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Il suono del mare

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IL SUONO DEL  MARE

( L’ acquario di Cattolica)

Ogni anno raggiungiamo il nostro albergo Centro Congressi che é vicino all’Acquario di Cattolica!

Il mare è da sempre il principale protagonista all’Acquario di Cattolica e non poteva certo mancare un aspetto molto importante legato alla conoscenza del mondo marino attraverso “le case” di alcune specie marine. Molte persone sono attratte dalle forme e dai colori delle conchiglie, alcuni le collezionano, ma pochi conoscono l’aspetto degli esseri viventi che le “costruiscono” e che vivono al loro interno.

In fondo le conchiglie non sono altro che costruzioni di carbonato di calcio che proteggono alcune specie marine di invertebrati, diventando guscio al momento della difesa o sostegno alcune di loro. Hanno forme e colori diversissimi a seconda delle specie che li producono e dei mari in cui si trovano.

L’Acquario di Cattolica ha voluto rendere omaggio a queste speciali conchiglie dedicando loro una area  nel percorso “I suoni del mare”, realizzata in  collaborazione con la S.I.M. (Società Italiana di Malacologia),l’ Acquario Civico di Milano (il cui direttore, Dott. Mauro Mariani è anche Vice Presidente della S.I.M.) e con il prezioso supporto di 3 esperti e appassionati di questa scienza: Alberto Cecalupo, Angelo Baraggia e Gianpietro Gariani.

I tre ricercatori nel giro di pochi giorni hanno allestito nel percorso dedicato ai “Suoni, del Mare” (uno dei 4 percorsi dell’ Acquario, un’ interessante e curiosa area espositiva ricca di oltre 500 esemplari provenienti dai mari tropicali e dal Mediterraneo, dai piccolissimi esemplari di pochi cm. a una delle più curiose, considerata tra le più grandi del mondo, la Charonia tritonis del Madagascar che arriva a misurare circa 50 cm.

Tutta la nuova collezione esposta in teche con pannelli fotografici che ne descrivono la provenienza e l’origine è visitabile in orari compatibili e il parco è aperto fino a notte.

Ben arrivati a Cattolica!

 

 

 

Edda CattaniIl suono del mare
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A fine estate Cattolica

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E si ritorna a Cattolica, come ogni anno!

 

Il programma di Cattolica

 

 

Ecco, cari amici, che avete vissuto storie simili alla mia e voi che da anni fate parte  del Movimento della Speranza, vi presento il nostro programma del Convegno di Cattolica.  Lo trovate in alto, nella pagina CONVEGNI, nella HOME di questo sito. Approntarlo é stato un lavoro lungo e impegnativo in cui l’amica Paola Giovetti ha avuto un ruolo prezioso. Ora il guardare all’alternarsi di tanti relatori e presenze può far pensare ad un grande involucro in cui resterà poco spazio per gli interventi individuali e per le richieste dei singoli. Chi giunge a Cattolica, infatti, è desideroso non solo di apprendere i contenuti delle discipline che ci affascinano, ma di dare risposta agli innumerevoli “perché “ sull’esistenza e sulla morte. Cattolica è spesso meta di disperati, distrutti da un lutto recente, annebbiati da una visione della vita e di un Dio che sembra volerci togliere le persone a noi più care. Questi sentimenti li abbiamo provati tutti, ma se col tempo il dolore non è scomparso, molti di noi hanno accettato un disegno imperscrutabile a cui daremo risposta solo quando saremo liberi dai lacci che avvolgono la nostra materialità terrena.  Il senso della sofferenza non può essere spiegato, ma solo “trovato” cioè vissuto dall’interno ed un aspetto importante della condizione umana è proprio quello di ritrovarsi con altri che hanno vissuto la nostra stessa esperienza per cominciare a pensare, non solo emotivamente.

Movimento della Speranza: comunione e comunicazione.

