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Sopravvivenza e vita eterna

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 Continua la mia testimonianza di fede e di speranza, nelle Associazioni di tutta Italia.

 

LA SOPRAVVIVENZA DOPO LA MORTE

 

(nei testi biblici)

 

Sopravvivenza dell’anima

 

1 Samuele 28,3-19: L’anima di Samuele, dopo la morte, parlò a Saul. Alcuni affermano che non si tratti di Samuele, ma del demonio che parla a Saul. Ora, il testo dice che è veramente Samuele. Le predizioni di Samuele si sono avverate, segno che non era un demone bugiardo.

Matteo 17,1-18: Mosè ed Elia apparvero a Gesù al momento della Trasfigurazione. E’ vero che, secondo la Bibbia, Elia non morì: egli fu rapito in cielo con il suo corpo (2 Re 2,1-13), Mosè, morì (Deuteronomio 34,5-7). E’ quindi l’anima di Mosè che apparve.

Luca 16,19-31: Le anime d’Abramo, del povero Lazzaro e del ricco malvagio esistono dopo la loro morte.

Luca 23,43: “In verità, ti dico, oggi sarai con me in paradiso”, disse Gesù al ladrone pentito sulla croce.

1 Pietro 3,18-20: L’anima di Gesù, tra la sua morte e la sua resurrezione, ha visitato le anime di coloro che morirono nel passato per annunciare la sua Venuta.

Apocalisse 6,9: Giovanni vede le anime dei martiri.

Resurrezione dei corpi

Matteo 27,52-53: I corpi di alcuni santi resuscitarono dai morti dopo la resurrezione di Gesù.

Luca 20,27-39: Gesù risponde ai sadducei, che non credevano nella resurrezione:

“Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è Dio dei morti ma dei vivi”. Questo testo spiega la sopravvivenza dell’anima e la resurrezione del corpo.

Giovanni 5,28-29: La resurrezione dei morti rivelata da Gesù.

Giovanni 6,54: Gesù disse: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno”.

1 Corinzi 15,12-57: “Come possono dire alcuni tra voi che non esiste la resurrezione dei morti! …etc”. Paolo spiega la resurrezione del corpo e biasima coloro che non ci credono.

Malgrado queste evidenti conferme bibliche sulla sopravvivenza dell’anima e sulla resurrezione del corpo, dopo la morte, alcuni che si dicono credenti, non ci credono. Le loro motivazioni sono un tessuto d’incoerenza.  

La nostra A.C.S.S.S.  

Con questo sito, oltre a rendere noto il nostro percorso, vuole far conoscere a tante Madri, a tutte le persone provate da lutti gravi, che “la morte non è un atto finale e la Vita prosegue” “in cammino verso l’Infinito”, verso cioè una sempre maggiore comprensione della Realtà e dell’Essere, una espansione cosmica di cui sono inimmaginabili vertici raggiungibili.

Edda CattaniSopravvivenza e vita eterna
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Festa della Pentecoste

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La discesa dello Spirito Santo,

ovvero della Profezia sulla Chiesa e sul mondo

Lo stesso giorno in cui la comunità giudaica celebrava il dono della Legge data da Dio a Mosé sul Sinai, in quella cristiana scendeva lo Spirito. Quel che guiderà i suoi passi non sarà più una legge esterna all’uomo, ma lo Spirito, forza di Dio che è intima all’uomo. Da quel momento il credente non sarà più colui che obbedisce a Dio osservando la sua Legge, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.(P.A.Maggi)

A tutti buona Pentecoste!

 


At 2,1-11; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20

Non so quanti sanno che la Pentecoste, chiamata anche “festa delle settimane”, era una festa che gli ebrei celebravano nel bel mezzo del raccolto del frumento e come ringraziamento alla fine del raccolto dell’orzo. In alcuni ambienti giudaici, la Pentecoste (parola che deriva dal greco e significa “cinquantesimo giorno” dopo la festa dei pani azzimi, ovvero la Pasqua) assunse il significato di commemorazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, avvenuta sul monte Sinai cinquanta giorni dopo l’uscita dall’Egitto.
Questo l’ho detto per farvi capire che il cristianesimo non ha eliminato di per sé ogni festa ebraica, ma ha dato ad essa un nuovo contenuto. Pensate alla Pasqua. Cristo ha scelto di morire proprio durante le festività pasquali ebraiche. Ha istituito l’Eucaristia nel mezzo della cena pasquale, seguendo per un verso il rito ebraico ma nello stesso tempo innestandovi la Novità della sua presenza sotto il segno del pane e del vino, raffiguranti il dono della sua vita nella morte che sarebbe avvenuta pochi giorni dopo. Non dico oltre perché entrerei in un mistero che non voglio banalizzare in due parole.
Comunque, una cosa deve risultare chiara. Il cristianesimo è in un certo senso in linea con l’Antico Testamento o, meglio, diciamo che è in linea con la migliore tradizione profetica. Parlare, dunque, della Pentecoste non è possibile senza tener conto di questa tradizione profetica. Già i profeti avevano parlato dello Spirito santo, naturalmente senza avere idee chiare, che saranno poi possibili con la venuta di Cristo. Il bello della profezia, ancora oggi, sta nel suo segreto che si rivela a poco a poco, a mano a mano si offrono le occasioni, e le occasioni bisogna anche favorirle. Se non altro, approfittarne quando si verificano.
I profeti parlavano in nome di Dio, e ci credevano pur ignorando i tempi di realizzazione della profezia che annunciavano e ignorandone addirittura la Novità. Con la venuta di Cristo tutto sarà più chiaro, anche se i più dotti del tempo e il popolino non avevano capito che le profezie si stavano realizzando. Ma neppure i cristiani capiranno in pienezza il messaggio di Cristo. La profezia è così: si realizza e rimane profezia, i suoi tempi non sono limitati, ma duraturi. Anzi, più la profezia è strepitosa, e meno si esaurisce nel tempo. Ho l’impressione che la Chiesa cerchi di bloccare la profezia e di fermarla nel tempo. E così ferma la Storia di Dio. I profeti fanno paura proprio perché annunciano cose che non si realizzano in toto nel tempo presente, così da poterle afferrare e chiudere in uno schema dottrinale. Si realizzano solo in parte; la profezia va oltre il presente, tende e spinge verso il futuro. Il presente per la profezia è dinamico, non statico. Si muove in continuazione in avanti. Progredisce. In meglio. Ecco la Profezia. A differenza della cultura dell’avere che vorrebbe darti più cose, subito, oggi. lludendoti di darti una felicità oltre l’oggi. Le cose si consumano, e consumano il presente, chiudendo la possibilità di un futuro.
Un discorso che mi piacerebbe continuare, ma leggo sul volto di qualcuno l’obiezione: che c’entra tutto questo con la Pentecoste?
Vorrei rispondere: secondo voi chi è lo Spirito santo? A parte il fatto che ancora oggi è uno sconosciuto, riscoperto solo da alcuni Movimenti ecclesiali (pensate al Rinnovamento nello Spirito) ma per farne una giustificazione direi misticoide per il loro estraniarsi da questo mondo. Lo Spirito santo al contrario non solo ci lascia realisti, con i piedi per terra, ma ci fa cogliere il cuore di ogni problema esistenziale, ci permette cioè di vivere intensamente su questa terra, in quanto esseri umani indivisibili. Indivisibili come esseri umani.
Il problema sta nel cogliere e nel vivere l’armonia del nostro io, e di sentirci parte dell’umanità e dell’universo. Uno Spirito che ci divide, da noi stessi e dal Creato e dall’Universo, non è lo Spirito di Dio, o lo Spirito di quel Cristo che si è incarnato proprio per riconciliare, non tanto con Dio (come ci hanno sempre fatto credere), ma con il nostro essere e con l’Universo intero. Il sacramento della riconciliazione, invece che essere ridotto alla Confessione dei peccati individuali, dovrebbe riguardare la fratellanza umana e del creato.
L’errore più grosso sta nel credere che lo Spirito santo divida l’anima dal corpo, per elevare l’anima umiliando il corpo. Così pure, l’errore sta nel credere che lo Spirito ci faccia vivere in un regno separato da questo mondo. Non parliamo poi della nostra totale o quasi indifferenza al fatto che siamo parte dell’Universo. Proprio perché viviamo su questa terra, a contatto con i problemi reali, è preziosa la presenza dello Spirito santo. Siamo bravi nell’usare espressioni come Spirito di libertà, Spirito di verità, Spirito di fratellanza, Spirito di unità ecc., e poi, appena siamo chiamati a dare verità, libertà, fratellanza a questo nostro mondo, allora lo Spirito evapora, si dissolve, svanisce nei nostri sogni ultraterreni.
Pensiamo solo allo Spirito di libertà. Che significa libertà? Anzitutto non c’è libertà senza liberazione. La libertà richiede spazi aperti, sgombri da ogni pregiudizio, da ogni chiusura, da ogni schematizzazione della verità. Liberazione anche dalla paura che blocca il processo di liberazione. Lo Spirito santo – l’ha detto Cristo – non sai da dove viene, dove va, dove cammina, dove si posa: non sopporta alcun freno, alcuna inibizione, non vuole spazi ristretti, calcoli, misure, compromessi.
Belle parole! Sì, belle parole, che leggiamo anche sui libri più cattolici. In realtà noi abbiamo paura dello Spirito Santo. Per questo facciamo finta che non esista o, se ne parliamo, stiamo attenti alla punteggiatura. Ogni tanto sentiamo il bisogno di una nuova Pentecoste. Sogniamo un altro Concilio. E poi? Tutto come prima, peggio di prima. Dopo anni e anni dall’ultimo Concilio che sembrava una grande ventata di freschezza evangelica, ora siamo ancora qui a soffocare in una Chiesa che si è ripreso tutto ciò che lo Spirito aveva spazzato via.

