperienza). Poco tempo per renderci conto che tutto era finito, il sollievo di non vederlo più soffrire ma un immenso vuoto dentro di noi. Anche gli animali hanno un’anima e saperlo vivo in una dimensione parallela alla nostra anche se invisibile, ci dà un po’ di sollievo. Sappiamo che ogni volta che penseremo a lui c’è…… senza più sofferenze ma con grande amore; siamo stretti per sempre in un legame energetico, un filo che non viene tagliato neppure dalla morte. Ci rende sereni immaginarlo  correre e saltare nel nostro giardino che tanto amava e sicuramente continuerà a farlo insieme a noi…

                                                                               la famiglia di jazz     aldo enza helga

Gentilissima sig. Edda, ho trascritto questo breve sunto della vita di jazz, se le fa piacere farlo conoscere. La ringrazio molto della sua dolcezza e gentilezza, se per caso ha 10 min di tempo provi con il registratore e se dovesse manifestarsi e comunicarle qualcosa ci piacerebbe avere questa meravigliosa testimonianza. Ho letto il libro di Kate Solisti “Parola di cane” che con telepatia parla con loro e ne riceve le risposte perché tutti gli esseri sono partecipi della coscienza divina.

un abbraccio Enza

 

… e ci puoi credere…

“   Bu…bau…si spezza il filo per strada, ma non moriamo…. “

 

                                                                                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

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La dimensione del cielo

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Una possibilità umana


LA DIMENSIONE DEL CIELO

aspettare

«Colui che va in fondo al proprio cuore conosce la sua natura. Conoscendo la sua natura, conosce il Cielo»

(Meng-tzu, pensatore confuciano del IV secolo a.C.).

Nella frase di Meng-tzu c’è la particolare dimensione che l’uomo riesce ad attingere al di là di sè e insieme al dentro di sè. Lo spirito unisce l’io al Tu, l’io con l’Altro, questo è accedere al divino. Una immanenza che diventa trascendenza.

Dice Vito Mancuso: “Quando l’uomo opera il superamento della logica ordinaria che lo lega alla struttura nella direzione di un incremento di ordine e di armonia (fenomeni di cui il linguaggio parla in termini di gratuità, disinteresse personale, solidarietà, carità) ci si trova in presenza di un fenomeno sovra-naturale, la cui logica, non contenuta in quanto tale nella struttura naturale, segnala un diverso livello dell’essere. E l’uomo, che si sa figlio della terra (la struttura), si scopre anche figlio di un’altra dimensione, per designare la quale non ha saputo fare di meglio che rimandare al ‘cielo’, come fanno le grandi tradizioni spirituali”.

Cielo, dimensione alta a cui noi ci riferiamo per indicare qualcosa di grande, l’infinito, il di più che ci abita e verso cui aneliamo. Ecco perché il divino è stato posto in cielo, luogo dell’incommensurabile ed eccelso. E noi nella tensione “verso”, usciamo fuori ed andiamo dove non c’è contaminazione del mondo che non ci soddisfa, dove c’è armonia e ordine, livello superiore che soddisfa e prende, dimensione dello spirito, l’unica umana che riesce a sollevarsi pur anco di poco.

(dal web)

 

 

Edda CattaniLa dimensione del cielo
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Domenica delle Palme

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Una riflessione d’autore per la Domenica delle Palme

“Entrato a Gerusalemme, Gesù fa quel che non avrebbe dovuto fare e che gli costerà la vita: va a toccare gli interessi della casta sacerdotale al potere…”. Su ilLibraio.it, in vista della Domenica della Palme, l’intervento di frate Alberto Maggi, biblista controcorrente


TERREMOTO A GERUSALEMME

“Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu scossa” (Mt 21,10). Per indicare l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, l’evangelista adopera un verbo greco (seiô) che si usava per i movimenti tellurici: la venuta del Cristo provoca un vero terremoto in tutta la città, non solo nelle istituzioni ma anche tra gli abitanti. Per i capi religiosi la divinità è da adorare, venerare, servire, nella dorata prigionia di un tempio, ben rinchiuso nel sarcofago di un sistema dottrinale perfetto. Ma quando questo Dio prova a manifestarsi, a rendersi visibile, le autorità vengono prese dal panico e unanimemente concordano sull’unica cosa da fare: eliminarlo. È in gioco la sopravvivenza della stessa istituzione religiosa. Eppure Gesù fu accolto da entusiastiche grida di giubilo al suo ingresso a Gerusalemme. È vero, ma solo perché la folla aveva sbagliato persona. Per il suo trionfale ingresso nella Città Santa, Gesù non ha scelto una cavalcatura regale come era la mula, adoperata dai re, o un destriero, ma un asinello, il normale mezzo di locomozione della gente comune. Ma agli occhi attenti delle autorità religiose non è sfuggita la portata profetica del gesto di Gesù, che con la sua scelta attualizzava la profezia di Zaccaria secondo la quale l’atteso Messia sarebbe giunto a Gerusalemme cavalcando un asinello, in segno di non bellicosità (“L’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti”, Zc 9,10). Ma la folla non capisce, attende un Messia potente, per questo stende i propri mantelli sulla strada, come segno di sottomissione al re, e grida “Osanna al figlio di Davide!” (Mt 21,9). Ecco chi attendono: il figlio di Davide, ovvero un Messia che assomigli al re che con la violenza riuscì a riunire le tribù d’Israele e inaugurare il suo grande e potente regno. Questo regno era costato un bagno di sangue, al punto che quando Davide volle costruire un Tempio al suo Signore, questi lo rifiutò con le parole: “Non costruirai il Tempio al mio nome, perché hai versato troppo sangue sulla terra davanti a me”, 1 Cr 22,8).

Gesù non è il figlio di Davide, non ha nulla in comune con lo spietato bandito del deserto che giunse al potere con una serie incredibile di omicidi, e che era sinistramente conosciuto come colui che “non lasciava in vita né uomo né donna” (1 Sam 27,9.11). Gesù è il figlio di Dio, la cui missione è salvare e non distruggere. Il Cristo non viene con la violenza, ma con l’amore, non sottomette, ma serve, non impone, ma offre, non uccide, ma dona la sua vita, non risuscita l’ormai defunto regno di Davide ma inaugura il regno di Dio.Entrato a Gerusalemme, Gesù fa quel che non avrebbe dovuto fare e che gli costerà la vita: va a toccare gli interessi della casta sacerdotale al potere, detronizza l’unica vera divinità adorata dai capi religiosi: il denaro. Infatti entrato nel Tempio, Gesù non si limita a cacciare i mercanti, purificando il luogo santo, ma scaccia via anche i compratori, impedendo di fatto il culto. Con il suo gesto Gesù colpisce al cuore il sistema economico del santuario, quello sul quale si poggiava il potere della casta sacerdotale. L’azione di Gesù gli sarà fatale. Toccando l’economia del Tempio non colpisce solo le tasche dei sacerdoti, ma anche quella degli abitanti di Gerusalemme che vivevano dei traffici religiosi, dei pellegrinaggi, del commercio tanto sacro quanto lucroso. E così, nell’arco di poche ore, quegli stessi che avevano accolto Gesù al grido di “Osanna”, grideranno tutto il loro furore: “Crocifiggilo!” (Mc 15,13). Attendevano il Messia figlio di Davide, non sanno che farsene di un Messia Figlio di Dio, a Dio preferiscono Mammona (Mt 6,24), e ancora una volta l’interesse si conferma come il vero dio di questo mondo, e la convenienza il movente di tutte le scelte, come Gesù aveva drammaticamente previsto: “Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” (Mt 21,38).


L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da pretiNostra Signora degli ereticiCome leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi. È in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

 



Edda CattaniDomenica delle Palme
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L’ulivo, simbolo di pace

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La domenica delle Palme

(dai ricordi)

Di ritorno dalla Santa Messa, con la palma in mano dono e simbolo di questa domenica, vi porgo i miei auguri con le parole di Papa Francesco. Sia pure con brandelli di pelle e a volte gocce di sangue, lasciate sul mio cammino, continuo a porgermi come testimone della salvezza. Dal messaggio del Santo Padre, vero grande dono dato a questi tempi di “crisi” d’identità possiamo recepire che tutto quanto facciamo è sempre e solo “servizio” dato ai fratelli e noi non siamo che uno strumento, con tutta la nostra precarietà e la nostra provvisorietà. Non contano le parole, la quantità delle preghiere, le lodi e gli inni recitati… Di tutto questo rimarrà solo l’amore che avremo donato.

Ed ora dalla bacheca di Fra Benito nella odierna ricorrenza: 

“.. Padre perdonali, perché io desidero che loro vivano ..” .. L’uomo ha vinto, lo dice la morte che ha ridotto il suo Dio nella vergogna e nell’infamia .. da ora Dio sarà solo un concetto o un dogma dispotico, comunque un’invenzione del potere, un inganno da somministrare agli umili, ai disperati, ai diversi, a tutti gli uomini … per chiamare poi ‘Dio’ quell’Uomo e continuare a uccidere in suo nome, e crederlo come un Dio che fa paura, staccato dall’uomo, che ascolta solo lodi e vespri … Il Dio degli sconfitti, degli incompresi, degli offesi è morto .. è stato ucciso in nome degli uomini pavidi e d ei comandamenti del potere .. rinasce così il Dio vendicativo e solenne che giustifica la liturgia umana di ogni potere e di ogni ipocrisia … Ma l’uomo del potere si illude: dove inizia la sua vittoria incomincia sempre il suo fallimento … perché quell’Uomo che muore e che sanguina in croce ha ancora una parola di suprema sfida: ‘Padre, perdonali perché io desidero che loro vivano, desidero la loro vita anche se io sto per perderla’ … Nessuno ferma l’Amore, niente ferma la giustizia amante, e niente ferma chi sa morire perdonando .. nessuno ferma chi perdona una croce fatta di peccati .. anche se fabbricata da poteri iniqui che crocifiggono innocenti … nessuno ferma l’Amore .. nessuno .. se stiamo vicini a Dio nella sua sofferenza .. Dio si ricorderà .. la Croce non ci è stata data per capirla, ma per abbracciarla .. e Dio ricorda ogni abbraccio ..”