 

Sperare vuol dire attendere il momento che , opportunamente, arriverà per ciascuno di noi. Sarà un segno di modeste dimensioni, che altri non noteranno, ma che per noi sarà denso di quel contenuto noto a noi soli e che ci abbaglierà come Paolo sulla strada di Damasco. Prepariamoci a questo evento, durante l’estate, e arriviamo a Cattolica non come gente che soffre di una malattia inguaribile, ma con lo spirito che si ritrova nella “Salvifici doloris” di Giovanni Paolo II° del 1984. Arriviamo per volere essere riscattati, con la spiritualità di chi non vuole vivere un  dolore alienante, ma nella prospettiva della salvezza e della risurrezione. Ricordiamo anche che la “comunicazione” con i nostri Cari esige “rispetto” verso coloro che potranno avvicinarci ad essa e verso i fratelli che , come noi, attendono una stilla di acqua benefica. Pensiamo ai nostri amati Figli che non conoscono più invidie, prevaricazioni, miserie e meschinità e chiediamo a loro stessi di venire a noi illuminandoci della loro Luce, abbracciandoci dell’aura benefica che li avvolge, facendosi riconoscere per la loro vicinanza.  Chiediamolo… e attendiamo … con carità e rispetto … per tutti.

 

 

           “Venite a me voi che siete affaticati e stanchi…”

 

Il senso della sofferenza va “trovato” e capito “dall’interno. Cristo ha fatto questo: egli che avrebbe potuto predicare, narrare il dolore e la morte, ha “raccontato” la sua stessa vita. Prima di lui dolore e morte erano segno di un limite, di imperfezione e bagaglio umano creaturale. Con Lui abbiamo la certezza di essere compresi nella nostra angoscia, nello smarrimento, nello sconforto e nella tristezza. Lui le ha provate tutte, come noi, come un qualsiasi uomo, come una qualsiasi madre: l’abbandono, l’incomprensione, la derisione, la nudità. Noi madri, scarnificate, derelitte, offese, abbruttite potremo tornare a vivere e a sorridere perché la vicinanza “dell’uomo dei dolori” ci aiuterà a rivedere tutta la nostra vita, a comprendere la sofferenza degli altri, a dare la giusta importanza alla relatività delle cose. In questa condizione potremo avvicinarci a Cattolica con maggiore serenità e, siatene certi, saremo ascoltati. L’atteggiamento di chi spera è autenticità che richiama un dono ineffabile divino: quello della “provvidenza” che diviene carisma, luce e conforto.

Edda CattaniA fine estate Cattolica
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Il tempo della memoria:occasione di vita

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Il tempo della memoria come occasione di vita

(Relazione di Edda Cattani)  – Cattolica 2010

 

Non ho mai dimenticato quel benevolo abbraccio, la mano sulla spalla di un gentile amico, nel momento in cui lasciavo la chiesa dopo le esequie di Andrea: “… vedrai poi che il tempo… diventerà memoria…”

 

Il tempo? La memoria? Se vogliamo considerare la vita nel suo divenire e come essa si svolge ci si rende conto che il tempo la rappresenta nel suo aspetto più sostanziale. Infatti, la nostra quotidianità non è il passare da un minuto ad un altro, un poco alla volta, ma è il passato che condiziona il nostro presente e intacca il nostro futuro.

 

In questi quindici anni di momenti lievi, pesanti e dolci, nulla è servito a far diventare memoria quello che è stato ed è, il mio eterno presente. Andrea se n’è andato e con lui la vita si è trasformata in attesa, perché poi tutto è stato accettabile; non mi sono più stupita degli accadimenti inaspettati, delle brusche svolte, delle stranezze quotidiane, dell’incombente senilità. Ho atteso tutto e nulla mi è mancato, o meglio non mi è stato risparmiato nulla. La durata del passato è stato l'incessante persistere del passato nel presente che, condizionando l’avvenire, si accresce anziché diminuire. E poiché ingrandisce continuamente, il passato si conserva indefinitamente.