 Dal sito dongiorgio.it

I doni dello Spirito Santo sono regali

che Dio ci fa per affinarci di più a sé.

Troviamo questi doni enumerati nel Libro del profeta Isaia al capitolo 11 dove parlando del Messia che verrà il profeta dice che sarà ricoperto dello Spirito del Signore che è spirito di Sapienza ecc…

È interessante notare che nell’originale ebraico erano nominati solo sei doni, mancava la pietà, quando invece è stata preparata la versione greca chiamata dei 70 (circa un secolo prima di Cristo), essi introdussero anche la pietà perché nella lingua greca il termine timore di Dio non rendeva la pienezza di significati del corrispondente ebraico.

I 7 doni ci sono dati perché nello Spirito Santo portiamo frutti, noi che ora siamo innestati nella vite vera. I frutti dello Spirito santo li conosciamo da Galati 5,22-23.

Nella sequenza allo Spirito Santo diciamo: “Senza il tuo spirito non c’è nulla nell’uomo senza colpa”. Il Signore vuole darci questi doni ma tocca a noi aprirci. Nel Vangelo secondo Giovanni (7,37) è scritto: “Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno. E diceva questo riferendosi allo Spirito Santo”. Abbiamo dunque la certezza di questi doni.

 Il dono della Sapienza

È l’esperienza gioiosa delle realtà soprannaturali. Ci da una conoscenza di Dio che non passa dalla conoscenza delle cose ma dalla condivisione della sua stessa vita. È fondamentale nella vita Cristiana, Risponde alle nostre esigenze di felicità. In Sapienza 8 abbiamo la sposa che offre tutte le gioie dell’intimità con Dio. È la gioia degli Apostoli dopo la Pentecoste. È l’anticipazione del Paradiso.

Sapienza 7,24-27: “Lei penetra in tutte le cose in virtù della sua purezza. È un aura del Dio potente e una pura effusione della gloria dell’Altissimo. Lei può tutto e rinnova tutto mentre lei rimane intatta. Passando in anime sante di ogni età produce amici di Dio e profeti”.

Sapienza 9,10: “Mandami la tua sapienza che sia con me e lavori con me perché io conosca ciò che piace a te”.

Matteo 5,13-16: “Voi siete il sale della terra e la luce del mondo. La vostra luce deve risplendere di fronte agli altri, essi devono vedere le vostre opere buone e rendere gloria al Padre dei cieli”.

La gente si sente attratta dal “Sapiente” perché sa che non è solo conoscenza quella che riceve ma stile di vita, capacità di approfondire le cose, provocazione ai valori veri della vita. Il sapiente capisce l’animo, le attese le speranze di chi gli sta di fronte.

Il sapiente non si allinea alle mode ma sa andare contro corrente e provocare la massa.

Un ragazzo ha visto una ragazza cento volte, ed essa era una delle tante, bruttina e noiosa. Ad un certo punto si innamora di essa e vede tutto in modo diverso, gode di averla vicina, tutto l’affascina in lei, cerca tutti i modi per stare con lei. Questo è l’effetto della fede in noi quando è arricchita dalla sapienza. Da questa nuova esperienza di Dio scaturisce anche un modo nuovo di vedere e valutare la vita e le cose. L’anima vede le cose con gli occhi di Dio e le valuta come le valuta Dio.

Frutto della sapienza è la contemplazione.

 Preghiamo: Donaci, Signore, lo Spirito di Sapienza, per contemplare le meraviglie del tuo amore, per riconoscerti nel creato, nel cosmo, nelle persone, in ogni essere vivente. Concedici di adorarti, come Maria, la Madre di Gesù, in Spirito e Verità. Amen. Alleluia.

 Il dono dell’intelletto

È la risposta al bisogno di conoscenza e verità. Ci fa comprendere in maniera chiara quello che la luce della fede ci fa comprendere in maniera crepuscolare. Nell’ultima cena Gesù dice: “Vi ho detto queste cose ma il Padre vi manderà lo Spirito Santo che vi insegnerà ogni cosa”. È indispensabile nell’Evangelizzazione e nella catechesi, sia per chi parla che per chi ascolta. Fa capire in profondità la Parola di Dio e fa gustare la bellezza delle realtà rivelate.

Salmo 119,104: “Attraverso i tuoi precetti io guadagno l’intelletto per cui odio le vie false”.

Pensate a tutti i dogmi della fede. “Ti ringrazio Padre perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”.

Il dono dell’intelletto coinvolge non solo la mente ma anche il cuore, la volontà, la passione, e persino l’azione.

Per gli antichi Ebrei della Bibbia, sede dell’Intelletto non è il cervello ma il cuore perché la conoscenza che si raggiunge col cuore è più profonda di quella fredda del cervello.

Non è puro calcolo, ma adesione. Intelletto, da intus legere. Chi conosce con l’intelletto non si ferma all’esteriorità e al momento ma sa cogliere le conseguenze delle cose e accettarle. L’intelletto è strettamente legato alla fortezza che gli darà la capacità di portare avanti le scelte.

Altra caratteristica dell’intelletto è quella di saper fare unità tra i diversi aspetti della fede.

Chi vive di intelletto sa che la vita è sempre un misto di vittorie e sconfitte, gioie e dolori. Si arriva a capire il modo di agire di Dio che è diverso dal nostro.

È un dono indispensabile quando si legge la Bibbia. Frutto dell’intelletto è la profezia.

 Preghiamo: Donaci, o Padre, il dono dell’intelletto, per scrutare il tuo Mistero, per essere profeti di verità in questo nostro tempo così difficile. Fa’ che le nostre menti e i nostri cuori si aprano alla conoscenza del tuo amore. Amen. Alleluia. 

 Il dono del Consiglio

Offre un discernimento intuitivo e sicuro nelle scelte che facciamo per conoscere la volontà di Dio. Pensate alla scelta vocazionale. Accresce la virtù della Prudenza. Fa sì che le nostre azioni siano degne di Dio; ci fa agire sempre per la gloria di Dio.