Oggi è la domenica delle Palme… OSANNA AL FIGLIO DI DAVIDE! … ma non vedremo la Resurrezione se non saremo passati attraverso il crogiuolo della sofferenza… e noi ci siamo dentro… Tutto è compiuto…

Rendiamo omaggio ad Alda Merini con questa lirica

La pace

La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.
Ma tu maestro che ascolti
i palpiti di tanti soldati,
sai che le bocche della morte
sono di cartapesta,
più sinuosi dei dolci
le labbra intoccabili
della donna che t’ama.

(a Enrico Baj)

 

Ecco io mando un angelo avanti a te,

perchè ti guidi durante il cammino

e ti conduca al luogo che ti ho preparato.

Rispetta la sua presenza e ascolta la sua voce

 

Il bambino e l’ulivo

 C’era una volta un bambino abbandonato dal mondo.

Il bambino abbandonato dal mondo si sentiva molto solo e infelice.

” Il mondo non mi vuole. Il mondo non mi vuole”

Ripeteva.

” Chi portà mai volermi?”

Il piccolo bambino passava le giornate sotto un grande ulivo a ripetersi:

“Nessuno mi vuole… Nessuno”.

Un giorno passò davanti all’ulivo un vecchio gnomo

che trascinava un grosso sacco.

” Vuoi aiuto?”

Chiese il bambino.

“Oh, te ne sarei molto grato”

rispose lo gnomo.

Così il bambino aiutò lo gnomo a trascinare il sacco.

Arrivarono a una cascata grandissima, dove sotto si vedeva la Terra.

Lo gnomo allora slacciò il sacco, e lo svuotò sulla cascata.

Dal sacco uscirono tantissime pietro grosse,

che dalla cascata finirono sulla terra.

“Perchè butti le pietre sul mondo?”

Ma lo gnomo non rispose.

Il secondo giorno passò davanti all’ulivo una graziosa fanciulla,

alta non più di un metro, con un vestito rosa pallido ,

un mantello lunghissimo e due piccole ali rosa-gialle.

“Mi aiuti a portare il mantello?”

disse l’allegra fanciulla

“Certo fatina”

Il bambino sollevò il mantello che le strisciava per terra

e proseguì dietro di lei.

Arrivarono sulle fronde dell’albero più alto che avesse mai visto.

Un albero che alle proprie radici stringeva la Terra.

La fanciulla allora si tolse il mantello

e ne fece scivolare il contenuto sul tronco dell’albero.

Dal mantello uscirono tantissimi fiori uno più bello dell’altro,

profumatissimi e coloratissimi.

ma intorno ai petali si ergevano delle spine orribili ed affilate.

Scivolando dal tronco finirono sulla radici e poi sulla Terra.

“Perchè fai cadere sul mondo quei fiori con quelle spine orribili?”

Disse il bambino.

Ma non ottenne risposta.

Il terzo giorno passò davanti all’ulivo un mendicante.

Era lacero, pieno di stracci.

” Bambino, vuoi aiutarmi?”

Il piccolo annuì.

“Porta una mano sul tuo cuore, stringila a pugno e seguimi senza aprirla”

Il bambino fece come da lui richiesto.

Cammina cammina, arrivarono sulla cima di una stella.

Sotto di loro vi era tutto l’universo, con i suoi pianeti, le sue stelle,

e la Terra.

Quando furono arrivati,

il mendicante si tolse gli stracci che aveva addosso,

rivelandosi in realtà un meraviglioso Angelo.

Sorridendo disse al bambino:

“Apri la tua mano piccolo”

Il bambino l’aprì, e da essa comparve una luce leggera.

L’Angelo aprì a sua volta la sua mano,

dalla quale uscì una luce immensa;

prese con se anche la luce del piccolo,

e la unì alla sua.

Quella luce si divise in tanti raggi,

tanti quante erano le stelle

e da esse si dipartirono altri raggi che andarono sulla Terra.

L’angelo disse:

“Lo gnomo ha buttato le pietre sulla Terra,

per ricordare agli uomini le Difficoltà che devono affrontare,

per liberarsi dalle loro catene”

“La fata vi ha fatto cadere i fiori con le spine,

per ricordare agli uomini quanto bella e temibile sia la Natura,

con chi non la rispetta”

“E io dono Luce a tutti quegli uomini che hanno ancora tempo per vedere le Stelle.

Dono loro Luce per far loro ricordare che con Essa niente è impossibile,

che anche la notte più buia,

ha la sua stella per quanto minuscola essa sia.”

Poi volgendosi al bambino con un sorriso disse:

“Che t’importa se il mondo non ti vuole?

Non vedi quanto bella è meravigliosa sia la Terra?

Le opinioni del mondo non sono importanti.

La Terra ti ha accolto dal momento stesso in cui vi sei nato.”

Da quel giorno in avanti,

il bambino non ripetè più che il mondo non lo voleva,

ma trovò finalmente il coraggio di staccarsi dall’ulivo,

e abbandonarsi all’abbraccio della Terra.

 

 

Edda CattaniL’ulivo, simbolo di pace
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Così parlano le mamme su FB

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Vale la pena di riproporle…

Le Mamme della Speranza…

Madre della panca

 

Madre della panca
sostieni il nostro peso
ora che si abbandona…

Intreccia le dita

a difesa di questo corpicino,

già reclina il nostro capo

nell’insenatura del tuo braccio…

Per Francesca

La Mamma: Io non ho paura

Con la morte di Francesca, tanto inattesa quanto imprevista (una ragazza che scoppiava di salute) chi più di me sente il peso, la pena di questa vita?  

Ho passato un lungo periodo di difficoltà terribile, oserei dire terrificante, da non augurare neanche al peggior nemico sulla faccia della terra. Il mio mondo è stato messo a soqquadro; la mia vita ancora adesso, assomiglia ad una strada di montagna, con un tornante dopo l’altro. Il dolore è una Realtà Inevitabile! Anche sulla Bibbia sta scritto: “Piangerete come il dolore della perdita del primogenito”; il dolore più grande che un essere umano possa subire.

Il dolore non si attenua, ma siamo noi che ci adeguiamo al dolore… Ci attrezziamo a sopportarlo! Nel mio caso, ascoltando i Richiami di Gesù in Croce. Sì, perché il Suo Calvario si è fuso con il mio e dalla Sua Croce io traggo la Sua forza per andare avanti. Il dolore mi ha fortificata!

Io non ho più paura di niente, meno che meno che della Morte!

Ho una figlia in Paradiso che mi aspetta; ha preparato un posto per me!

In questa tribolazione, c’è la mano del Signore che mi chiede di riposizionarmi in Lui… Accetto la sua Volontà!…

M.G.      

 

Claudia di Eleonora

 

Mi riapproprio del mio passato che è il mio presente e resto in me, piccola, fragile, piena di te, immagine di quello strano noiche ci racconta di sé. Una volta iniziasti a girare, quella volta non volevi più smettere la tua danza… inciampasti, ti aggrappasti a me… continua a farlo, mia essenza, continua a volteggiare veloce e leggera quanto più puoi, continua a cadere serena, io ti reggerò per sempre.

Gigi di Pasqua Gina

…e guarderò sempre più spesso il cielo
la luce disperderà il buio….
forse un giorno riuscirò a trovare un nuovo
equilibrio
un equilibrio tra la lacerazione della perdita
e la speranza…..
troverò la voglia di ricominciare a vivere,
non solo a sopravvivere…..

Ilaria di Maria Grazia

 

 

Ho avuto due figlie meravigliose: Ilaria ed Alessandra. Due figlie che sono state la mia vita ed alle quali ho dedicato ogni mio pensiero dal giorno in cui sono rispettivamente nate. La mia vita era divisa tra loro, i miei progetti divisi tra loro, il mio futuro diviso tra loro.Tutto programmavo pensando a loro due.Fino al 6 Aprile 2009, giorno in cui da qualche parte era segnato che la mia vita doveva cambiare per sempre.
Il 6 Aprile 2009, c’è stato il terremoto a L’Aquila. Ilaria era lì, stava per laurearsi in Ingegenria Edile Architettura. Era lì, doveva consegnare delle tavole e lo doveva fare il martedì’ ed il mercoledì successivo…Aveva lavorato fino alle due , due e mezza della notte, alternando momenti di lavoro a momenti di fuga e di paura, perchè vi erano state delle scosse anche lle 23, 30 e all’1 di notte.
Con lei c’era Paolo, il suo ragazzo e compagno di studi, che non l’aveva lasciata perchè lei aveva paura….io l’ho sentita fin verso le 22, 22 e 30 , poi ero tranquilla…Mi aspettava l’inferno e non lo sapevo. Sono andata a dormire ignara che il mio risveglio sarebbe stato in una realtà diversa e mai più avrei recuperato la serenità di quel momento.
Ilaria è andata via con Paolo. Sono andati via vicini, abbracciati mentre dormivano, stanchi del lavoro della giornata….Ilaria si è portata via una parte di me, una parte della mia vita. Aveva 25 anni, 25 splendidi anni, vissuti come una ragazza bella, intelligente e dolcissima, amata da tutti quelli che l’hanno conosciuta, stimata da tutti quelli che l’hanno conosciuta. Mi è caduto il mondo addosso.
Da quel momento è cambiato tutto, non ho più la stessa visione della vita, non riesco a programmare il mio futuro, nemmeno quello più vicino….Mi manca la mia stellina, mi mancano i suoi sorrisi, gli sguardi d’intesa tra noi, il nostro parlottare….Eravamo molto complici e vicine…
Non so descrivere la fatica di ogni giorno nell’alzarsi ed affrontare la vita sapendo di non averla più vicino….fisicamente intendo….
la voglia di abbracciarla, di sentirla, di baciarla…di coccolarla tra le mie braccia… di non lasciarla andare via…. mai da me…ed in tutto il buio della disperazione, trovare solo la forza per sussurrare “Signore aiutami”
e trovare la forza di parlarle per dirle sempre ed in continuazione ” Ilaria non andare mai via, stammi vicino, stammi vicino, tienimi stretta a te, anche se non ti vedo”.
La immagino bella , tranquilla, ma so che li mi vede soffrire e soffre anche lei con me…. ma io anche se mi sforzo a non soffrire non riesco. Riesco a fingere quello sì, ma non è la stessa cosa.
Fingo e mi faccio forza per l’altra mia figlia Alessandra, che ha diritto ad una vita serena….ma fingere è una cosa, essere è un’altra.
Mi rimane la preghiera, mi rimangono i segni d’amore che Ilaria mi invia e che mi danno tanto conforto, ma non riesco a considerare la vita se non un contatore che gira alla rovescia fino al giorno in cui la rivedrò.Mille baci Ilaria. La tua mamma.