Certo noi pensiamo solo con una piccola parte del nostro passato, magari riferendoci ad un momento di forte gioia (nascita di Andrea) o di dolore indefinibile (la sua dipartita); ma desideriamo, vogliamo, agiamo con tutto il nostro passato, comprese le nostre tendenze congenite. Il nostro passato ci si rivela, dunque, nella sua interezza, con la pressione che esercita su di noi e sotto forma di tendenza, benché solo una piccola parte di esso si converta in rappresentazione chiara e distinta.

Esso ci segue, tutt'intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori. La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell'incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l'azione che si prepara, compiere un lavoro utile.

 Ma il passato è integro, pronto a balzare in avanti per assorbirci e condizionare la nostra coscienza. Siamo noi a voler rimuovere le cose che vorremmo non ci appartenessero e ricacciarle nell'incosciente quando non ci servano per illuminare il nostro presente o agevolare l'azione che stiamo preparando.

Ogni nostro stato di coscienza, considerato come un momento di una storia in via di svolgimento, è semplice e particolare, ma non può essere già stato percepito, perché è il concentrato di tutto ciò che è stato più quello che il presente vi aggiunge.

Dice Bergson “Sicché è vero che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo; ma bisogna aggiungere che siamo, in certo modo, quali ci facciamo e che ci creiamo continuamente da noi stessi.”

Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell'incosciente ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza. Ma, se anche non ne avessimo chiara coscienza, sentiremmo vagamente che il passato è sempre presente in noi. Che cosa siamo, infatti, che cos'è il nostro carattere se non la sintesi della storia da noi vissuta sin dalla nascita, prima anzi di essa, giacché portiamo con noi disposizioni prenatali?

La memoria poi non è, come comunemente s’intende, raccogliere ricordi in un cassetto o scrivere in un diario eventi particolari. Non c'è registro, non c'è cassetto, non è perciò una "facoltà" da usare o meno, perché le cose del passato si accumulano senza un attimo di sosta. E’ proprio il passato che sa conservare se stesso, automaticamente. Tutti gli accadimenti in cui siamo stati coinvolti ci inseguono e influenzano la nostra vita; dall’infanzia abbiamo conservato tutto quello che abbiamo sentito, pensato, voluto…  

La memoria è quindi uno “strumento”, comunque una grande conservatrice e ripesca in quelli che definiamo “cassetti” gli oggetti più preziosi: le grandi gioie e i grandi dolori. Sono soprattutto questi ultimi che riaffiorano in tutta la loro crudezza; sono sfrondati dei particolari insignificanti, dei corollari comuni, ma densi di note individuali… sono quelli destinati a non finire mai e costituiscono la storia di ciascuno di noi.

 

 

L’uomo nasce come essere sociale e tutti i mezzi  di comunicazione di massa lo portano a interagire e a dare di sé la parte più congrua alla situazione da affrontare; ma viene il tempo in cui si è fatto il pieno e quello che si ha, nel bene e nel male, basta per meditare in tutto il tempo che resta da percorrere. Una vita è veramente un soffio quando la si guarda vicino alla linea d’arrivo e la memoria del vissuto è un piccolo lasso di tempo.   ( v. la mia condizione attuale)

La nostra personalità, pertanto, germoglia, cresce, matura continuamente. Ciascuno dei suoi momenti è qualcosa di nuovo che si aggiunge a ciò che c'era prima. Anzi, non è solo qualcosa di nuovo: è qualcosa d'imprevedibile. Senza dubbio il mio stato psichico attuale si spiega con ciò che già c'era in me e agiva su di me: analizzandolo, non troverò in esso altri elementi. Ma nemmeno un'intelligenza sovrumana avrebbe potuto prevedere la forma semplice e indivisibile, che dà a tali elementi, affatto astratti, la loro organizzazione concreta: giacché prevedere significa proiettare nel futuro ciò che si è percepito in passato oppure raccogliere in un composto nuovo diversamente ordinato, elementi già noti. Ma ciò che non è mai stato percepito e che è, insieme, semplice, è necessariamente imprevedibile. Tale è, precisamente, ogni nostro stato di coscienza, considerato come un momento di una storia in via di svolgimento: è semplice, e non può essere già stato percepito, giacché concentra nella sua unità indivisibile tutto ciò che è già stato percepito più di quello che il presente vi aggiunge. E’ un momento originale di una storia non meno originale.