Matteo 6,25-34: “Quando pregate non fate come i pagani… quando digiunate … quando fate l’elemosina …”; “Guardate i Gigli del campo e gli uccelli del cielo”.

Qui si va al di là delle scelte legate solo ai doveri morali. Di per sé non si tratta di scegliere di seguire delle regole, quello è scontato. Non si tratta di scegliere tra un bene e un male, quello è scontato. Si tratta di scelte più impegnative che ci avvicinano a Dio.

Però è anche vero che al giorno d’oggi sorgono molteplici problematiche nuove per le quali non è più sufficiente applicare le regole vecchie alla lettera. Ad esempio tutte le problematiche dell’etica medica e scientifica.

Inoltre oggi è sempre più forte la problematica innalzata dall’incontro della società occidentale sempre più in crisi di valori religiosi e le culture diverse, per cui anche i valori tradizionali sembrano perdere o cambiare significato. Cosa vuol dire libertà, rispetto della vita, famiglia, ecc.? Fino a che punto il pluralismo è valore e non confusione? Dobbiamo ripartire da Babele per arrivare alla Pentecoste dove la diversità delle lingue scaturisce dall’unità dello Spirito.

Naturalmente, fondamento del consiglio è l’esperienza e siccome qui si parla di consiglio come dono di Dio è necessario far esperienza di Dio sia nella preghiera che nella coerenza di vita. Primo dovere di ogni consigliere è pregare.

Frutto del consiglio è soprattutto la riscoperta della propria vocazione e di quella degli altri: il così detto discernimento spirituale.

 Preghiamo: Abbiamo, bisogno, o Padre, del dono del Consiglio: per fare esperienza di te, per aiutare gli altri nel discernimento, per interpretare i fatti della nostra storia, per essere coerenti nella vita. Liberaci dalla confusione, dai pensieri sbagliati, dalle suggestioni del male. Donaci, o Padre, lo Spirito di Consiglio: per confortare, per illuminare, per esortare. Amen. Alleluia.

 Il dono della Fortezza

La Fortezza ci abilita a sopportare fatiche e sofferenze ma anche ad affrontare tentazioni e difficoltà. È lo spirito dei martiri, di coloro che sono ammalati da tempo e offrono queste sofferenze. Solo un amore grande riesce a superare tutte le difficoltà. “Non ci spaventino le prove o i dolori, a chi ama, Dio moltiplica i dolori. È dai dolori più grandi che sorgono le gioie più grandi”. “Vivere, palpitare, morire ai piedi della croce o in cima alla croce”. “Non domandiamo a Cristo che ci liberi dalle croci, sarebbe la nostra rovina, domandiamo che ce le aumenti, e ci dia la capacità di portarle con gioia con lui”.

Siracide 2,1: “Quando vieni a servire il Signore preparati per le prove. Sii retto di cuore e forte, non ti smarrire nel tempo dell’avversità”.

Salmo 46: “Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce”.

Matteo 10,16-33: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi. … Non preoccupatevi di cosa e come dovete dire, vi sarà suggerito in quel momento. Non sarete infatti voi a parlare ma lo Spirito del Padre”.

La troviamo sia tra le virtù cardinali che tra i doni dello Sp. S. Alla virtù si riferisce l’azione decisa della persona, al dono si riferisce la capacità di farsi guidare e plasmare dallo Spirito Santo nonostante le difficoltà. Il dono è quindi la completezza della virtù stessa.

Si ha di fronte il bene, con l’intelletto e il consiglio si sono fatte le scelte, ora si tratta di portarle a termine, di essere fedeli.

Si esprime più nella fedeltà del quotidiano anche se può arrivare alla grandezza del martirio.

È necessaria contro lo scoraggiamento, le tentazioni, l’egoismo, ma è necessaria anche nel cammino spirituale di santificazione, ne sono prova le così dette notti oscure attraverso le quali passarono i grandi mistici.

Frutto della fortezza è la gioia interiore.

 Preghiamo: Donaci, o Padre, lo Spirito di Fortezza, per vincere le suggestioni del male, per essere testimoni coraggiosi del Vangelo in un mondo che cambia e si allontana sempre più da te, dalla Verità, dalla Vita. Donaci la Fortezza, Signore, per non assimilarci alla mentalità di questo secolo, per rigettare ogni messaggio di morte (la vendetta, la guerra, l’eutanasia, l’aborto), per sopportare con fiducia e speranza le nostre sofferenze e infermità, le tribolazioni e le fatiche di ogni giorno. Amen. Alleluia.

 Il dono della Scienza

Dell’intelletto abbiamo detto che ci fa intuire le verità, la scienza ci da la capacità di vedere le cose come le vede Dio. Fa sì che possiamo vedere sempre tutte le creature con gli occhi della fede. Fa percepire con sensibilità viva la presenza del Creatore nelle creature e la presenza di Gesù in tutti gli uomini. È alla base della santità perché ci pone sempre alla presenza del Signore.

Salmo 49: “L’uomo nella prosperità non comprende è come gli animali che periscono. … Ma Dio potrà riscattarmi, mi strapperà dalla mano della morte. Se vedi un uomo arricchirsi non temere, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore con sé non porta nulla”.

Marco 12,38-40: “Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare …”.

Marco 12,41-44: “L’obolo della vedova”.

Qui si rivolge il sapere umano che il dono della scienza sa cogliere e porre all’interno della scala di valori di Dio.

È capacità di conoscere e capire le cose e di usarle per il bene, per incamminarsi verso Dio. È un sapere che non può essere appreso solo sui libri ma diventa affinità con la materia, diventa vita.

In una cultura sempre più laica e atea che vuol escludere Dio perché di lui non ci sono prove scientifiche, la scienza si rilancia come strumento di cammino verso Dio, dando la capacità alla conoscenza umana di fare il salto verso l’assoluto e accettare quello che non possiamo comprendere. È quindi strettamente collegata con la Fede. Fa capire la limitatezza del sapere umano. È il dono dei filosofi cristiani, ma, più in generale di tutte le scuole cristiane.

Frutti della scienza sono ammirazione, stupore e riflessione.

 Preghiamo: Donaci Signore la Scienza: per vedere le cose come le vedi tu, per contemplarti in noi stessi, in ogni uomo e donna creati a tua immagine e somiglianza, per lodarti in eterno, per rendere ragione della speranza che è in noi. E, in modo più semplice, per alimentare lo stupore della vita, la nostra capacità di riflessione, di ragionamento. Donaci la Scienza, o Padre, per ritrovarti in tutte le cose che hai creato: perché anche la ragione ci porta a te e non solo la fede. Donaci la vera Scienza per comprendere che il mondo si salverà non con le scoperte scientifiche, né con i progressi della tecnica, ma con l’amore che viene da te. Amen. Alleluia. 

 Il dono della Pietà

La pietà ci fa sperimentare la tenerezza del Padre e ci fa sentire figli prediletti. “Come un bimbo sereno in braccio alla madre”. Ci da il senso della Divina Provvidenza, che riconosce che siamo figli di Dio e che lui provvede a tutto. “Il Signore non turba mai la pace dei suoi Figli se non per darne una maggiore” (Don Orione). È la forza del pentimento dei peccati. È l’amore dei figli verso il Padre. Esempio è Enea che fugge da Troia portando in spalle il padre.

Osea 11,3-4: “Gli ho insegnato a camminare, l’ho tirato su fino alla mia guancia e mi sono chinato su di lui per dargli il mio cibo”.

Galati 4,6: “È lui che ci sussurra di dire Padre”.

Lo spirito di pietà ci introduce nell’intimità della famiglia trinitaria.

Sapienza 12,20-22: “Se hai punito con riguardo e indulgenza i nemici dei tuoi figli concedendo loro tempo di ravvedersi, con quanta più attenzione lo fai coi figli della promessa? Mentre dunque ci correggi colpisci i nemici perché riflettiamo e speriamo nella tua misericordia”.