Umberto di Fiorella

 

 

Sono la mamma di Umberto Pasanisi, sino al 16 giugno 2007 la mia vita era retoricamente normale e felice: Un marito, una figlia di 28 anni, un figlio di 21, meravigliosi, sereni. Che cosa avrei potuto volere di piu’???? Il 16 giugno2007, alle 20 circa, non c’era piu’ niente di normale, il vuoto il baratro:Umberto a causa di un incidente stradale, con la moto, era letteralmente volato via. In quel momento di me persona della mia vita, della mia anima rimane ben poco, forse nulla. Mi aggrappo a Carlo, mio marito, a Silvia mia figlia, entrambi rocce di granito e perno portante della mia rinascita. A loro va il mio grazie piu’ grande e piu’ forte, ed è grazie a loro se oggi posso raccontare la mia storia. La telefonata, mi giunse verso le 20 di quel tragico sabato.Qualcuno, con voce sommessa, mi disse che Umberto aveva avuto un grave incidente e che purtroppo non c’era piu’. Per qualche secondo rimasi intontita, poi un dolore gelido mi pervase, accompagnato da lacrime caldissime e urla di strazio.Ero a 900 km di distanza(noi siamo a taranto e lui era a parma) non volevo crederci, non poteva essere vero.Tutto era finito e io con lui.Speravo in un miracolo all’ultimo momento.Pregavo Iddio di farmi arrivare in tempo. Darmi e dargli una possibilità, poterlo stringere e gridargli nell’orecchio che ce la poteva fare.Accarezzarlo e coccolarlo cosi’ come piaceva a lui, fino a fargli riaprire quegli occhi splendidi che aveva e fargli ritornare quel sorriso simpatico che lo distingueva da tutti. Ma questo non mi è stato concesso. Il mio piccolo ormai non c’era piu’. Vivo insieme alla mia famiglia giorni tremendi, quel 16 giugno ha segnato la fine della nostra serenità.C’è ancora incredulità per cio’ che è successo. Dolore e rabbia si alternano. Abbraccio mio marito e mia figlia e insieme piangiamo. Non sappiamo come continuare a vivere nel vuoto incolmabile che Umberto ha lasciato. Ma in ogni caso, la nostra vita non potrà essere piu’ la stessa. Ci era stato strappato un ragazzo dolce e sensibile, dal carattere gioioso, pieno di vitalità e attenzione per gli altri, un ragazzo dai sani principi, con grandi progetti per il futuro. Si, ero cattolica, ma le chiese li’ ed io qui. Allora mi chiedevo:Se è vero che LUI c’è, come poteva togliere un figlio ad una mamma???? Ho cominciato a cercare, cercavo i suoi uomini,i suoi sacerdoti, assetata della mia umana giustizia. Volevo delle risposte a tutti i costi. Ho incontrato solo belle parole:signora si faccia coraggio, bisogna andare avanti eccc. Ma le risposte alla mia angoscia? Nessuna! Poi, un caso, diciamo cosi’,un frate francescano,semplice, molto colto,testardo.

 Ero distaccata,pensavo, il solito prete che vuole giustificare il suo diciamo”superiore”.Passano i giorni, i mesi e il frate a goccia lenta diventa un tramite, tra noi e DIO.E noi su e giu’ su un’altalena: oggi la speranza e subito domani giu’ verso l’angoscia.Qualche mese dopo, decide di celebrare una messa per i giovani defunti…… non sopporto sentir chiamare mio figlio defunto.La sera della messa, quante mamme, quante lacrime, quanto dolore palpabile. E lui? Che dice nell’omelia? Comunicate, parlate dei vostri figli, con i vostri figli, loro sono qui con voi, in mezzo a noi, siete voi che non li vedete.Ma se alimentate la vostra fede, alla fonte, a quel crocefisso lassu’, capirete che il progetto non è vostro, non è nostro.Poteva essere una semplice omelia, ma era un invito a tutti noi ad incontrare e riabbracciare i nostri figli in cielo con gli occhi dell’AMORE DI DIO. LA FEDE. E che fare? Io niente…… Umberto molto……… DIO tutto. Cosi’, in punta di piedi, mi sono riavvicinata a quel DIO con cui ero molto arrabbiata.Sono iniziati i primi messaggi d’amore di Umberto, fino ad arrivare a voi, mamme stupende, di altrettanto ANGELI MERAVIGLIOSI.Grazie di cuore a tutti voi, che mi fate incontrare con il mio cucciolo tutti i giorni.A tutte, ma proprio a tutte, UNA CAREZZA AL CUORE!!!!!!!!!

Elena, Mamma di Alessandro… sono partiti in quattro!

Dolores guarda la figlia ormai Mamma, pensando a Daniele

 ALLA DONNA PIU’ IMPORTANTE DELLA MIA VITA MIA FIGLIA

pubblicata da Dolores

ECCOCI QUI, ERA TANTO CHE NON TI SCRIVEVO.OGGI VOGLIO SCRIVERTI TUTTO CIO’ CHE SEI,SEI DIVENTATA UNA DONNA HAI DUE BIMBI MERAVIGLIOSI ,E SEI UNA MAMMA MERAVIGLIOSA, TI VEDO QUANDO CON MELISSA GLI RACCONTI LE FAVOLE TI HO SENTITA CANTARE UNA NINNA NANNA CON UNA VOCE COSI DOLCE PIENA D’AMORE PER LEI CHE SI STRINGEVA A TE ,TI  ASCOLTAVO E MI COMMUOVEVO FINO ALLE LACRIME.SEI CRESCIUTA ATTRAVERSO IL DOLORE RICORDO CHE VENNE UN PERIODO CHE NON VOLEVI NEANCHE CHE TI ABBRACCIASSI TANTO ERI ARRABBIATA COL MONDO INTERO .TI AVEVANO TOLTO LA PERSONA CHE AMAVI DI PIU’ TUO FRATELLO ORA LUI SARA’ FELICE DA LASSU’ GUARDANDOTI CON LA TUA FAMIGLIA .POI TI E NATO IL SECONDO FIGLIO HAI VOLUTO CHIAMARLO COME LUI DANIELE TI GUARDO QUANDO LO ALLATTI AMORE MIO NON SAI CON CHE  TENEREZZA GUARDI TUO FIGLIO .MI DIRAI E TUTTO NORMALE, MA NON PER ME ,DOPO TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO PASSATO E CON TUTTO IL DOLORE CHE CI PORTIAMO APPRESSO SEMPRE .VIVO PER TE ,GRAZIE AMORE MIO TU MI HAI DATO LA FORZA DI ANDARE AVANTI ,GRAZIE PER LA DONNA CHE SEI ,GRAZIE PER LA MAMMA CHE SEI ,SAI DONARE AMORE HA CHI TI CIRCONDA. MIO DIO SEI DIVENTATA GRANDE. TI VEDO SERENA FELICE CON TUO MARITO ,E MI SENTO SERENA .SAI HO DESIDERATO TANTO MORIRE SONO CONTENTA DI AVER RESISTITO A NON FARMI DEL MALE PENSAVO CRI HA BISOGNO DI ME NON POSSO .SEI COSI BELLA MA PER UNA VITA INTERA TI O SEMPRE DETTO CHE LA BELLEZZA VERA E QUELLA CHE SI HA DENTRO, TU NE SEI PIENA ,SEI LA MIA VITA TU E TUO FRATELLO LE COSE PIU’ BELLE CHE GESU’ MI HA DONATO .PICCOLA SEGUI  SEMPRE IL TUO CUORE ,E COME IL TITOLO DI QUEL LIBRO TI DICO VA DOVE TI PORTA IL CUORE SEMPRE …. CON AMORE LA TUA MAMMA

PER DANIELE GLI SCRISSI QUESTA LETTERA QUANDO AVEVA 22 ANNI IL PRIMO NOVEMBRE NE AVREBBE COMPIUTI 39

pubblicata da Dolores il giorno venerdì 29 ottobre 2010 alle ore 18.49
 
 
MI SPOSAI GIOVANE ,E INCOSCIENTE, MI DISSERO CHE ASPETTAVO UN BIMBO… MI SEMBRAVA UN GIOCO NON CI PENSAVO PIU’ DI TANTO. VENNE IL GIORNO CHE NASCESTI QUANTO DOLORE..CAPIVO SOLO QUELLO ,POI SENTII IL TUO PIANTO,CAPII CHE TUTTO QUESTO NON ERA UN GIOCO,PIU’ PIANGEVI E PIU’IO MI SCOGLIEVO IN UN MARE DI TENEREZZA ..IN QUEL MOMENTO DIVENTAI MAMMA TENERAMENTE TI PRESI TRA LE BRACCIA. TI AMAI. TI AMAI DI QUEL AMORE UNICO TOTALE .GRESCEVI BIRICCHINO E BELLO,E IO CRESCEVO CON TE.MI INSEGNASTI A FARE LA MAMMA ,TI INGELOSIVI SE QUALCUNO PER STRADA OSAVA GUARDARE LA TUA MAMMA ORA SEI UN UOMO IL MIO AMORE PER TE E GRESCIUTO ANNO PER ANNO. IO SONO DIVENTATA MA’ NON PIU’ MAMMINA, ANCHE I TUOI ABBRACCI SONO DIVERSI.MA IO CONTINUO E CONTINUERO’ A SENTIRE L’AMORE..CHE CI LEGA.L’AMORECHE MI PORTI, DOLCE, CARO, E UN PO’ RUDE ……A DANIELE CON AMORE MAMMA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Sali sulla mia barca

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 Sali sulla mia barca, Signore! 