Sicché è vero che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo; ma bisogna aggiungere che siamo, in certo modo, quali ci facciamo e che ci creiamo continuamente da noi stessi.

 La memoria ingigantisce dunque e, con l’età, si perde la capacità di contenerla; perciò si cerca di sintetizzare sempre di più, ritrovandoci con l’essenziale… è il racconto di una vita.

 

Ho abbandonato nel mio cammino, lungo e faticoso, tutte le cose che contavano meno e ho lasciato brandelli di cuore in ogni dove, chiedendo a Dio di conservarmi a lungo la capacità di immagazzinare, scremare e comprendere gli altri. Poi mi sono guardata intorno ed ho visto che chi mi aveva sorretta in tutto questo tempo e aveva avuto una parte determinante nella mia formazione e nell’accettazione del dolore si era perso per strada, la nostra comune strada, e non aveva più la memoria delle cose.

Come un bambino, il compagno della mia vita si era eclissato e non dava più risposte coerenti, non era più in grado di raggiungermi e condividere i miei pensieri… si può morire in tanti modi! La mia vita è ora fatta di silenzi… e di contatti …

 

Penso ai tanti miei progetti, ai traguardi raggiunti, alle imprese svolte e tutto è in quel cassetto di cui rimarrà solo polvere, piccole cose per la vita degli altri, pillole di saggezza. Mi rimane il contatto, con una dimensione che prima o poi raggiungerò dove mi stanno aspettando tante persone care, primi fra tutti i miei figli che non hanno mai mancato di incoraggiarmi.

 

Perciò a chi sta arrivando in questo percorso di fede e di conoscenza dico con tutto il cuore di avere quella speranza che è necessaria non solo per sopravvivere, ma per vivere bene. Apparentemente veniamo abbandonati, un poco alla volta e anche di noi non resterà memoria, ma qualcosa di eterno esiste da sempre e per sempre e a riesumarlo sarà solo Dio.

 

Il tempo è un dono che la vita ci fa. Lo è anche quando sembra non esserlo, quando stanchi affrontiamo il domani. Ed ogni anno che passa, ogni compleanno, è una tappa importante, un traguardo, una sorte di resa dei conti. Più gli anni passano e più i conti sballano anche se non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo.


Io non vi auguro un compleanno dove tirare le somme, ma un giorno speciale dove scrivere un nuovo sogno, senza badare ai conti, incosciente ma consapevole che tutto può accadere. E che la tua vita possa essere sempre intensa ed emozionante come un brivido che toglie il respiro per farci respirare più forte.

 

In questa condizione potremo avvicinarci a questi convegni, qui a Cattolica con maggiore serenità e, siatene certi, saremo cresciuti. L’atteggiamento di chi spera è autenticità che richiama un dono ineffabile divino: quello della “provvidenza” che diviene carisma, luce e conforto.

 

 

La speranza e la comunicazione.

Sperare vuol dire attendere il tempo nel momento che , opportunamente, arriverà per ciascuno di noi. Sarà un segno di modeste dimensioni, che altri non noteranno, ma che per noi sarà denso di quel contenuto noto a noi soli e che ci abbaglierà come Paolo sulla strada di Damasco. Prepariamoci a questo evento, e torneremo da Cattolica non come gente che soffre di una malattia inguaribile, ma con lo spirito che si ritrova nella “Salvifici doloris” di Giovanni Paolo II° del 1984.

 

Siamo arrivati per volere essere riscattati dal nostro tempo impiegato a piangere, ma vogliamo ritornare con la spiritualità di chi non vuole vivere per sempre un  dolore alienante, nella prospettiva della salvezza e della risurrezione.