È un dono che coinvolge volontà, azione, sentimenti delle persone. È una sensibilità del cuore, di quel cuore di carne che Dio ha messo al posto del cuore di pietra. Diventa così importante perché prepara il terreno per tutti gli altri doni. È cuore capace di ascoltare la parola del Signore e far sì che diventi impulso per le azioni.

Insegna a desiderare come Dio desidera. L’uomo diventa figlio di Dio e impara a dire con confidenza e umiltà: Abbà, Padre.

Da questo cuore convertito che si slancia verso Dio nasce la preghiera.

Questo rapporto con Dio ha conseguenza anche sul nostro rapporto con gli uomini. Ci fa sentire vicini agli altri, fratelli. Sensibili, senza sentirsi migliori perché la pietà porta sempre con sé l’umiltà.

Frutti della pietà sono la preghiera e la solidarietà.

 Preghiamo: Donaci, o Padre, la Pietà. Per essere teneri come te, per donare il tuo amore al mondo. Fa’ che la nostra fede sia accompagnata dalla tenerezza, dalla dolcezza delle tue parole. Perché con umiltà e mansuetudine sappiamo annunciare il tuo regno di pace infinita agli uomini afflitti e stanchi, a coloro che sono senza amore, privi della tua gioia. Amen. Alleluia.

 Il dono del Timore

Il Timore di Dio non è paura, ma il riconoscere la santità e la trascendenza, la maestà di Dio. È il santo che cantiamo ogni giorno a Messa (Is 6,1). Rende vivo il valore di Dio nella nostra vita, ci fa coscienti della sua presenza e ci fa dispiacere di far qualcosa contro di Lui. Adorazione, lode, ringraziamento partono da qui.

Siracide 1,9-18: “Il timore del Signore è gloria e vanto. … Per chi teme Dio andrà bene alla fine. … Principio della sapienza è il timore del Signore. Pienezza della sapienza è il Timore del Signore. Corona della sapienza è il timore del Signore. Radice della sapienza è il timore del Signore.”

Salmo 25: “Chi è l’uomo che teme Dio? Gli indica il cammino da seguire. Il Signore si rivela a chi lo teme, gli fa conoscere la sua alleanza. Vedi la mia miseria e la mia pena e perdona tutti i miei peccati”.

Matteo 24: “Essere pronti per la venuta del Signore”.

Non è la paura e non è neanche in contrasto con l’amore. Esso è prima di tutto rispetto, riconoscimento della sua grandezza, fiducia nella sua giustizia.

È il monito profetico che ci invita fortemente a non fare compromessi col male. Con la giustizia di Dio non si scherza.

È un riconoscere che i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie.

In continuazione, l’Antico Testamento ci invita a temere Dio. È però un riconoscerlo Padre. È timore filiale intriso di affetto, è più un non voler rattristarlo col nostro comportamento sbagliato che non un temerne il castigo.

Frutto del Timore del Signore è la coerenza.

 Preghiamo: Donaci, Signore, il santo Timore: per mettere Te al primo posto nella nostra vita, per riconoscere che i tuoi pensieri non sono i nostri; per camminare secondo le tue vie, per mettere in pratica i tuoi comandamenti. Per vegliare sempre, sino al giorno della tua venuta. Per ricordare al mondo che tu sei il Salvatore. Amen. Alleluia

Padre Edoardo Scognamiglio (Provinciale dei Frati Minori Conventuali e teologo )

Ofm Conv. CONVENTO SAN FRANCESCO

Via san Francesco, 117 – 81024 Maddaloni (Ce)


Edda CattaniFesta della Pentecoste
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L’Omelia di Papa Leone

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L’Omelia di Papa Leone:

“Il matrimonio è il vero amore tra uomo e donna”

È anche il Giubileo dei bambini e dei nonni: “Contento di vedere tanti bimbi, rinnovano la nostra speranza. I nonni sono modello genuino di fede”. Prima della messa, giro in papamobile tra i fedeli.

Piazza San Pietro
VII Domenica di Pasqua – Domenica, 1° giugno 2025

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“Il matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la donna: amore totale, fedele, fecondo” dice il Papa nell’omelia della Messa del Giubileo delle famiglie sottolineando che questo amore “rende capaci, a immagine di Dio, di donare la vita”. Quindi, il Pontefice ha invitato i genitori ad essere per i figli “esempi di coerenza, comportandovi come volete che loro si comportino, educandoli alla libertà mediante l’obbedienza, cercando sempre in essi il bene e i mezzi per accrescerlo. E voi, figli, siate grati ai vostri genitori: dite grazie, per il dono della vita e per tutto ciò che con esso ci viene donato ogni giorno”. “Infine a voi, cari nonni e anziani, raccomando di vegliare su coloro che amate, con saggezza e compassione, con l’umiltà e la pazienza che gli anni insegnano”.

Tutti viviamo “grazie a una relazione, cioè a un legame libero e liberante di umanità e di cura vicendevole. È vero, a volte questa umanità viene tradita. Ad esempio, ogni volta che s’invoca la libertà non per donare la vita, bensì per toglierla, non per soccorrere, ma per offendere. Tuttavia, anche davanti al male, che contrappone e uccide, Gesù continua a pregare il Padre per noi, e la sua preghiera agisce come un balsamo sulle nostre ferite, diventando per tutti annuncio di perdono e di riconciliazione”.

 

Edda CattaniL’Omelia di Papa Leone
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Ascensione. Scavare il Cielo

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Ascensione :Scavare il Cielo 

ascensione

Ascensione (Luca 24,46-53)“Il Cristo patirà e risorgerà il terzo giorno”. È vero, Signore, siamo figli del Terzo Giorno, figli di una promessa di Resurrezione, eppure facciamo davvero fatica a sentire vere le tue parole in queste nostre vite affaticate. Persi nel lungo cammino del primo giorno, dentro quel venerdì di dolore e di passione che sembra non finire mai, tempo di sogniarrestati, di tradite speranze, di vita che sbrana pezzi di carne da una colonna che continuiamo ad abbracciare per sfinimento. A volte invece ci sentiamo figli del secondo giorno, quel sabato di silenzio solo apparentemente meno violento: quello delle cose che non cambiano, quello del vuoto di futuro, camminiamo in un mondo che non volevamo così, tutto è fermo, niente cambia, noi, soprammobili lussuosi di uno sfondo nauseante. “Il Cristo patirà”, sì, lo sai bene, anche a noi è data la nostra parte di patimento. Nel cuore della Storia, cruda e spesso atroce, parlare di gioia diventa quasi fuori luogo. E mentre infastidisce certa retorica cattolica a buon mercato, rimaniamo ancora in ricerca di parole buone per osare dire quella speranza che in cuore nostro cerchiamo per arrivare al terzo giorno.