… oggi non chiedo altro…

                   

 

Sali sulla mia barca, Signore!

Tante volte ho avuto l’impressione

che la mia vita

sia come una notte trascorsa

in una pesca fallita.

Allora mi assale la delusione,

mi prende il senso dell’inutilità.

Sali sulla mia barca Signore,

per dirmi da che parte

devo gettare le reti,

per dare fiducia ai miei gesti,

per capire che non devo

lavorare da solo,

per convincermi che il mio lavoro

vale niente senza di Te,

senza la Tua presenza.

Sali sulla mia barca Signore,

per donare calma e serenità.

Prendi Tu il timone:

accetto di essere tuo pescatore.

Insieme pescheremo, Signore,

e giungeremo sicuri

al porto della vita

 

  

 

CONOSCO DELLE BARCHE


 

Conosco delle barche

che restano nel porto per paura

che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto

per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire

hanno paura del mare a furia di invecchiare

e le onde non le hanno mai portate altrove,

il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate

che hanno disimparato come liberarsi.

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare

per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo

ad affrontare il vento forte al di là della paura.

Conosco delle barche che si graffiano un po’

sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche

che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,

ogni giorno della loro vita

e che non hanno paura a volte di lanciarsi

fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

Conosco delle barche

che tornano in porto lacerate dappertutto,

ma più coraggiose e più forti.

Conosco delle barche straboccanti di sole

perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche

che tornano sempre quando hanno navigato.

Fino al loro ultimo giorno,

e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti

perché hanno un cuore a misura di oceano.

(Jacques Brel)

 

 

 

Edda CattaniSali sulla mia barca
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L’Aquila : ancora un anno

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Ancora é l’anniversario del terremoto e ben poco è cambiato!

Ricordiamo tutte le vittime ancora una volta…

L’Aquila, questa sera:
una candela per ricordare

Noi dedichiamo questa pagina ad ILARIA e alle altre VITTIME del sisma, perché l’Aquila torni a volare!

Ricorre l’anniversario del terremoto in Abruzzo. Più di trecento persone persero la vita dopo il sisma devastante delle 3:32 della notte e il conseguente sciame sismico. Dopo la distruzione, gli aquilani hanno cercato di ricominciare una vita degna. Ma tra macerie, case inagibili, costruzioni di fortuna (e polemiche), non c’è più quotidianità. I cittadini stanno provando a voltare pagina, ma è impossibile fare finta di niente. Intanto si moltiplicano le iniziative per ricordare quanto accadde l’anno scorso: il sindaco della città ha istituito, per il 6 aprile, una giornata di lutto cittadino.


Commosse un’iniziativa nata su Facebook e  assunse proporzioni insperate. Un utente, Carlo Frutti, creò un gruppo e propose a tutti gli italiani di lasciare una candela accesa nella notte tra il 5 e il 6 aprile. In alternativa si può lasciare accesa la luce di una stanza. Frutti, inoltre, scrisse anche il programma di una piccola cerimonia che si svolgerà all’Aquila. Alle 23:30 del 5 aprile ci sarà un corteo tra la fontana luminosa e Piazza Duomo, nel centro della città. Dalle 3:32, minuto preciso del sisma, in Piazza Duomo verranno letti i nomi delle vittime. In seguito, nella Basilica di Collemaggio, verrà celebrata una Messa.


Quasi 17 mila persone si sono iscritte al gruppo. Probabilmente il numero aumenterà fino al 6. Con o senza candela, comunque l’Italia si stringerà attorno ai fratelli aquilani. Esattamente come anni fa.

 

Edda CattaniL’Aquila : ancora un anno
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La morte giovane

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Propongo questo documento di un grande medium, quale è tuttora Corrado Piancastelli, che vale la pena di rivisitare. E’ un laico che parla… e termina: “… In questa chiave di lettura ha ragione Teillard De Chardin quando dice che “noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”. Sull’elaborazione del lutto io partirò da ben altro: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”.  (1Gv 4,9)

Sulla morte giovane


di Corrado Piancastelli

           Normalmente nei congressi di parapsicologia cerco di affrontare i problemi in chiave scientifica e i miei interventi possono anche apparire insoliti perché le persone – dal momento che sono anche un sensitivo – forse si aspettano da me racconti più o meno fantastici che non amo fare.

      Sono stato a lungo uno psicoterapeuta e come tale mi sono prevalentemente occupato di tossicodipendenze e di devianze giovanili, dei problemi legati alla droga: le sofferenze dei giovani si possono affrontare solo con metodi razionali, non con atti di fede o con invocazioni mistiche o affidandosi alla volontà di Dio. Questa esperienza ha stabilizzato la mia razionalità di fondo e mi ha trasmesso un metodo che, però, non ho mai usato in modo estremo, ma era comunque un metodo di lavoro che poi mi è servito anche nella ricerca del paranormale.

          Dalla pratica psicoterapeutica sono poi passato alla filosofia della mente e questo è il mio lavoro attuale. Ma, naturalmente, il contributo che ho dato alla parapsicologia (si pensi, per fare solo due esempi, al “Rapporto dalla Dimensione X, Colloqui con “A” e ad altri, scritti sul mio caso da Giorgio di Simone, fino al mio libro autobiografico “Il sorriso di Giano”) e il fatto di essere anche un sensitivo da quando avevo solo 15 anni, hanno inciso profondamente in tutto l’arco del mio lavoro. E’ un’intera esistenza, la mia, passata a cercare di dare alla parapsicologia qualche punto di appoggio solido. Questa modalità di lavoro, in filosofia come nelle scienze, viene rappresentata come ricerca epistemologica di un problema. Oscillando tra istinto per così dire medianico, con le sue possibilità di entrare in altri mondi e le esigenze legate ai metodi della scienza, sono diventato io stesso la maschera del Giano bifronte con la possibilità, cioè, di guardare verso lo stesso punto da due orizzonti diversi.

Credo che qualsiasi ricercatore, che sia anche filosofo, si trovi in questa situazione ambigua. Un maestro d’eccellenza quale fu Gustav Jung si trovò nella stessa situazione. Jung discorreva nel suo giardino con una voce interiore a cui aveva dato il nome di Filemone e nella vita fu un scienziato irreprensibile stimato in tutto il mondo.

“Filemone – ha lasciato scritto Jung – rappresentava una forza che non ero io [….] e mi diceva cose che io coscientemente non avevo pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, non io.” […..]. “Per me era una figura misteriosa. A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva. Passeggiavo con lui su e giù per il giardino ed era per me ciò che gli indiani chiamano un guru”.

          Dico queste cose non per ostentare un parallelismo con il grande Jung, ci mancherebbe altro, ma perché abbiate intero il quadro che fa da sfondo alla mia vita, vissuta continuamente tra dubbi, certezze e ipotesi di lavoro.

Questo tipo non facile di vita mi ha portato a dubitare e a confermare. Un’oscillazione culturale la cui lezione preziosa in tal senso, guarda caso, me l’ha data proprio il mio maestro spirituale, quell’Entità “A” per la quale il nostro lavoro umano deve consistere nel produrre continuamente domande anche se sappiamo che non a tutte possiamo dare risposte: è il lavoro principale della filosofia e della ricerca in generale e qualsiasi vero filosofo sarebbe d’accordo con questa impostazione.

         “Dubita sempre delle risposte troppo facili, di quelle retoriche o irrazionali, mi ha continuamente ripetuto “Andrea” , anzitutto perché sulla Terra non è possibile accedere alle verità assolute. Ciò nonostante interrogati ogni volta se c’è un senso nelle risposte che ottieni. Dopo averle ricevute riponi le stesse domande senza mai stancarti ma senza dimenticare che hai pure un cuore e anche il cuore vuole risposte”.

           Avere un cuore significa accettare anzitutto che la scienza ha i suoi limiti, oltre i quali bisogna dare un senso anche a ciò che, che per sua natura, non può essere esaminato al microscopio, come la coscienza superiore, la creatività, i desideri, l’immaginazione, i sentimenti, la poesia. Questa scelta di posizione tra rigore matematico e la invisibile ma egualmente reale vita interiore (alla quale pur bisogna dare voce) determina in noi una continua oscillazione tra il certo e l’incerto, tra il possibile e l’inverosimile, tra il vero e il falso, tra illusione e verità. Ciò è causa di tormento culturale e morale e di continua impossibilità a decidere tra ciò che è giusto e ciò che non lo é. Questa, però, come tutta la tradizione filosofica insegna, è la vera posizione del filosofo.

            Di questo comunque non parlerò stamani ma in un’altra conferenza che integrerà questa di oggi che terrò sempre a Napoli, in febbraio, in un altro convegno di parapsicologia parallelo a questo.

          Oggi voglio parlare con voi del dolore e della morte giovane. Ma devo fare subito una premessa: sono un laico fin nelle ossa e odio la retorica e il sentimentalismo quando sono fini a se stessi. Ho fede principalmente nella ragione illuministica ritenendo questa un dono di Dio. Quindi vi dirò le cose che molti di voi vorrebbero dire ma non osano perché ingabbiati in una visione fideistica che rifiuta la ragione e si abbandona alla sola speranza perdendosi dietro il desiderio. Mi prendo la responsabilità di parlare con la rabbia – come ho sentito fare a molti – di chi si vede sottratto un figlio innocente e si pone il terribile perché sia potuto accadere proprio a lui un evento così devastante. Spero, però, che le mie riflessioni servano anche a chi è venuto qui senza lutti personali, ma solo per capire come stanno le cose.

            Uno come me che ha passato la vita a interrogarsi, ad ascoltare il dolore degli altri che mi chiedono conforto e speranza, uno come me che per oltre 50 anni ha interrogato la propria sensitività e la propria coscienza a contatto con una Entità ormai mitica nella storia del paranormale, uno come me che è vissuto per tanto tempo con un maestro del genere, si è posto come voi le stesse domande come le formulai quando, bambino, vidi morire un mio piccolo amico di appena dodici anni e sentii le urla dei genitori davanti al figlio morto. Quel mio piccolo amico e i suoi genitori non avevano fatto nulla di male, erano finanche persone religiose che credevano in Dio e andavano a Messa tutte le domeniche. Leonardo, così si chiamava il mio piccolo amico, era finito sotto un tram e restai tramortito dall’insolente violenza della sorte verso un innocente. Così vissi quella esperienza terribile.