 

Ci incontriamo qui a Cattolica, con gli amici di tanti anni e nuovi arrivati. Io non so se manterrò l’organizzazione  e  se ci sarò ancora negli anni a venire,… il mio tempo sembra molto limitato ma debbo veramente ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato ad avere la certezza che il mio tempo era ben speso per migliorarmi e migliorare nella via di una nuova redenzione.

 

 

   

 

 

 

 

Edda CattaniIl tempo della memoria:occasione di vita
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L’amore è pellegrino

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Santuari

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Cattolica 2010

 

L’AMORE  E’  PELLEGRINO:  un invito per Cattolica

 

“L’amore è pellegrino”: un titolo stimolante per una relazione  che ho tenuto e offerto a tutti gli amici del Movimento della Speranza, riuniti a Cattolica, nel bel mezzo dell’Anno Santo 2000. Chi ha avuto la ventura di leggere il programma e l’invito di quest’anno, presente in questo sito, avrà capito che il ritrovarsi a settembre ha un po’ lo spirito del pellegrinaggio.

 

Sento viva l’esigenza di parlare a tutti voi, in questi giorni di chiusura dei nostri incontri di associazione. So già che molti hanno in previsione di far visita ad un santuario durante l’estate. Io stessa ho sentito parlare di tanti gruppi di giovani che, con lo zaino sulle spalle e il sacco a pelo avvolto, si recheranno al tradizionale incontro a Santiago di Compostela.

 

Come ricordo l’anno Santo e le file dei ragazzi che si recarono all’incontro con il Papa, percorrendo la  Via Romea, quella  che, un tempo, veniva definita, come tante altre, la “strada dei romei” (i pellegrini che raggiungevano la città santa).

 

Mentre stiamo ultimando la spedizione dei programmi, mi sono sentita un po’ “romea” anch’io ed ho pensato che fossero, come me, pellegrine d’amore, tutte le madri che vanno alla ricerca di un segno del loro Figlio perduto. Ho approntato per questo il file-video sui Santuari per far vedere come ognuno abbia un proprio Santuario ove recarsi, come il mio è quello che vedrete nelle ultime DIA di questo inserto.

 

 

 

 

 

 

 

     Ma ritorniamo alle nostre considerazioni: il pellegrinaggio è uno dei grandi segni giubilari, teso a sottolineare il fatto che ‘l’uomo appare nella sua storia secola­re come homo viator, un viandante assetato di nuovi orizzonti, affamato di pace e di giustizia, indagatore di verità, desideroso di amore, aperto all’assoluto e all’infinito’ (così recita la nota n.24 del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, a proposito del pellegrinaggio del Grande Giubileo del 2000).

 

Perché mai, allora, tutti noi, anche quest’anno, non sentirci  “pellegrini”?  Come le storie di grande suggestione, vissute e poi raccontate con freschezza e vivacità dai giovani che si ritrovarono a Roma nella spianata di Tor Vergata, possono diventare espressione di au­tentico amore a Dio e ai fratelli, così, anche noi abbiamo  bisogno di raccontare, di parlarci di meravigliosi eventi, di ringraziare Dio che, ancora una volta, ha voluto farci un dono straordinario che risponde al mio “timido invito”, a compiere quell’atto di amore, generatore d’amore che è il nostro pellegrinaggio a Cattolica.

 

Cattolica dunque un santuario? Cattolica luogo delle apparizioni? Ebbene sì e mi si perdoni la presunzione di volere dichiarare che a Cattolica si incontrano le immagini più sconvolgenti della sofferenza, dichiarata e non, della riconoscenza a Dio per averci soccorso, della fratellanza nel conforto dei bisognosi, dei derelitti del cuore e dello spirito, degli afflitti dimenticati e lasciati a crogiolarsi in un dolore che solo chi ha potuto provarlo può vi si può riconoscere.

 

Cattolica dunque, voluta da chi ci è passato e ha ritrovato un motivo per rigenerarsi, per rinnovare la Fede in Dio, per praticare la virtù della Speranza che, come dice il Manzoni “conforta e consola”.