Non resta che cercare tra il pudore delle parole evangeliche, pagina figlia del bisogno di sopravvivere nel cuore dei due giorni, parole disegnate per camminare, magari lentamente, ma per camminare incontro al giorno terzo. Cerchiamo nella grammatica biblica qualche appiglio possibile e forse lo troviamo in quella promessa che lasci scivolare tra le pareti del nostro cuore. Poi ci porterai a Betania, luogo del cuore, dell’intimità, dell’amore, ma prima ci chiedi di restare per lasciarci “rivestire di potenza dall’alto”, queste le tue parole. Se ci avessi portato subito a Betania il nostro cuore sarebbe andato in frantumi, non avremmo retto, avevamo bisogno di stare ancora in Gerusalemme, luogo di passione. È la pedagogia dei due giorni, tempo di sepolcro vuoto, scavato nella roccia. Con le lacrime agli occhi Signore ci pare di capire che noi possiamo essere riempiti di Te solo se sappiamo lasciarci scavare, come roccia, sepolcro nuovo nella nostra intimità. Il dolore del primo giorno, le carni strappate a violenza, l’umiliazione e il tradimento; il feroce silenzio del secondo giorno, quel niente che succede ad altro niente, sono passaggi che creano vuoto dentro di noi. Il nostro cuore deve essere svuotato a sepolcro. È la vita stessa che scava. Ed è un vuoto che deve essere mantenuto tale. Intravedo un barlume di buona notizia, un timido raggio di luce. Noi siamo figli dei giorni del divino svuotamento e la nostra storia non è altro che riconoscerci come un Vuoto aperto all’Infinito. Per diventare preghiera, per implorare questo terzo giorno che sembra non venire mai. Chiamati a vivere con questo vuoto nel cuore, questo Niente in attesa di una carezza, di una benedizione. E mi pare di cominciare a comprendere, e forse vorrei non fosse così. Testimone credibile è colui che cammina nel mondo con quel vuoto brutale inchiodato nel cuore, è consegnare al fratello un cuore scavato di bisogno d’amore, dolore e nostalgia. Un cuore ferito, ricucito, rattoppato, sempre affamato, delicato come un pulcino appena nato… solo così noi possiamo tentare di essere testimoni credibili di conversione e di perdono: “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono”. Perché è solo il vuoto che ci portiamo dentro, questa eterna nostalgia da marinai dell’Infinito, questa paurosa inquietudine, questa dilaniante fame di vita a parlare, in modo credibile, di Te. Senza il Vuoto il Terzo giorno sarebbe solo facile retorica.

Occorre sostare nei due giorni che precedono il Terzo. Occorre non voler affrettare il finale. Un Vangelo che mette in guardia contro i cuori troppo pieni di buone intenzioni, di tante consolazioni, di eccessive sicurezze, persino troppo pieni di una idea di Dio che diventa giudicante. Solo un cuore affamato può provare ad accogliere la promessa di Gesù, quella “potenza dall’alto” che risulta, come ogni riga del Vangelo, paradossale. Paradossalmente potente è Betania, la casa dell’intimità e della tenerezza, potente è l’amicizia, quella che piange la morte di un amico; potente è la cura delle piccole cose: una casa accogliente, il pane spezzato, le parole scambiate alla luce di un fuoco; potente è l’amore, di chi siede ai tuoi piedi e vive di Te. Potente, paradossalmente potente, è Betania, la casa degli affetti, casa di cuori innamorati. E non c’è niente di più affamato di un cuore innamorato, la potenza paradossale del Vangelo è imparare questa fame: vuoti a implorare una pienezza che solo un giorno sarà, nel Terzo tempo di questa storia che chiamiamo vita.
Solo un cuore affamato può accogliere la paradossale potenza dall’alto, che è una benedizione infinita sulla storia. Alla fine di tutto rimangono due mani ad accarezzare ogni spigolo di mondo. Gesù, benedicendo, tocca, dall’alto, ogni aspetto della vita, come a dire che ogni cosa rimanda a Lui. Ogni cosa canta o soffre o lamenta una fame d’Amore radicale. Da quel giorno il mondo implora amore dall’Alto. Non resta che liberarci dalla tentazione di una resurrezione a buon mercato, siamo popolo da traversata, barca in mezzo al mare, gente di primo e secondo giorno, cuori scavati dalla vita, come sepolcri in attesa di essere Oltre-passati dal Sacro Vuoto che lascia nostalgia d’Amore.

Signore, come ai discepoli della prima ora concedi anche a noi di lasciarci “condurre fuori”, primo movimento necessario del cuore affamato. Docilità di chi non basta a se stesso. Conduci fuori da noi stessi il nostro baricentro Signore, scavaci dentro il vuoto che parla del fratello, solo un cuore svuotato dal nostro egoismo può riscoprire l’inquietudine della fame. E sarà elogio del cammino.
“Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. C’è un Vuoto grande sopra le nostre teste, un respiro infinito, e noi viviamo respirando da quel Grande Spazio. Dacci il coraggio di lasciare entrare Infinito dalle nostre pupille affaticate. Elogio del Cielo.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui”, un grande definitivo inchino, elogio della terra, a baciare il visibile. A baciare questo amore che chiede carne per potersi raccontare. Ad evitare di fuggire il mondo, ad abitarlo e ad amarlo con tutte le sue tensioni.
Elogio del presente: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Elogio sofferto di una vita che sarà scavo, scavo doloroso, che sarà ripetersi di primo e secondo giorno. La gioia è saper intravedere benedizione dentro le lacrime. Vorrei avere il coraggio di chiederti anche questo dono.

 

Edda CattaniAscensione. Scavare il Cielo
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Giubileo delle Famiglie 2025

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Giubileo delle Famiglie, dei Bambini, dei Nonni e degli Anziani

Una festa della famiglia? No, meglio una festa delle generazioni. Una festa capace di coinvolgere in un solo abbraccio coppie, genitori, figli, nonni, parenti, persone anziane. Ancora meglio: una festa delle buone relazioni che fanno vivere e danno speranza alla Chiesa e al mondo. Perché tra comunità ecclesiale e comunità civile non c’è mai opposizione quando al centro ci sono famiglie attive e consapevoli, disposte a mettersi in gioco per costruire una società più giusta e più vivibile.

Da oggi venerdì 30 maggio a domenica, con la Messa celebrata da papa Leone XIV, la grande festa delle famiglie con tanti momenti: riflessioni, giochi, spiritualità e incontri per genitori, bambini, nonni, anziani

 

Ecco il senso dei tre giorni che, da oggi a domenica, quando si concluderà con la Messa di papa Leone XIV, il cammino giubilare dedica a tutto ciò che fa famiglia, dai bambini ai nonni. Un programma intenso (https://www.iubilaeum2025. va/it), che mescola riflessione e festa, aspetti pastorali e socio-politici, santità familiare e spazi ludici. Perché la vita della famiglia è questo, un prisma con tante sfaccettature, in cui non c’è un aspetto che prevale sull’altro. Dentro – e fuori – le pareti di casa, tutto è importante e tutto dev’essere tenuto in equilibrio: relazioni, preghiera, lavoro, educazione, lavoro di cura, scelte di sobrietà, impegno sociale ed ecclesiale, riposo, svago e tanto altro.

Nella “tre giorni” familiare che da oggi animerà e umanizzerà piazze e parchi di Roma il filo conduttore sarà naturalmente quello dell’anno giubilare, la speranza. Una virtù che sembra ritagliata a misura per tutto quanto vive e rappresenta la famiglia, a livello simbolico ma, soprattutto, a livello concreto.

Edda CattaniGiubileo delle Famiglie 2025
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1° Maggio: un insieme di ricorrenze

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Questo è un mese benedetto …anni fa è iniziato con un grande dono : la beatificazione di Papa Giovanni 23° e del nostro Santo  Pontefice Carol Wojtyla, amante di Maria Santissima e grande lavoratore della vigna del Signore!

 

 

MAGGIO: Mese di Maria, Festa di San Giuseppe Artigiano… la meravigliosa unione della Sacra Famiglia

Dedicato a te Mentore, per il grande Padre che sei stato! 

San Giuseppe ebbe meriti smisurati al pari di Maria, per noi fedeli deve essere egli dunque un “maestro di bottega”, come lo fu per Gesù:… un artigiano che col suo lavoro, silenzioso e faticoso, ma sempre risoluto, si fa per noi modello di umiltà, semplicità, povertà, amore. San Giuseppe ci ricorda come il cammino della fede sia fatto di osservazione: l’osservare un gesto banale ma che nell’ottica della fede ci appare invece illuminante più di ogni scritto, più di ogni omelia, più di ogni miracolo.

 

“Dio combina le combinazioni”, affermava San Pio da Pietralcina. 

Quanto appare singolarmente adatto, questo suo pensiero, al mese di maggio! 