 Perché?, mi chiesi.

Perché proprio lui e non un altro? Perché non un boss che ha sulla coscienza diecine di morti? Perché non un killer che uccide a sangue freddo?

            Dove sono la giustizia di Dio, l’amore di Dio, la sua paterna misericordia, se davanti a noi, nel mondo, c’è solo morte, violenza, malattia e tormento di ogni specie?

           Perché deve morire un ragazzo lasciando nello squallore del dolore i genitori indifesi che non riescono a dare un senso a questa violenza della morte giovane e rischiano finanche di incattivirsi nella cupezza della perdita a cui non sanno dare una spiegazione?

           Così mi vissi la rabbia e il dolore quando morì il mio giovane amico tanto tempo fa.

           Lo ripeto, sono un laico che però ha avuto la fortuna di incontrare un maestro spirituale e da lui ho appreso che essere laici non significa essere atei e non riconoscere ciò che chiamiamo il senso del sacro e della divinità. Laico significa usare il dono di Dio della ragione. Perché la ragione è più importante della fede. Lo é per il solo fatto che la ragione l’abbiamo tutti, al contrario della fede che l’hanno solo alcuni e non certo per meriti personali. Lo so, dicono che la fede sia un dono di Dio. Io, invece, sono d’accordo con Pascal, il quale si chiedeva: se la fede è un dono di Dio perché alcuni ce l’hanno e altri no?

          Non sarebbe, questo dono, dato solo ad alcuni, una vera ingiustizia? Ma poi: la fede serve veramente a giustificare un immenso dolore o è solo utilizzabile come un sedativo?

         Vi risponderanno che non possiamo conoscere i disegni di Dio. Ma quali disegni? I disegni si vedono dagli effetti che producono e io mi rifiuto di pensare che Dio, nei suoi disegni, comprenda le morti innocenti di milioni di persone indifese e lo strazio dei sopravvissuti.

           Questo Dio biblico che semina morte non é il Dio amorevole di cui tutti abbiamo sentito parlare fin da quando siamo nati. Non può trattarsi dello stesso Dio che conserva la vita ad alcuni e, nel suo disegno, la toglie ad altri. E’ un disegno, se lo è, del tutto incomprensibile, talmente incomprensibile da somigliare a quello di un killer che spara da lontano nel mucchio preso da un raptus di follia.

 Io la vedo così e ne deduco che deve esserci un’altra spiegazione.

La vita umana vede continuamente il successo dei violenti e la morte dei deboli. Più si è vittime più si è perdenti, più si è ingiusti e accaparratori e più si vince. Dov’è Dio in questa vacanza della giustizia? Dov’è il suo amore, la sua pietas?

…fine prima parte…

 

Seconda parte

 

Ad Aushwitz furono annientati milioni di ebrei e ancora oggi, nel mondo, ogni anno muoiono letteralmente di fame almeno 10 milioni di bambini e non c’è nessun Dio e nessuno Stato che interviene per salvarli dall’atroce morte per inedia fisica.

          Wiesel, raccontando dell’impiccagione di tre prigionieri in un campo nazista, tra cui un bambino dagli occhi tristi, così scrisse: “Dov’è dunque Dio? Dov’è? Eccolo: è appeso lì, su quella forca!”.

         E ancora Adorno, ripreso da Jonas: “Nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto di essere immodificata dopo Aushwitz”.

         Un bambino di dieci anni trucidato dalla marmaglia nazista che ha disonorato la specie umana. Non riesco a pensare in modo logico e lucido ad una cosa del genere. Perdere un figlio giovane per malattia o incidente è tragico, vederlo addirittura impiccato per puri motivi ideologici è doppiamente tragico, è finanche spiritualmente intollerabile.

         Noi e i nostri figli siamo legati con un nodo inestricabile che nessuno può sciogliere. Forse dipenderà dalla nostra natura biologica, forse da quella spirituale e psichica o forse dall’intreccio di questi tre fattori. Qualunque ne sia la causa questo nodo esiste e ce lo viviamo in maniera emotiva sicuramente eccessiva, ma non riusciamo a sentire questo bene in modo diverso, per cui la morte di un figlio la sentiamo come un affronto alla logica naturale che prevede la morte dei vecchi e non quella dei giovani.

Diceva Rousseau che l’amore dei genitori è di tipo discendente, quella dei figli di tipo ascendente. L’amore ascendente è minore di quello discendente, ecco perché i genitori amano i figli in modo più forte che i figli i propri genitori. Questo amore dei genitori si associa sempre all’ansia di perderli. La psicoanalisi ha elaborato studi fondamentali su questa questione di cui, però, resta l’ansia e la pena che sono reali, sono qui, e per qui intendo proprio qui nelle nostre menti, nei nostri corpi, nella nostra natura vivente, in un rapporto ferocemente arroccato tra la nostra materia corporale e queste persone a noi care, tra le quali in modo speciale i nostri figli più delle nostre madri e dei nostri padri, più dei nostri amici che pure possiamo amare e che vorremmo non morissero mai.

        I figli ci fanno diventare egoisti, trasformando il dolore della loro perdita in una speciale perversione che talvolta incattivisce e che non vorremmo avere ma che è umanamente comprensibile.

       Perché è toccato a me e non ad un altro? Oppure: doveva proprio accadere  a lui di morire  e non al nonno che è già vecchio o allo scemo del paese che ancora campa nella più totale apparente inutilità, o ai delinquenti che imperversano nella nostra società?

           Ecco, questo è quanto può attraversare la mente di coloro che subiscono il lutto della perdita e io vi chiedo perdono se lo metto in luce brutalmente nella domanda di senso a cui la fede non può dare risposta se non è preceduta da un ragionamento. Non basta dire, sia fatta la volontà di Dio, perché noi chiediamo il senso della stessa domanda, non la pura affermazione della sua volontà, dal momento che siamo noi uomini a soffrire, non Dio, e una risposta come questa non ci chiarisce nulla, anzi esaspera il senso della sua retorica, incomprensibile quanto l’evento che ci ha colpito.

         Si può mai essere confortati da una risposta del genere? Che non dobbiamo sapere e non dobbiamo capire nulla come se fossimo dei mentecatti?

        Come si esce da questa posizione mentale che rende perverso il dolore della coscienza e dell’amore feriti? Come dobbiamo recuperare il rapporto col divino, questa necessità interiore pura, offesa dalla Sua assenza perché le nostre invocazioni e preghiere a Lui restano continuamente disattese come se Lui effettivamente non ci fosse?

        Naturalmente chi ha fede e non si pone domande, resti pure così se in questa posizione trova le risposte! Io provo sempre a rivolgermi a quelli la cui fede vacilla oppure è improponibile.

       Non ho la ricetta miracolosa, sono solo una mente che ha imparato a pensare da filosofo e ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada la voce di un maestro molto speciale. Da questo incontro è nata una risposta di senso che, a mio avviso, merita ogni attenzione.

        La riflessione scaturita da questo straordinario rapporto fissa alcuni punti fondamentali:

        Punto primo: nonostante tutta la buona volontà – che si sia laici o credenti – è incontrovertibile che nel mondo non c’è alcuna visibile traccia di Dio. In questa affermazione, che si traduce nel concetto della morte di Dio, c’è però un paradosso, perché ciò nonostante vi sono persone che hanno iniziato un lavoro di ricerca e sono riuscite a portare la loro coscienza percettiva, al di là della negazione e del dubbio. Queste persone sono i mistici, i profeti, i poeti, i filosofi metafisici di tipo creativo, i maestri spirituali. Tutti costoro sono riusciti, attraversando la materia del corpo e sospendendo la ragione – come nella fenomenologia di Husserl – a raggiungere uno stadio mentale e intimo profondo e alto in cui si annulla il tempo e lo spazio e si entra nella dimensione sacrale dell’ineffabilità perdendo il contatto col proprio Sé corporeo e linguistico. In questa condizione si apre una seconda coscienza parallela di cui possiamo tutti fare esperienza a condizione che la smettiamo di rigirarci nelle nostre disgrazie e diventiamo attivi e propositivi.

Questa percezione trascendentale va cercata, non si vende in edicola e nei libri, ma si deve cercarla non solo per esserne consolati, va desiderata come necessità di conoscenza di sé e come ricerca interiore. Ciò significa che dobbiamo abbandonare la teoria del solo sapere cognitivo e della ricerca consolatoria o della curiosità intellettuale fine a se stessa, e passare alla pratica del fare intesa anzitutto come ricerca della nostra anima.

Se non ci poniamo come primo obiettivo il riconoscimento sperimentale che siamo una natura spirituale che vive in un corpo fisico, come potremmo riconoscere i segni del sacro e avvicinarci ad una possibile divinità?

         Noi siamo nel mondo per conoscere e sperimentare la corporeità e la vita, non per contemplare astrattamente. In questo momento in cui voi e io ci stiamo scambiando pensieri tutto è materia. I nostri sensi, il nostro linguaggio, voi udite la mie parole, io sento il vostro silenzio, la vostra attesa. I nostri corpi vivono, respirano, le vostre orecchie ascoltano, le vostre domande fremono nei vostri cervelli ed è quasi come se le udissi, immagino finanche cosa state pensando, ciò che vorreste chiedermi.

         Piano piano tra voi e me, tra i nostri corpi fisici, si crea un feeling, una cosa impalpabile che crea ascolto, partecipazione, unione. Ne deriva che ciascuno di voi non è solo carne umana seduta su una sedia. Che cosa consente a questa carne e ossa e sangue di capire il senso delle mie parole? Sono solo sensi e mente o c’è qualcos’altro che passa tra voi e me? E’ solo voce umana, sia pure denotata di senso, oppure stiamo percependo, attraverso il suono fisico della voce, altri significati che ci rinviano all’intuizione sacrale che ci stiamo scambiando anche anime pur nella fisicità spaziale dello stare insieme?