 

«Voglio cercare l’amato del mio cuore!» Con queste e simi­li parole, la sposa del Cantico dei Cantici (3,2) esprime tutta l’ansia dell’anima in cerca di Dio. Così, almeno, le intendono alcuni antichi e moderni commentatori della Bibbia.

 

Chi ama desidera sopra ogni cosa stare con la persona amata, e quando ne è lontano si mette sulle sue tracce, cerca tutto ciò che la ricorda. Così è di ogni persona di fede nei con­fronti di Dio, come aveva ben compreso Sant’Agostino, se è arrivato a scrivere: «Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

 

 

      

 

 

  Ricordo con velata malinconia, i momenti felici del parto… quegli attimi indimenticabili nei quali un medico o un’infermiera, dopo i momenti del dolore, levò in alto la mia creatura tenendola per i piedini dicendomi: “Ecco, questo è suo figlio! E’ bello e sano!” In quel momento guardai  con stupore e meraviglia l’opera sublime della creazione divina nella mia carne e, umilmente, ringraziai Dio per avermi resa partecipe di un disegno tanto importante. A chi mi chiedeva, anche dopo vari anni,  quale fosse stato il momento più bello della mia vita, indicavo quello, in assoluto.

 

Nei giorni scorsi il giardiniere ha tagliato la pianta, ormai grande albero, che il mio Andrea, piccolo fanciullo, aveva messo a dimora e visto crescere. Qualche mese fa un fulmine l’aveva colpita, bruciandone gran parte e destinandola all’abbattimento. Ho pensato che anche questa ultima immagine se ne andava con il tempo felice del mio ragazzo.

 

Nel corso turbinoso degli eventi accade, può accadere, infatti di essere colpiti da un fulmine a ciel sereno e di ritrovarsi all’improvviso, senza quell’essere tanto amato e ricevuto in comunione con Dio e di avere poi, forse, travolti dagli eventi, rinnegato Dio stesso, accusandolo di non averci protetti. Eppure niente, lo dicono anche le leggi della fisica, nulla può andare perduto. Qualcosa doveva riportarmi a quel Dio a cui ho indirizzato i miei “perché” rimasti senza risposta; il solo che poteva soccorrermi  nella vicenda tragica della mia storia personale.

 

Nel corso dei secoli, l’inquieta ricerca di Dio si è tradotta tante volte nell’andare là dove, in qualche modo, Dio appari­va meglio percepibile: vale a dire, la ricerca è diventata pelle­grinaggio a un santuario. Qui, un’apparizione, un’antica tra­dizione, una reliquia, insomma qualche segno di Gesù, o di sua Madre, o dei santi suoi amici, può parlare al cuore. E al­lora, come per chi sale sui monti alla ricerca dell’aria più fine, nel santuario per un poco si placa il segreto bisogno dell’ani­ma, che può respirare liberamente e ristorarsi, prima di ri­prendere il cammino della vita.  

 

 

 

Cattolica rappresenta  tutto questo. Arriveremo da tante parti d’Italia perché ci è stato detto che avremmo trovato conforto.  Si arriva così, a Cattolica, la prima volta e ci si butta nelle braccia del primo fratello che ci dice: “Tuo figlio è qui!” “Ma dove?”, diciamo noi.

 

E’ qui, madre, vicino a te. Non lo vedi… allora ti hanno illuso, sono tutte frottole, elucubrazioni del cervello, fantasie dell’inconscio? Fai un atto di Fede autentica; occorre solo questo: tuo figlio è qui con te, come lo è Dio stesso. E’ qui presente sopra di te, è nell’aria che respiri, è nelle cose che ti dice di fare, è, con tanti altri, in attesa che tu lo raggiunga in quella dimensione in cui, liberi da lacci potrai vedere e conoscere la ragione delle cose.

 

Non te l’hanno detto in Parrocchia, non ti è stato vicino un sacerdote? Non sa che cosa si è perduto. Tu, madre di un figlio travolto innanzi tempo, avresti potuto raccontargliene tante e se non ti ha ascoltato, non sa cosa si è perso!