Per una splendida “combinazione” il mese mariano per eccellenza,  prende l’avvio con una festa dedicata a San Giuseppe, cosicchè lo Sposo, quasi “accompagni” per mano la Sposa, introducendola con squisita “galanteria” nel periodo a lei particolarmente dedicato per poi lasciarla unica regina incontrastata dei 30 giorni successivi!

 

La speciale “vocazione” mariana del mese di maggio ha origini antiche, che affondano le proprie radici nella tradizione popolare. 

La festa di San Giuseppe artigiano fu invece istituita nel 1955, da Pio XII e in Italia si festeggia il 1° maggio.

Questa felice coincidenza sottolinea -quasi “simbolicamente”- la forte unione fra gli sposi di Nazaret, Giuseppe, l’uomo giusto e silenzioso, si presenta il primo maggio per accompagnare Maria, ricordandoci che a suo tempo, nella storia dell’incarnazione,  fu scelto da Dio per “affiancare” la Vergine nel suo percorso di maternità del Figlio di Dio, per non lasciarla sola,  rispettando in tal modo anche quelle che erano le “consuetudini” sociali del tempo.

Se Dio avesse voluto, non avrebbe avuto bisogno né di Maria né di Giuseppe, per far nascere Gesù, ma, volendo servirsi degli uomini, ha deciso di fare le cose in pienezza.

Dio non ha fatto della Vergine una “ragazza madre”, ma le ha donato un degno sposo, inserendola così in un nucleo familiare che non ingenerasse scandali (anche per questo motivo, si ritiene che San Giuseppe non fosse un vegliardo, come tanta produzione artistica ci fa credere!).

In un piccolo libricino, edito dal Movimento Giosefino, si legge :

“Il Figlio è stato ricevuto da entrambi per mezzo della mente, non della carne. Infatti, se Maria è verginalmente e castamente madre, altrettanto lo è Giuseppe come padre. Già San Girolamo fu primo e grande assertore di questa verità”.

Se questa fu la grande “condivisione” di Maria e Giuseppe in terra, figuriamoci quale possa essere in Cielo, la loro unione spirituale!

A testimonianza di questo, molte sono le visioni in cui grandi Santi hanno visto assieme i due Sposi, e grande la devozione nutrita verso di essi.

Nell’ultima apparizione di Fatima, oltre alla Vergine, i tre pastorelli, videro anche San Giuseppe -vestito di bianco e che teneva in braccio il Bambinello-.

E fu proprio “il falegname”, insieme al Figlioletto, a benedire il popolo che sostava in preghiera. 

Non è questo un inequivocabile segno dell’armonia che alberga -anche e soprattutto in Paradiso!- fra i membri della Santa Famiglia?

Papa Pio XI, nel 1935, affermò: “sorgente di ogni grazia è il Redentore Divino, accanto a Lui è Maria Santissima, dispensatrice dei divini favori; ma se c’è qualche cosa che supera queste due sublimi potenze è, in un certo modo, il riflettere che è S. Giuseppe che comanda all’uno o all’altra, colui che tutto può presso il Redentore Divino e presso la Madre Divina in una forma ed in un potere che non sono soltanto di famulatoria custodia”.

In effetti, se i “legami” terreni, trovano il loro “compimento”, la pienezza, soltanto in Paradiso, si potrebbe mai credere che San Giuseppe diventi un “estraneo” per il Figlio di Dio, proprio in Paradiso? 

In maniera molto semplice, si potrebbe dire che il “capofamiglia” rimanga pur sempre tale! Troviamo una conferma di questo, in un episodio della vita di Suor Consolata Bertrone, verificatosi subito dopo la morte del suo babbo. La clarissa cappuccina, così racconta:

“Babbo mio era morto. -Ebbene, mi dissi, lo sostituirà San Giuseppe!- E mi affidai a lui, eleggendolo per mio padre. Una soave visione internamente venne a rallegrare la mia anima: la Madonna e San Giuseppe! -Che cos’hai, Consolata, che sei così mesta?- O San Giuseppe, babbo è in Purgatorio e Gesù non vuole liberarlo sino a sabato mattina. -Vedrai, lo libererà domani, Venerdì Santo- Ma Gesù non vuole, l’ho già pregato tanto! -Oh, Gesù lo comando io (mi disse sorridendo) e domani tuo babbo sarà liberato, te lo prometto…-”

E fu proprio una visione del babbo, il giorno successivo, a far capire a Consolata, che la promessa era stata mantenuta!

L’episodio -sebbene si tratti di una visione “privata”- è quantomai significativo, testimonia la completa armonia tra i due sposi, che riporta alla mente quella manifestata al momento del ritrovamento di Gesù al tempio, sebbene qui, i ruoli, si “invertano”.

Stavolta è Maria ad essere silenziosa, ma proprio con il suo silenzio, dimostra una perfetta concordanza di intenti con il suo sposo, il quale -a sua volta- sottolinea con le sue parole bonarie (sorride, mentre parla!), l’intima unione con Gesù. 

Il “capofamiglia” sa di poter “comandare” al proprio figlio…anche se si tratta del Figlio di Dio! E’ la legge dell’amore, che fa obbedire un Figlio ai giusti comandi del padre..anche se Padre Putativo! E questo perché, in Paradiso, i Santi (come lo è San Giuseppe) altro non possono che desiderare la volontà di Dio…

Dunque, avviamo il mese mariano invocando l’aiuto e la protezione di San Giuseppe della Vergine Maria: come la Vergine è considerata la “mediatrice di tutte le grazie”, il suo sposo è, oltre che “uomo di contemplazione e di sogni celesti, uomo d’azione; pronto nell’operare in obbedienza a Dio, e nel sovvenire a quanti gli sono affidati.”

Santa Teresa d’Avila disse: “Ad altri santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso S. Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte”.

E stiamo pur certi che, se rivolgiamo le nostre preghiere al padre putativo di Gesù, sarà lui stesso a condurre le nostre richieste alla Vergine, ed entrambi, si faranno nostri amorevoli intercessori presso Gesù!

 

Buon mese mariano a tutti!

 

 

1 MAGGIO: SAN GIUSEPPE LAVORATORE – Intervista a p. Angelo Catapano

 

1° maggio, festa dei lavoratori, ma anche festa di San Giuseppe lavoratore. A San Giuseppe si ispira la Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, fondata da San Leonardo Murialdo, insieme con l’altra dei Giuseppini cosiddetti di Asti. Dei Giuseppini del Murialdo fa parte padre Angelo Catapano che è direttore del Centro Studi san Giuseppe ed è responsabile delle riviste “Vita giuseppina” e “La voce di San Giuseppe”. A padre Catapano, Giovanni Peduto della Radio Vaticana ha chiesto innanzitutto quale lavoro facesse san Giuseppe, che qualche volta viene definito falegname, altre volte carpentiere:

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R. – I termini che usano i Vangeli di Matteo e di Marco, sono dal greco “tecton”, in latino “faber” e poi tradizionalmente, nei secoli passati, si parlava piuttosto di falegname. Oggi si usa di più la traduzione “carpentiere”, proprio perché è un termine un po’ più ampio, generico, che comprende anche il lavoro del falegname, ma potrebbe essere anche fabbro: in qualche modo, chi costruisce. Ed è bello e simpatico già immaginare questo. Dobbiamo anche pensare, poi, che si trattava di un piccolo villaggio, Nazareth, dove i lavori non potevano essere così precisi.

D. – In questo lavoro, era aiutato da Gesù?

R. – Sicuro. Tant’è che il Vangelo stesso dice ad un certo punto: non è lui il figlio del falegname? Addirittura, gli si dice: non è lui il carpentiere? Effettivamente, Gesù ha passato tanti anni accanto a Giuseppe in quella bottega di Nazareth, in quella vita nascosta che ha una sua importanza, non solo come esempio per l’umiltà, ma anche per l’elevazione del lavoro ad una dignità che non è solo umana ma diventa a quel punto ‘divina’. Giuseppe ha educato Gesù, l’ha istruito nel lavoro, ma anche un poco alla volta, passando gli anni, da educatore si è fatto discepolo di Gesù e si è messo alla sua scuola. E lui ha imparato ed è stato istruito da Gesù!