Quando cerchiamo, in un pur banale atto della vita, di dare un senso alle cose (per esempio perché lo stiamo facendo? Perché così e non in un altro modo? Cosa significa la mia azione? Come interpretare l’azione degli altri?), quando ragioniamo in siffatto modo, siamo già nel sacro. Il sacro non è una chiesa, una preghiera, un suono di campana o una musica: sacro è il senso della vita quando la nostra azione ci produce un surplus di conoscenza e ci conduce al processo di trasformazione per mezzo del quale utilizziamo, sì, la nostra materia corporale, ma la conoscenza corporale non può essere una conoscenza fine a e stessa, deve poter produrre un valore e questo valore è appunto il senso che dobbiamo dare all’azione e questo senso si accresce proprio perché è prodotto dall’esperienza concreta non dalle teorie, come dice il filosofo Gianni Vattimo, del credere di credere.

Questa riflessione ci dice che se Dio esiste non è nelle cose umane e nel mondo che fisicamente ci appare, ma nel valore aggiunto che nasce dal finalizzare i comportamenti e la corporeità a valori conoscitivi, indipendentemente dal credere o non credere, perché il Dio che cerchiamo è nel gap tra il pensiero teorico e la pratica spirituale del vivere. In questo modo il gap che viene a determinarsi è lo spazio astratto che si riempie di senso, cioè è proprio un valore aggiunto che la mente fa proprio. Si tratta di un valore metafisico, perché è l’ontologia dell’Essere che si riappropria di noi e trasforma il pensiero in sapienzialità, cioè lo connota proprio di quella sacralità che stiamo cercando

Se non si opera, il credere soltanto non serve a niente. Operando ci allontaniamo paradossalmente dal mondo perché sacralizziamo la nostra azione, innalzandola al di sopra del pensiero stesso.

             Questo paradosso ha bisogno, però, della complicità del corpo perché è attraverso di esso che noi pensiamo e operiamo. Ma il paradosso ci apre la strada all’inverosimile, perché se diamo continuamente un senso all’azione noi ci impadroniamo della sacralità mentre operiamo e la riconosciamo (quando l’azione è finita) perché siamo diventati più ricchi, più saggi, più tolleranti, più giusti o semplicemente più consapevoli della nostra esistenza . In termini psicologici questa è la strada per radicare l’identità, la coscienza di sé, il valore dell’esistenza che noi identifichiamo quando cessa il clamore delle cose del mondo.

Questo fatto straordinario ci conferma che di Dio non si ha traccia nel mondo perché noi, spinti dal bisogno e dal dolore, vorremmo incontrarlo là dove Lui non può stare, per cui la traccia comincia quando diamo un senso e una finalità concreta al nostro desiderio. Quando, invece, utilizziamo il desiderio e l’immaginazione solo per pensare senza farli diventare azione, restiamo imbrigliati nella teoria o nel nostro stato fissativo e restiamo soli perché il resto del mondo è come se non esistesse. Rendiamoci conto che la politica, l’economia, il lavoro, le disgrazie dei corpi, le malattie, la morte e i riti per esorcizzare il dolore appartengono solo al regno della vita umana, non a quello dello Spirito o a quello del divino. E quindi, se vogliamo pensare al sacro dobbiamo, sia pure attraverso queste necessarie fasi umane, salire di livello, cioè il pensiero quotidiano deve diventare attenzione trascendentale.

             Questa operazione non è irrazionale, anzi è esattamente il contrario. Infatti noi partiamo da una procedura razionale quale la volontà e il ragionamento e da lì giungiamo in un’area metafisica fino ad allora del tutto sconosciuta. Insomma l’idea di Dio, del trascendente, della sopravvivenza, della sacralità, rappresentano un progetto di verifica e di riconoscimento che implica un lavoro: non sono verità concesse per fede solo a qualcuno, ma l’esito, per così dire, di una ricerca (come è giusto che sia) che sottintende un merito.

            Tutto ciò che possiamo definire trascendente: Dio, l’ontologia della metafisica, la dimensione dell’oltre, la percezione mistica e simbolica del divino, le tracce di coloro che sono trapassati, cioé i figli e gli amici che sono morti, sono là in questo stadio ultrapercettivo che chiamiamo trascendenza sacrale.

           L’anima (o Spirito) deve trovarsi, verosimilmente, in quel punto che si realizza solo nelle condizioni mistiche dell’ineffabile abbandono trascendentale, nel luogo dove, appunto, si costituisce la dimensione della seconda coscienza che può pensare a sé non come corpo ma come punto di incontro col mistero. Perché è solo in quel punto che si cominciano a scorgere le tracce del sacro se, come diceva Empedocle, che visse 450 anni prima di Cristo, forse “la natura di Dio è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte”.

…fine seconda parte…

 

Terza parte

…terza parte…

Secondo punto – Se riusciamo a vivere il precedente progetto di ricerca interiore, tutta la riflessione precedente di colpo diventa anche un lavoro che conferma l’esistenza in noi di alcune verità metafisiche. Tra l’altro gli effetti a cascata di questo nuovo modello interiore sono subito visibili finanche nella vita ordinaria. E’ dimostrato che, ad esempio, se riusciamo a creare uno stato di conformità tra il corpo e i desideri inconsci, questo stato non solo ci apre (con opportune tecniche) uno sconosciuto universo trascendentale, ma ci procura finanche un benessere fisico che innalza le difese immunitarie contro i virus, il cancro e varie malattie, ed agisce positivamente su tutte le tensioni psichiche riducendo gli stati nevrotici o abolendo l’ansia. Tutto ciò ha un carattere oggettivo come è dimostrato dal fatto che in questo nuovo stadio mentale si modificano le onde cerebrali e rallentano i segnali di attivazione in entrata degli stimoli esterni provenienti dall’ambiente, compreso gli stressori che ci producono ansia.

           Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un nuovo paradosso.

           I filosofi e gli scienziati ancora oggi non sanno spiegarsi come mai percezioni astratte possono interferire con gli stati corporei e mentali che appartengono al regno fisico. Però interferiscono. Essi non postulano il sospetto che insieme al corpo e alla mente noi possediamo una esistenza spirituale che è regolata da leggi non fisiche, ma tuttavia sono costretti a riconoscere che senza il pensiero superiore, noi stiamo male.

         Ovviamente non è che non conosciamo le caratteristiche della coscienza, ma in un certo senso procediamo al contrario perché del sistema nervoso conosciamo quasi tutto, quel che non sappiamo è come sia possibile che un cervello fatto di cellule e neuroni di tipo fisico, possa concepire e produrre ciò che fisico non è, per cui in realtà noi sappiamo cosa la coscienza non è, piuttosto che cosa la coscienza é.

Si aprirebbe un lungo discorso che non è possibile sviluppare nel limitato tempo che abbiamo. Filosofi, neuroscienziati, psicologi e ricercatori in genere devono ancora capire come sia possibile che l’essere umano abbia la capacità intenzionale di pensare per astrazioni e simboli come se fosse in possesso di codici estranei al mondo dei neuroni. Questo fatto è addirittura emblematico. Il nostro cervello possiede 100 miliardi di neuroni, ma nessun neurone è intelligente. Il DNA di uno scimpanzè differisce solo l’1,6 da quello dell’uomo. Ancora non sappiamo in che modo lo schema dei circuiti funzionali del cervello dia origine ai fenomeni mentali: sui fenomeni mentali superiori non abbiamo neppure un’ipotesi. L’arte è uno di quei casi emblematici ancora sconosciuti e così anche la matematica intuitiva.

Terzo punto: Ma c’è di più: le nostre pulsioni, i nostri desideri, le vocazioni a fare o non fare, i nostri istinti spirituali e creativi, le nostre intenzionalità, tutta la gamma delle nostre idee più alte e metafisiche, provengono esclusivamente dall’inconscio, cioè da una parte di noi di cui non abbiamo coscienza, per cui dobbiamo ribaltare il concetto che noi siamo soltanto la nostra coscienza e la nostra storia personale, perché senza l’inconscio noi saremmo in possesso solo della coscienza animale, del sistema nervoso e della cultura. L’inconscio è un iceberg sotterraneo, una montagna potenziale che è al di sotto della coscienza la quale, diceva Freud, è solo un piccolo rigagnolo che fuoriesce da questo grande fiume nascosto che scorre a nostra insaputa dentro di noi. Siamo più inconscio che coscienza; se è lì che avvengono le principali transazioni metafisiche, lì dove le regole dello spazio-tempo e del linguaggio non funzionano più, è allora più chiaro che, quando parliamo di sacralità e di divino, è solo là che lo possiamo incontrare.

          Forse Dio e l’Anima non sono scomparsi e le tracce sono in quest’area interna che la storia del mondo ha cancellato in omaggio alle leggi dei poteri e del mercato che hanno trasformato gli uomini, specie noi occidentali, in merce di scambio in robot obbedienti e passivi.

         Ora possiamo tornare alla domanda iniziale.

         Perché la morte e perché la morte giovane? Supponiamo che l’anima (ne diamo per scontato, in questo discorso, la sua realtà) esista non dal momento del concepimento, ma sia antecedente e che vivere in un corpo rappresenti per essa un esperimento di conoscenza. Perché non potremmo percorrere questa ipotesi? Chi può dire quando l’esistenza dell’anima cominci? Attenzione: nel parlare di anima noi non ci riferiamo ad una simbologia, o ad una metafora (come si fa in psicologia) ma ad una cosa reale, vera, esistente. Nella nostra ipotesi di lavoro l’anima è una struttura complessa, una struttura costituita da energia che vive di esistenza propria, di una realtà reale come è reale il pensiero, una musica, un respiro, un profumo. Ci rifiutiamo di definire l’anima l’inganno metaforico di un discorso che parla di lei, per noi l’anima è una forza reale come è reale la luce di una lampadina.

Non è ragionevole ipotizzare che se quest’anima è una sostanza eterna perché proveniente dalla stessa eternità di Dio, il principio eterno di cui è costituita non si misura solo sul suo futuro ma anche sul suo passato? Meditate bene su questo punto; è importante. In una linea geometrica infinita, qualcuno può forse stabilire quale ne è il centro o dove cominci l’infinito? Se l’anima ha l’eternità nel suo futuro perché non dovrebbe essere possedere l’eternità anche nel suo passato?