 

E allora iniziamo insieme questo pellegrinaggio, un pellegrinaggio, dunque, come segno del nostro amore per Dio. Con sorpresa la riflessione che stiamo facendo favorisce la scoperta che quell’atto d’amore è solo una risposta, perché chi ha preso l’iniziativa in realtà è stato il Signore, “ospite e pellegrino in mezzo a noi” come lo chiama la litur­gia. Egli ha preso l’iniziativa di venire alla ricerca dell’uomo, mettendogli in cuore il desiderio profondo di incontrarlo.

 

«Tu ci hai fatti per te…».

 

Il pellegrinaggio, allora, come risposta d’amore all’amore di Dio per noi. Dobbiamo farlo per noi stessi e dobbiamo farlo perché ce lo chiedono i nostri figli. Il loro è un messaggio e un invito alla fede autentica e alla speranza vissuta come testimonianza.

 

 Ma il cerchio non si esaurisce qui: simile al sasso nello stagno, l’amore si espande in cerchi via via più larghi. Eccolo allora, l’amore come motivazione di chi favori­sce il pellegrinaggio, lo rende possibile e fruttuoso: basti pen­sare a quanti un tempo offrivano gratuita ospitalità ai vian­danti, a quanti anche oggi assistono i malati di Lourdes o pre­stano accoglienza, in tante forme diverse, presso ogni santua­rio.

 

Questo siamo tutti noi e in questo si identifica il nostro Movimento. Siamo noi che ci premuriamo di soccorrere i genitori afflitti, colti all’improvviso da un evento ineluttabile. Siamo noi che andiamo a porgere parole di conforto, quando coloro che dovrebbero essere dediti alla pastorale, vengono a mancare. E’ vero che ci affacciamo alle porte con un “messaggino” in mano, ma non lo facciamo per ricavarne benefici, per raccogliere nuovi adepti, per passare per una sorta di “santoni”. Lo facciamo perché abbiamo vissuto sulla nostra pelle la stessa esperienza e sappiamo come ci si sente e quale beneficio si trae da chi sa esserci vicino con umile partecipazione.

 

 Eccolo anche, l’amore, come frutto del pellegrinaggio: tor­nato a casa dopo averlo sperimentato e compreso, il pellegri­no consapevole non può non tradurlo nella vita quotidiana, nella realtà che lo circonda, nel mondo in cui vive, nelle infi­nite diverse situazioni che lo sollecitano.

 

 

Le relazioni che quest’anno offriamo ai partecipanti trat­tano dell’amore provato, dell’evento del dolore in qualche modo legato al camminare per fe­de, al pellegrinaggio. Ma ci sarà motivo anche di guardare oltre, ai nostri tanti progetti delusi e anche alla vita che va avanti, ai nostri piccoli nati, ai grandi eventi.

 

A questo ho pensato ed anche che, quando ci si muove come atto di fede, per supplicare Dio e chiedergli, con nostro figlio, di incontrarlo, si rende possibile proprio a tutti, compiere quell’atto d’amo­re, generatore d’amore, che è il pellegrinaggio: un atto, in cui tutte le  storie delle madri pervenute a Cattolica si manifestano.

 

 Noi occi­dentali concepiamo il pellegrinaggio come il lasciare per bre­ve tempo la vita consueta per recarci, come abbiamo detto, a un santuario, dove “ri­caricarci” spiritualmente per poi, tornati a casa, riprendere la vita di prima con una maggiore fedeltà al Vangelo.

 

Non è così invece per i credenti d’oriente, tra i quali si svi­luppò un tempo l’idea del pellegrinaggio come forma esisten­ziale. In altre parole, c’era chi decideva di fare il pellegrino “a vita”, andando di santuario in santuario fino a quando le for­ze lo consentivano.

 

Oggi, abituati a pellegrinaggi che somigliano più a una vacanza (mezzi di trasporto comodi e veloci, alberghi confor­tevoli, organizzatori e accompagnatori che liberano da ogni preoccupazione, sosta al santuario ma anche visita a bellezze naturali o artistiche), non ci rendiamo conto di com’erano quelli di un tempo.