D. – Qual è il senso cristiano del lavoro che ci viene oggi da questa festa?

R. – Questa festa del primo maggio ha bisogno di un rilancio. Nei lunghi anni del suo Pontificato, Giovanni Paolo II non ha perso occasione per incontrare in questa circostanza il mondo del lavoro. E’ per tutta la Chiesa un motivo di riincontrare il mondo del lavoro, i problemi di oggi, e non vederlo soltanto come una questione qualunque, perché il lavoro è la chiave, come ha detto Papa Wojtyla, della questione sociale.

D. – San Giuseppe è stato il custode del Redentore. Nel lavoro si può quindi chiedere anche la sua intercessione …

R. – Certo. E’ il modello, il patrono dei lavoratori. D’altra parte, l’opera che il nostro santo svolge accanto a Gesù nel mondo del lavoro accompagna quell’opera che Gesù Cristo stesso farà nella sua vita pubblica: l’opera della Redenzione, perché Gesù viene ad operare. E noi ci auguriamo che, insieme con la benedizione di San Giuseppe, ci sia anche – ed è di buon auspicio – il nuovo Papa, Benedetto, che porta nel nome di battesimo il nome stesso di San Giuseppe.

Ecco perché il primo maggio è anche
la festa dei lavoratori

Primo maggio : storia, origini e tradizioni

 

La Festa dei lavoratori, o meglio la Festa del lavoro, è una festività che annualmente viene attuata per ricordare l´impegno del movimento sindacale ed i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori. La festa del lavoro è riconosciuta in molte nazioni del mondo ma non in tutte. Più precisamente, intende ricordare le battaglie operaie per la conquista di un diritto ben preciso: l´orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore. Tale legge fu approvata nel 1866 nell´Illinois, (USA), la Prima Internazionale richiese che legislazioni simili fossero approvate anche in Europa. Convenzionalmente, l´origine della festa viene fatta risalire ad una manifestazione organizzata negli Stati Uniti dai Cavalieri del lavoro a New York il 5 settembre 1882. Due anni dopo, nel 1884, in un´analoga manifestazione i Cavalieri del lavoro approvarono una risoluzione affinché l´evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate alla Internazionale dei lavoratori – vicine ai movimenti socialista ed anarchico – suggerirono come data della festività il Primo maggio. Ma a far cadere definitivamente la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago (USA) e conosciuti come rivolta di Haymarket. Questi fatti ebbero il loro culmine il 4 maggio quando la polizia sparò sui manifestanti provocando numerose vittime. L´allora presidente Grover Cleveland ritenne che la festa del primo maggio avrebbe potuto costituire un´opportunità per commemorare questo episodio. Successivamente, temendo che la commemorazione potesse risultare troppo in favore del nascente socialismo, stornò l´oggetto della festività sull´antica organizzazione dei Cavalieri del lavoro. La data del primo maggio fu adottata in Canada nel 1894 sebbene il concetto di Festa del lavoro sia in questo caso riferito a precedenti marce di lavoratori tenute a Toronto e Ottawa nel 1872. In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889 e ratificata in Italia soltanto due anni dopo. In Italia la festività fu soppressa durante il ventennio fascista – che preferì festeggiare una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma – ma fu ripristinata subito dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1945. Nel 1947 fu funestata a Portella della Ginestra (Palermo) quando la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina.

Edda Cattani1° Maggio: un insieme di ricorrenze
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Ricordi di guerra.

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Oggi 25 Aprile, fra i ricordi di guerra, riteniamo che il migliore saluto possa essere costituito dal seguente brano tratto da «Centomila gavette di ghiaccio» di G. Bedeschi – Ed. Mursia, 1963 – e che ricorda l’ingresso dell’Autore a far parte di una divisione alpina.

Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli alpini, ignari d’ogni complicazione e spregiatori d’ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio. facesse imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul capello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un mozzicone malconcio, e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra: perché, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse: anzi!
E’ un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case, distaccato dal chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio, per ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell’ultimo nipote per vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un bell’alpino; bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C’è una ragione naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al bocia giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino: sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l’impressione di soffocare; con la neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno.
E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia.
E’ tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il fischio rabbioso debba passare sempre due dita in là, per non bucarlo; è così che dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta che, a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra che venga a fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno e farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi maledetti alpini!
E’ tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna venderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perchè la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un po’ di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuor così; sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com’è, vien su tal quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno «penna nera» senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a piacimento, o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le «penne nere»; che per la loro terra e l’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia.

GIULIO BEDESCHI

 

Edda CattaniRicordi di guerra.
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Coraggio e fermezza

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CORAGGIO E FERMEZZA

(dalle pagine degli anni precedenti)

 

Vengo da una generazione in cui nelle scuole, per imparare a scrivere, non si usava il computer, ma penna e calamaio … ed infine la pagina veniva ‘asciugata’ con la ‘carta assorbente’.  In questa rimanevano i caratteri fondamentali con un po’ di inchiostro in eccesso.  Anche nella vita si può essere ‘carta assorbente’ di ciò che di ‘fondamentale’ viene rilevato nella nostra quotidianità, perché questo può insegnarci a vivere. Io penso proprio di essere una di queste in quanto sono sempre stata  ‘carta assorbente’ nell’ ascoltare e cercare di rilevare dalle parole degli altri quanto occorre nella mia meditazione e riflessione quotidiana per crescere interiormente. Non si tratta perciò di fare ‘copia e incolla’ ma di estrapolare da una frase quel succo, quel messaggio profondo, che porta ad un cambiamento nelle opinioni e, pertanto, mi è di aiuto.

 

Questa mattina, dell’occhiello dell’articolo nella mia pagina di vita metto quanto ha detto il Presidente  nel discorso del 25 aprile, giorno della Resistenza (e la parola può essere tutto un programma) dopo aver deposto la corona di alloro all’altare della Patria:

“… abbiamo molto da imparare sul modo di affrontare i momenti cruciali: coraggio, fermezza…” ed ha aggiunto: “Dobbiamo fare tutti la nostra parte con realismo, consapevolezza, senso di responsabilità…”

 

A queste parole mi aggancio con quanto ha detto, Papa Francesco nell’udienza del mercoledì: “Il cristiano che tiene nascosti i suoi doni non è un cristiano. La storia della Chiesa è una storia d’amore perché alla fine saremo giudicati sulla carità.”

 

Unisco le due asserzioni… ed eccone la mia riflessione:

 

La vita ci mette sempre davanti a delle scelte e a secondo della strada intrapresa la nostra vita acquista il suo significato ed il suo peso.

 

Mi sembra inutile e superfluo aggiungere che dovremmo nelle nostre pur sempre infinite possibilità avere il coraggio giusto di percorrere la strada che porta ai nostri sogni.. non sempre ci si riesce è questo è un limite imposto dalle nostre paure e dalla nostra poca voglia di ricominciare a mettersi in gioco.

 

Ma la vita è fatta anche di questo, di azzardo, imprevedibilità coraggio, spontaneità ecc. tutti requisiti che perdiamo per strada e che dovremmo riacquistare se vogliamo vivere con la consapevolezza  di aver vissuto in pienezza.

 

Che cos’è, in fondo, una scelta di vita? Si tratta semplicemente di una decisione che non riguarda un aspetto particolare e limitato di noi, ma la nostra intera esistenza. Quel che non comprendiamo è che spesso le scelte di vita sono piccole catene di decisioni, apparentemente di poco valore, che trasformano la nostra vita giorno dopo giorno.

 

Ogni scelta, per quanto piccola possa sembrare, indica la strada che abbiamo deciso di seguire, ciò che riteniamo giusto o sbagliato e rafforzano questa consapevolezza interiore ogni giorno. Magari consideriamo queste piccole scelte insignificanti, ma ogni giorno esse rafforzano le convinzioni che poi ci guidano anche in decisioni molto più rilevanti.