           Poiché nessuno può dimostrare – dico dimostrare – il contrario di questa tesi, ne deriva un corollario della massima importanza e cioè che l’anima precede il corpo. Se l’anima precede il corpo, e se tutto quanto abbiamo detto sulla natura inconscia della mente è vero, e se ciò che chiamiamo intenzionalità, creatività, percezione metafisica e trascendentale contraddistinguono la vera natura di ciò che definiamo Persona Umana che si differenzia dalla pura natura biologica, se non siamo simili a una pianta e non siamo solo un ammasso di sangue, muscoli come la carne che si vende in macelleria, allora noi non siamo solo molecole o cellule, ma siamo anche anima e quest’anima, ricca di proprietà metafisiche, vive il corpo come un involucro provvisorio e la vita umana rappresenta lo specifico in cui si realizza un progetto dell’anima stessa. Se non esistesse una progettualità per quale motivo dovremmo vivere? In assenza di progettualità la nostra vita non avrebbe più senso di quanto ce l’abbia un formica.

         Se, però, come noi riteniamo estremamente probabile, l’anima ha un progetto questo non può che essere individuale e intenzionale, cioè nel progetto è sottintesa una precisa volontà, e quindi è il corpo a servizio dell’anima, non viceversa.

          Ma se c’è un progetto spirituale che usa un corpo per realizzarsi, poiché il corpo è un meccanismo finito, cioè soggetto a nascere e morire, il progetto pur essendosi costituito su finalità e su valori non umani, è giocoforza costretto ad uniformarsi ad un tempo e a uno spazio che invece sono umani pur senza perdere la propria specificità.

          Questo adeguamento quasi fisiologico è per l’anima una trappola che è costruita dalla natura con i criteri della finitezza di cui conosciamo solo i due estremi rappresentati dalla nascita e dalla morte.

   Ne deriva che il tempo dello spirito non si misura col tempo umano scandito dall’orologio e dal calendario, ma col mistero della sua progettualità che noi, con la mente umana non solo non possiamo conoscere, ma che neppure umanamente condividiamo perché è intriso di una logica alla quale la nostra mente non può partecipare perché il nostro pensiero è legato alla Storia e al tempo di questo mondo, ai suoi bisogni, alle sue contraddizioni, ai suoi limiti.

Per l’anima non può esistere la Storia del mondo e degli umani. L’anima è un soggetto individuale che vive in funzione della sua storia spirituale e individuale, per cui ciascuno è responsabile di sé e non degli altri. Non ci sono percorsi sentimentali, ma percorsi progettuali.

Quando il progetto si è esaurito l’anima se ne va ed a noi tocca accettare questa volontaria decisione e paradossalmente anche assecondarla. Non è Dio che toglie la vita, ma l’anima che decide l’ora del suo ritorno. Per noi questa logica è spesso terribile, ma non dobbiamo dimenticare che tutti noi vi siamo assoggettati. Per noi la morte è separazione, per l’anima è liberazione. Per noi la morte è dolore, per l’anima è la fine di un incubo perché ritorna al suo stato primario che lasciò per entrare nella limitata trappola del corpo e alla fatica del vivere.

Nel suo non-tempo la morte non è, quindi, una violenza, ma l’esito naturale di un evento a sua volta naturale che pone termine ad un programma stabilito da ciascuno di noi nel momento che nasciamo.

         Vorrei avere il tempo, il mio tempo umano, per parlarvi del tipo di esperienza che un’anima immateriale può fare in un corpo materiale e rispondere all’interrogativo che molti mi rivolgono: ma che esperienza può fare un ragazzo di pochi anni? La sua anima cosa può aver capito del mondo in così poco tempo?

          Dirò solo due cose.

          Il progetto dell’anima è un progetto conoscitivo attraverso il percorso sperimentale della vita. Se è così il progetto può essere eseguito in pochi o in molti anni. Qualunque sia la lunghezza temporale della vita per l’anima si tratta pur sempre di un soffio, di un istante. Tutti noi siamo assoggettati a questa regola. Non ci sono orologi e calendari che possono misurare il tempo dell’anima . Questo per noi umani è un dramma, lo capisco bene, ma non per l’anima, perché essa non conosce il tempo umano! Può lasciare il corpo presto o tardi, a venti come a novanta anni. La sua misurazione è conforme all’esperienza che ha progettato, non può riferirsi alle aspettative ed agli affetti del mondo, dei genitori, degli amici, della società. E’ per tutti così. Anche i genitori se ne possono andare prima che i figli siano cresciuti e li lasciano soli. E’ in atto una reciprocità il cui senso è l’attesa che l’evento della vita si compia quando il tempo della conoscenza si è esaurito.

          Ma – ripeto la domanda – cosa può sperimentare l’anima di un giovane che non ha ancora vissuto la vita?

La vita non è fatta solo di azioni visibili, come il lavoro, la famiglia, lo studio, il bene o il male. La vita non è solo una costruzione di affetti che vorremmo non finissero mai. La vita è il vivere cose che il corpo sociale nemmeno immagina. Si vivono le sensazioni, gli odori, le attese, le speranze, i desideri, si vive l’apprendimento, la comunicazione con gli altri, si vivono finanche le depressioni, le paure, i silenzi, la musica, il conforto dell’amore, l’amicizia, le prime voglie sessuali, le percezioni di sé, gli inganni, i compagni di scuola, i genitori, i fratelli. Si vivono i dolori e i piaceri. Si vive finanche la percezione del solo respiro, si vive il mal di pancia, la pioggia sulla testa. Si vivono finanche i sogni e le piccole carezze sui capelli.

Sono queste cose la vita.

          Quante cose si vivono senza che ce ne accorgiamo! Ma l’anima sì. Per l’anima queste cose del mondo apparentemente volatili sono conoscenze che lì, nell’esistenza primaria dell’anima non potrebbe mai conoscere se non vivesse il corpo. L’anima oscilla tra il Sé come sostanza divina, e il Sé che guarda il mondo delle cose materiali fatte di una sostanza, appunto la materia, che è cosa diversa dal suo essere cosa divina.

         In questo incontro tra Sé-anima e il mondo-altro, si realizza l’esistenza di ciascuno di noi, misurata al di fuori di ogni tempo, come è giusto che sia ciò che da un lato vorremmo eterno e dall’altro conformato ai nostri bisogni temporali e umani.

        E’ un incontro che costringe l’anima e la mente a indossare maschere: l’anima per potersi adeguare al corpo, la mente per poter essere accettata dalla società. La maschera domina tutto. Ma “maschera” in greco vuol dire tragedia. E perciò noi corpo e noi anima ci viviamo continuamente la falsificazione di un incontro che, senza le maschere, non potrebbe avvenire. E ciò produce drammi e sofferenze.

         Noi soffriamo ogni perdita perché essa è una ferita inferta alle maschere che ci impediscono di scorgere l’altra verità nascosta: non solo quella del divino, ma anche quella della propria natura autentica e, con essa, la propria eternità.

         Però se avessimo la coscienza profonda di tutto ciò, se potessimo disporre di questa sapenzialità soffriremmo enormemente di meno e ci adegueremmo alla volontà dello spirito con ben diverso abbandono e con ben altra comprensione. Ma forse senza il dramma e la messa in scena della morte, non vi sarebbe vita, perché se non c’è dramma quasi mai si cerca una qualche verità che lo plachi.

         Perché? E’ un filosofo materialista, Nietzsche, che ci dà la risposta.

        Ha scritto Nietzsche:

        “In verità, vi dico: un uomo deve avere il caos dentro di sé per poter generare una stella danzante. Non il motivo e lo scopo della tua azione la rendono buona, bensì il fatto che nell’azione la tua anima trema e luccica”.

           Se accettiamo questa logica essa diventa un modo nuovo non solo per cominciare a svelare il mistero, ma per riprendere il discorso col Padre sconosciuto, ed a capire perché si è così nascosto da diventare umanamente invisibile. C’è in Meister Eckhart, il grande mistico e filosofo tedesco vissuto intorno al 1260, l’eguale stupefazione che prende ancora noi quando meditiamo su tutto ciò.

               Eckhart così tradusse il testo evangelico “Surrexit autem Saulus de terra apertisque oculis nihil videbat”: Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla e questo nulla era Dio”. Che significa tutto ciò. Ce lo spiega lo stesso Eckhart con straordinaria intuizione mistica: “Poiché…la natura di Dio è quella di non essere simile ad alcuno, noi dobbiamo necessariamente giungere al punto di essere niente, per poter esser trasportati in quello stesso essere che Egli è”.

            Svuotarsi della mente e del corpo, abolire lo spazio e il tempo, congiungere la visione con l’azione e, dice Eckhart, “stare all’esterno come all’interno, abbracciare ed essere abbracciati, contemplare ed essere la stessa cosa contemplata, tenere ed essere tenuti in quel silenzio e in quella sospensione della coscienza umana dove Dio e creatura si possono incontrare e diventare la stessa cosa.”

In questa chiave di lettura ha ragione Teillard De Chardin quando dice che “noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”.

 

Edda CattaniLa morte giovane
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Natuzza Evolo

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NATUZZA EVOLO : una mistica dei nostri giorni

 

 

Avviata la causa di beatificazione della Mistica Natuzza Evolo.

        A Natuzza Evolo

  Riceviamo da  Domenico Caruso da S. Martino di Taurianova (Reggio Cal.)

  Volgi su noi lo sguardo, mamma cara,

che pur vermi di terra ci sentiamo,

la vita è sempre un’esperienza amara

se nel Signore non ci confidiamo.

  Serva di Dio tu sei e fonte chiara

di bene, di preghiera, di richiamo:

Natuzza, ora dal Cielo ci aspettiamo

la grazia della pace così rara.

  Felice con la Vergine Maria

e con Gesù da te sofferto e amato

or ti vediamo in sì beato loco.

 

 Mostra a noi tutti la diritta via

che ci preservi da grave peccato

e il cor c’infiammi del divino fuoco.