 

Pensiamo allora a un uomo del Medio Evo, per penitenza deciso a recarsi in un luogo sacro distante anche solo cento chilometri, che oggi si percorrono in un’ora di automobile. Eb­bene: anzitutto quell’uomo faceva testamento, perché non sapeva se sarebbe tornato a casa; partiva infatti, da solo, a piedi, portandosi qual­che soldo, ma confidando soprattutto nella carità del prossi­mo per avere lungo la strada un piatto di minestra e un giaci­glio per la notte, almeno riparato da un portico; soggetto poi ai rischi di briganti e imbroglioni, ai rifiuti spesso sgarbati degli insensibili, alle intemperie, alle malattie…

 

Decisamente, un tempo i pellegrinaggi non erano uno scherzo. Se qualcuno si decideva a compierli e ci risulta che erano in tanti a farlo era proprio per fede. Esporsi poi a questa vita per tutta la vita, era proprio da eroi.

 

Ma perché, quali ragioni anche di fede potevano indurre a farsi perenni pellegrini? Una risposta viene da una bella espressione della liturgia: «Ogni giorno del nostro pellegri­naggio sulla terra è un dono (o Signore) del tuo amore per noi e un pegno della vita immortale».

 

La vita, in altre parole, è un dono di Dio che ci manda nel mondo come pellegrini, cioè come abitanti provvisori, perché la nostra vera patria, stabile e definitiva, non è qui. E’ impor­tante ricordarlo, per comportarci di conseguenza: senza attac­care il cuore  a ciò che presto o tardi dovremo lasciare. Il pellegrinaggio con il suo lasciare sia pure temporaneamente cose e persone care, vuole ricordarci questo; il pellegrinaggio, inteso come forma di vita, pone il distacco dal mondo e l’anelito alla vita eterna come valore primario, come il quadro d’insieme in cui vivere tutti gli altri valori del Vangelo.

 

Ho sentito tante madri dichiarare: “Se non fossi stata colpita da questa sventura non avrei amato tanto l’umanità sofferente” oppure “Quanto ho perduto, ma quanto mi è stato dato!” Tutto questo non è dei santi quelli che sono sugli altari, ma è la santità spicciola, quella del quotidiano, quella che diviene “talento”, quello della parabola, che è ricchezza nelle mani di coloro che lo sanno bene impegnare. Da questo consesso, in questa platea noi gridiamo forte il nostro impegno, lo facciamo in nome dei nostri Figli, i Ragazzi di Luce che ci invitano a farlo, “Impegnati  , essi stessi, nell’impegno!” e … mi si perdoni la  ridondanza.

 

Tutto questo, sia chiaro, non ha nulla a che vedere con chi specula sulla sofferenza, con lo spiritismo di antica maniera che si pratica in luoghi chiusi e misteriosi, con la medianità prezzolata ed esclusivista. Noi madri pellegrine siamo dotate di una generosità smisurata, viviamo nella mortificazione e nella preghiera ed il dono che abbiamo di ricevere le comunicazioni con i nostri figli, non lo teniamo all’ombra di cerchie ammuffite e incancrenite, ma lo gridiamo sui tetti, come dono e riconoscenza a Dio stesso.

 

Il Movimento della Speranza, nel suo vero e autentico spirito, va avanti comunque, malgrado resistenze e delusioni; la sua opera ha già conseguito risultati di portata storica, dentro e fuori la Chiesa, ma, e il Papa lo sa benissimo, se il Duemila era il suo traguardo personale e per la Chiesa solo una tappa, il pellegrinaggio nostro che della chiesa facciamo parte, continua nel tempo, per tutti coloro che si gloriano di essere cristiani.                                                           

                      Arrivederci a Cattolica!!!                                  

 

  (Edda  Cattani)

 

 

 

Edda CattaniL’amore è pellegrino
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