 

Una scelta di vita non passa solo nei grandi momenti, ma soprattutto in quelli piccoli, quelli in cui, cioè, si forma la nostra forza, la nostra sicurezza, ciò a cui attingeremo nei momenti in cui la decisioni da prendere saranno determinanti ai nostri occhi. In realtà, proprio quando crediamo di scegliere la direzione in cui andare, non faremo che confermare quella che, ogni giorno in modo quasi invisibile, abbiamo già scelto.

 

La miglior scelta di vita possibile è l’amore: amare come modo di vivere è la decisione che tutti dovremmo prendere, che tutti dobbiamo compiere se vogliamo una vita felice, ricca di senso e valore, degna di essere vissuta. Imparare ad amare è così una decisione che trasforma la nostra vita, e non è una di quelle che ci appaiono monumentali, anzi, essa è fatta quasi soltanto di piccole scelte, decisioni quotidiane che ci indirizzano verso l’amore.

 

Amare è una scelta di vita che passa dall’ascolto sincero ad un amico, dal complimento onesto ad un collega, dal perdonare una svista al mio compagno, al dare fiducia a chi abbiamo di fronte. Possiamo fare queste cose ogni giorno, spesso in modo decisamente silenzioso, senza squilli di tromba, ma queste decisioni sono le fondamenta di una scelta di vita che cambia il nostro mondo, pur senza troppo clamore.

 

Alla fine vivere significa scegliere di amare. Tutto qui, senza trofei da ritirare o premi da mettere nel curriculum. Forse non riempiremo pagine di giornale o non avremo un sedile d’onore al prossimo concerto di capodanno, ma fare dell’amore la nostra scelta di vita renderà la nostra vita ricca come nulla al mondo potrebbe fare.

 

 

Non lascio che neanche un singolo fantasma del ricordo

svanisca con le nuvole,

ed è la mia perenne consapevolezza del passato

che causa a volte il mio dolore.

Ma se dovessi scegliere tra gioia e dolore,

non scambierei i dolori del mio cuore

con le gioie del mondo intero.

 

Kahlil Gibran “Self-Portrait”

 

 

 

Edda CattaniCoraggio e fermezza
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La luce della Resistenza

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La Resistenza e la sua luce

(P.Paolo Pasolini)

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge..
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile…
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.

Pier Paolo Pasolini

 

Edda CattaniLa luce della Resistenza
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La Casa Comune

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Perle di saggezza indiana

Ancor prima di Papa Francesco…

Vi e’ molto di folle nella vostra cosiddetta civilta’. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro,  fino a che non ne avete così tanto, che non potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo.  Voi saccheggiate i boschi e la terra,  sprecate i combustibili naturali,  come se dopo di voi non venisse piu’ alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo.  Voi parlate sempre di un mondo migliore, mentre costruite bombe sempre piu’ potenti, per distruggere quel mondo che ora avete.  (Bufalo che Cammina, Stoney)

«Laudato si’, mi’ Signore», cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».

Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.

(da Laudato sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune)

 

 

 

Edda CattaniLa Casa Comune
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La chiesa del “grembiule”

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La chiesa del “grembiule”

 

Ancora oggi, a distanza di tanti anni, la personalità, la testimonianza e gli innumerevoli scritti di Don Tonino, rimangono fonte inesauribile di ammirazione ed ispirazione. La freschezza del suo linguaggio, la vicinanza ai bisogni dell’uomo e soprattutto degli ultimi e la volontà di superare la monotonia dell’ovvio rappresentano un patrimonio di valori da trasmettere e soprattutto da incarnare nel nostro tempo.

 

Vediamo un tratto delle sue parole a commento del Vangelo:

 

“…Io amo parlare della chiesa del grembiule che è l’unico paramento sacro che ci viene ricordato nel Vangelo. ‘Gesù si alzò da tavola, depose le vesti si cinse un asciugatoio’, un grembiule l’unico dei paramenti sacri. Nelle nostre sacrestie non c’è e quando uno viene ordinato sacerdote gli regalano tante altre belle cose, però il grembiule nessuno glielo manda. E’ il grembiule che ci dobbiamo mettere come chiesa, dobbiamo cingerci veramente il grembiule. Sapete che significa ‘Si alzò da tavola?’ Significa che se noi non partiamo da qui, dall’altare, da una vita di preghiera è inutile che andiamo a chiacchierare di pace. Chi ci crede ? Non siamo credibili, se non siamo credenti. E credere significa abbandonarsi a Cristo, non significa soltanto accettare le Sue parole, le Sue verità. Quindi, anche noi, se vogliamo parlare di pace e di carità dobbiamo alzarci da tavola…”

 

Parole innovative, ancora oggi, che il Servo di Dio ci propone e l’indossare il “grembiule”  significa aprirsi al dialogo con i fratelli anche delle diverse confessioni religiose, facendo in modo che la parola del Signore non diventi una barriera di divisione o uno scudo difensivo bensì un mezzo di unione e di apertura all’altro.

 

Lo sentiamo perciò anche vicino al nuovo Papa che ha fatto sua questa prerogativa, scegliendo il nome Francesco come segno di un ritorno al Vangelo e simbolo di partecipazione e carità. D’altro canto, il proposito di una istituzione ecclesiastica povera, amante de poveri non è una scelta demagogica ma evangelica. Condivisa in principio da don Tonino, oggi la Chiesa deve anche essere serva perché non rappresenta l’assoluto ma deve essere subordinata all’assoluto, cioè a Dio, un Dio che “serve” in quanto si manifesta come “servitore” nostro (pensiamo alla lavanda dei piedi prima dell’ultima Cena).  Probabilmente l’ammirazione e la vicinanza fraterna all’attuale Vescovo di Roma scaturisce dal fatto che rappresenti appieno il volto visibile di quella che don Tonino ha definito Chiesa del “grembiule”.

 

 

In occasione delle celebrazioni si è anche pubblicata un’opera: “UNA Croce con le ali” che nasce dalla lettura e dall’analisi approfondita del ricco ed articolato patrimonio di scritti lasciato in eredità da don Tonino Bello e pubblicato in sei volumi con l’edizione diocesana “Luce e Vita”.

 

La sfida di tradurre in drammaturgia gli scritti di don Tonino ha comportato la selezione dei tanti testi e l’adattamento degli stessi alla messa in scena. Aderenza alle Sacre Scritture e fedeltà assoluta alle sue parole sono state le linee metodologiche seguite, unitamente alla ‘licenza’ di ricodificare alcuni scritti in una diversa tipologia testuale.

 

Attraverso la sinergica combinazione di ogni forma d’arte, dalla poesia al teatro-danza, dall’immagine alla grafica con effetti multimediali, dalla composizione musicale alle combinazioni vocali e sonore, i testi prendono vita in dieci quadri scenici incentrati su altrettante tematiche ‘Forti’ del suo appassionato apostolato.

L’incontro con gli “ultimi” e l’icona della “Chiesa del grembiule”; Maria e la centralità della Croce; l’impegno attivo ed infaticabile contro la guerra e contro ogni forma di violenza; la pace e la cultura non violenta; la “mistica arte” della politica; l’emergenza dello sbarco degli albanesi; la “marcia dei cinquecento” a Sarajevo: questi alcuni tra i temi trattati nell’opera.

 

Infine, affinché questa commemorazione non rimanga sterile esposizione ricordiamo la parte conclusiva di Don Tonino in “PER COLORO CHE NON TROVANO PACE”:

 

“…E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po’ per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell’inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt’altro che rara la coesistenza di Dio con l’insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell’irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l’avrei anch’io da confidarvelo.

 

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un’altra piega all’esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l’anima ce l’avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c’è bicchiere d’acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

 

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.

Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.”

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

 

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola:

 

«O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniLa chiesa del “grembiule”
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