                       

La mistica calabrese Natuzza Evolo, morta in concetto di santità il primo novembre 2009, era particolarmente legata agli spiriti celesti. Anzi riguardo a  tutto il suo apostolato esterno di soccorso alle tantissime persone che si rivolgevano a lei per consigli ed aiuto, si può certamente dire che esso si basava soprattutto sul dono di Dio di poter vedere costantemente oltre il proprio angelo custode anche gli spiriti celesti di coloro che si rivolgevano a lei, Natuzza ha sempre affermato che la profondità delle sue risposte e dei suoi consigli provenivano non dalle proprie capacità ma dall’essere in contatto con gli angeli di Dio. La signora Luciana Paparatti di Rosarno dichiara: “Tempo fa mio zio Livio, il farmacista, stava facendo una cura contro il colesterolo. Un giorno, andando da Natuzza, portai con me zia Pina, la moglie di zio Livio. Quando fummo ricevute, la zia le disse: “Sono venuta per mio marito, vorrei sapere …

… se le medicine sono giuste, se ci siamo affidati ad un buon medico…”. Natuzza la interruppe, dicendo: “Signora, ve ne state preoccupando troppo. C’è solo un po’ di colesterolo!”. Mia zia diventò tutta rossa e Natuzza, come per scusarsi, le disse: “L’angioletto me lo sta dicendo!”. La zia non le aveva parlato di colesterolo, aveva solo chiesto se la terapia era giusta e il medico bravo”.
Il professor Valerio Marinelli, docente universitario di ingegneria, da tutti riconosciuto come il maggior biografo della mistica calabrese dichiara: “In numerosissime occasioni ho personalmente constatato come Natuzza, dopo che le si è posto un quesito, attenda qualche attimo prima di rispondere, fissando spesso lo sguardo non sulla persona che le parla, ma su un punto vicino ad essa, ma soprattutto ho riscontrato come davvero ella è capace di dare immediatamente risposte illuminanti su questioni complesse e difficili sulle quali chi la interoga spesso non sa nulla, ed alle quali sarebbe arduo rispondere anche dopo lunghe riflessioni. Natuzza centra immeditamanet il problema e ne suggerisce la soluzione, quando vi è una soluzione; moltissime volte ho potuto poi verificare, certe volte non subito ma dopo un intervallo più o meno lungo di tempo, come davvero lei aveva ragione ed aveva risposto ottimamente. Questa velocità di giudizio su problemi di cui lei, obiettivamente, non possiede, dal punto di vista umano, gli elementi di giudizio, l’acutezza, l’intelligenza, la sinteticità e semplicità delle sue risposte, sono, a mio parere,  del tutto eccezionali e superumane, tanto che credo esse possano costituire una valida prova della sua reale capacità di colloquiare con gli angeli, spiriti puri ai quali sempre i Dottori della Chiesa hanno attriobuito intelligenza superiore, potenza e santità”.

 

“Sono rimasto impressionato dalla profonda spiritualità di questa donna. Quello che mi ha sempre attratto in lei è stata la sua semplicità e il suo senso dell’obbedienza all’autorità ecclesiastica. Natuzza non ha mai fatto niente che potesse mettere in difficoltà la Chiesa. (…) I fenomeni che lei avvertiva durante la Settimana Santa sono il segno del dono che Dio stesso le ha fatto. Natuzza, con la sua forza spirituale, è riuscita a comunicare con tutti.” Monsignor Luigi Renzo, Vescovo di Mileto.
Natuzza è una parola di Dio, come lo sono io e come lo siete voi. Però la parola di Dio deve esser saputa leggere; il guaio è che Natuzza spesso non è saputa leggere!…Natuzza è una donna di fede, è una donna di speranza, è una donna di carità. Il Vescovo vi può dire che è una donna intanto molto umile..(Monsignor Domenico Cortese)

Don Marcello Stanzione è l’autore di questi due libri, dell’edizione “Segno” molto facili da leggere, sulla storia di una mistica dei nostri giorni.

Note biografiche:

Marcello STANZIONE è nato a Salerno da una famiglia di operai il 20 marzo 1963, ha frequentato nella sua città il liceo classico “T. Tasso” ed è entrato al seminario maggiore di Napoli dove è stato discepolo del cardinale Agostino Vallini. Ordinato Sacerdote il 14 novembre 1990 è Parroco di Santa Maria La Nova nel Comune di Campagna (SA) dal 1° gennaio 1991. Ha rifondato l’8 maggio 2002 l’Associazione Cattolica (Milizia di San Michele Arcangelo – www.miliziadisanmichelearcangelo.org ) per la retta diffusione della devozione cattolica ai Santi Angeli. Insieme a Carlo Maria Di Pietro ha creato il sito miliziadisanmichelearcangelo.org ed insieme al giornalista Bruno Volpe ha creato il quotidiano cattolico online “Pontifex.Roma” . …

… Scrive sulle riviste: “Il Segno del soprannaturale” di Udine, “Lasalliani oggi in Italia” di Roma, “Il Gesù Nuovo” di Napoli, “Sussidi per la catechesi” di Roma e sul settimanale diocesano di Salerno “Agire”. Nella sua parrocchia ha creato un Centro di Angelologia, dotato di Biblioteca e Centro Documentazione, la Mostra permanente sulla devozione agli Angeli e il Centro di spiritualità “Oasi di San Michele” per campi scuola, ritiri e convegni.

Ogni anno, l’1 ed il 2 giugno, organizza e presiede il Meeting Nazionale di Angelologia.

Ha studiato Teologia alla Pontifica Università Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli,  Dottrina Sociale della Chiesa alla Pontifica Università Lateranense,  Catechetica alla Pontifica Università Salesiana, dove ha avuto come insegnante il cardinale Tarcisio Bertone, Spiritualità al Pontificio Ateneo Teresianum, Grafologia alla LUMSA e al Pontificio Ateneo San Bonaventura. Conferenziere anche all’estero, è spesso invitato a Programmi televisivi e radiofonici e attualmente cura una rubrica  sugli angeli su Radio Mater e su TeleradiopadrePio. Ha scritto:

STANZIONE Marcello, Difendere e diffondere la Fede, Editoriale Agire, Salerno  1995

STANZIONE Marcello, La lezione di Giuseppe Lazzati. Un laico al servizio del regno di Dio, Editoriale Agire, Salerno 1993

STANZIONE Marcello, Preghiere di guarigione psico-fisica e di liberazione, Tipografia Ebolitana, Eboli (SA) 1999

STANZIONE Marcello, Preghiere all’Arcangelo San Michele, Edizioni Il Melograno, Salerno 2005

STANZIONE Marcello, Preghiere dei cristiani ai Santi Angeli di Dio, Tipografia Ebolitana, Eboli (SA) 1998

Un Sacerdote della Chiesa Cattolica (STANZIONE Marcello), Preghiere con gli Angeli, Edizioni Shalom, Ancona 2000

STANZIONE Marcello, Gli Angeli nostri amici, Edizioni Paoline, Milano 2001. (Tradotta in Portoghese e Polacco)

STANZIONE Marcello, La Via Angelica. Itinerario verso Dio in compagnia dei Santi Angeli, Edizioni Gribaudi, Milano 2004. (Tradotta in francese dalle Édictions Bénédictines)

STANZIONE Marcello, Preghiere di guarigione psico-fisica e di liberazione, (2ª Edizione), Edizioni Il Melograno, Salerno 2005

STANZIONE Marcello, 365 giorni con gli Angeli, Edizioni Gribaudi, Milano 2006

STANZIONE Marcello, (a cura di), L’Arcangelo San Michele, l’Archistratega di Dio, Edizioni Segno, Udine 2006

STANZIONE Marcello, (a cura di), Il ritorno degli Angeli oggi: tra devozione e mistificazione, Edizioni Segno, Udine 2007

STANZIONE Marcello, (a cura di), Gli Angeli dei Mistici, Edizioni Segno, Udine 2007

STANZIONE Marcello, 365 giorni con San Michele Arcangelo, Edizioni Segno, Udine 2007

STANZIONE Marcello, Occultismo: Una sfida per il cristiano, Edizioni Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR) 2007

STANZIONE Marcello, San Pio da Pietrelcina e l’Arcangelo San Michele, Edizioni Gribaudi, Milano 2007

STANZIONE Marcello, Pregare con gli Angeli buoni, Edizioni Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR) 2007

STANZIONE Marcello, 365 giorni con San Raffaele Arcangelo, Edizioni Segno, Udine 2008

STANZIONE Marcello, 365 giorni con San Gabriele Arcangelo, Edizioni Segno, Udine 2008

STANZIONE Marcello, Un Anno con gli Angeli, Edizioni Segno, Udine, 2008

STANZIONE Marcello, (a cura di), L’Arcangelo Raffaele: Celeste farmaco di Dio, Edizioni Segno, Udine 2008

STANZIONE Marcello, Gli Angeli e Santa Faustina Kowalska, Gribaudi, Milano 2008

STANZIONE Marcello, Gli Angeli di San Pio da Pietrelcina, Edizioni Segno, Udine 2008

STANZIONE Marcello, Un Mese con gli Angeli, Edizioni Segno, Udine 2008

STANZIONE Marcello, Un mese con San Michele Arcangelo, Edizioni Segno, Udine 2009

STANZIONE Marcello, (a cura di) Gli Angeli, i militari e le forze dell’ordine, Edizioni Segno, Udine 2009

STANZIONE Marcello, 365 giorni con i tre Arcangeli: Michele,  Gabriele e Raffaele. Edizioni Segno, Udine 2009

STANZIONE Marcello, San Paolo il mistico degli angeli, Gribaudi, Milano 2009

STANZIONE Marcello, La regina degli Angeli, Edizioni Villadiseriane, Bergamo, 2009

STANZIONE Marcello, Come difendersi dal demonio, Edizioni Villadiseriane, Bergamo, 2009

STANZIONE Marcello, 365 giorni in compagnia del Curato d’ars, Gribaudi, Milano 2009

STANZIONE Marcello, Il Satanismo, Gribaudi, Milano 2010

STANZIONE Marcello, (a cura di) Gli Angeli dei presbiteri, Edizioni Segno, Udine 2010

 

Edda CattaniNatuzza Evolo
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