Edda Cattani

Dalia, vittima della Terra dei fuochi

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Una grande testimonianza in un incontro a Caivano

che desidero riproporre.

 

Dalia, vittima della Terra dei fuochi

Una telefonata disperata…ed ho conosciuto lei…che non si dava pace per la scomparsa della sua piccola… Sono passati pochi anni ed ancora ti vedo con il fazzoletto in mano, smarrita, non sapendo che fare…. Ed oggi combatti una battaglia quasi impossibile, con la tua disperazione e tanto amore! Grazie MAMMA CORAGGIO, un esempio per tutti noi!

Auguri, piccola stella!!!…proteggi Mamma Tua!

Cominciavano due anni fa i giorni di passione per la mia Dalia che il 31 ottobre 2012 andava via per sempre stroncata da un maledetto linfoma non hodkibg.
Chiedo a chiunque voglia ricordarla e renderle omaggio di condividere in questi giorni e fino al 31 questo post per far si che il mio messaggio possa toccare e svegliare piu’ coscienze possibili.

Sono due anni ormai che io con altre mamme e tante persone comuni come voi gridiamo l’assurdità di queste morti che nella nostra terra sono ormai un aberrante routine.
Tra le cause del cancro leggo da wikipedia “cause ambientali occupano un posto importante come l’esposizione a radiazioni o a certe sostanze chimiche”
Dalia viveva a Casalnuovo,terra dei fuochi.

Nella nostra terra da oltre un ventennio sono confluiti materiali di scarti industriali di ogni tipo,discariche abusive e pseudo legalizzate il cui percolato risulta da tempo inclassificabile e indisturbato si insinua nelle falde.
Da anni i roghi tossici con i quali le aziende locali smaltiscono indisturbate gli scarti delle loro produzioni fatte in regime di evasione fiscale appestano l’aria che respirava lei e che continuiamo a respirare noi.
A pochi metri in linea d’aria da dove viviamo un obsoleto mostro chiamato termovalorizzatore da oltre 800 MW continua a funzionare, in maniera illegittima, e a diffondere sostanze tossiche ad Acerra e non solo, nonostante l’autorizzazione in deroga per la cessata emergenza rifiuti sia scaduta da oltre un anno.
Il termovalorizzatore funziona inoltre senza che le sue emissioni siano oggetto di controllo da parte dell’ ARPAC o di qualsiasi altro ente terzo;per cui, unica fonte di dati relativi a quantità e qualità delle sue emissioni, resta la società che gestisce l’impianto, che continua così indisturbato la sua “opera” ignorando totalmente anche il principio di precauzione.

E mentre il governo ancora ignora il nostro dramma, mentre adduce l’aumento di patologie neoplastiche ai nostri stili di vita, mentre il decreto sblocca Italia prevede la costruzione di nuovi inceneritori, mi chiedo quando si parlerà di bonifiche controllate, tracciabilità di rifiuti industriali, lotta all’evasione e lavoro sicuro ed ecosostenibile.

 Per ora nella mia terra il principio di precauzione resta dunque un sogno, andato in fumo sotto la spinta di mafia,industriali senza scrupoli, stato assente e colluso.
In fumo,come la mia vita e quella della mia Dalia, il cui diritto di vivere doveva essere sacrosanto anche in Campania. Tina Zaccaria Mamma di Dalia

Edda CattaniDalia, vittima della Terra dei fuochi
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Un paese in maschera

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Dopo il Coronavirus imperversa il Carnevale!

Un paese in maschera

 

Siamo in pieno carnevale mentre le emergenze e le sofferenze non si sopiscono mai nel mondo e in Italia. Stridono le notizie del telegiornale che accomunano femminicidi e festival di Sanremo, carri allegorici e maschere di Venezia.

Sappiamo che il carnevale è una festa che si celebra nei paesi di tradizione cristiana (ed in modo particolare in quelli di tradizione cattolica) nel periodo di tempo immediatamente precedente alla Quaresima; i principali eventi si concentrano comunque tra febbraio e marzo. I festeggiamenti si svolgono spesso in pubbliche parate in cui dominano elementi giocosi e fantasiosi; in particolare l’elemento più distintivo del carnevale è la tradizione del mascheramento.

La maschera è principalmente un oggetto usato per celare la propria identità, per esempio durante la festa; è usata con lo stesso scopo da molti personaggi immaginari della narrativa e dei fumetti. I nostri bambini amano imitarli e in questi giorni ne abbiamo visti travestiti da Uomo-Ragno, da Batman o semplicemente da principe o da pulcino, da bruco, da orsetto… una meraviglia guardare tanti piccoli innocenti lanciare minuscole palline di carta per le strade mentre soffiano con trombe di cartone, in un fracasso divertente, la loro gioia di vivere.

In psicologia indossare una maschera può indicare l’atto di essere momentaneamente un’altra persona, solitamente per sfuggire alla propria personalità. Ne sappiamo qualcosa noi, quando a seguito di un grave lutto indossiamo gli occhiali scuri e assumiamo quell’atteggiamento reticente, schivo e raccolto che ci rende incapaci di comunicare. Di fronte all’evento che non abbiamo potuto evitare rimaniamo impietriti e ci copriamo dietro la maschera quotidiana che ci fa essere nel lavoro e con gli altri simili alle statue di marmo. Questo non ci aiuta a sconfiggere le nostre piaghe quando vi sono tante emergenze simili alla nostra da condividere e in cui possiamo impegnarci per sentirci ancora utili.

I circuiti mediatici, come dicevo, tendono a trasmettere più la notizia che fa spettacolo e le altre necessità restano attutite, ai confini della nostra conoscenza ma non sono meno presenti e devastanti: non solo lontane da noi, ma dietro l’angolo di casa nostra c’è chi soffre e muore ogni giorno ed ha bisogno del nostro impegno.

Fra i tanti episodi del mio quotidiano, spesso cosparso di grandi lacerazioni, non mancano le conferme che vengono dall’alto, dai nostri Cari, sempre presenti in quella realtà di Luce verso la quale tutti siamo in viaggio. Il canale privilegiato è sempre quello di qualche anima provata nel cuore e nel fisico; in questo caso si tratta di una mia conoscente che mi è stata vicina in tutti questi anni e che ora è gravemente ammalata. Da tempo si trova a vivere episodi sconcertanti di comunicazione con entità che le danno prove certe della loro esistenza e come non poteva esserci fra queste il nostro Andrea che non può abbandonarci nella difficile realtà che stiamo attraversando? Ebbene una notte intera le ha dato ragguagli e prove certe della sua identità e del suo carattere e per non turbarmi ha detto di parlarne alla sorella che ne è rimasta felicemente esterrefatta.

La cosa che mi ha fatto enorme piacere è l’avermi confermato che con lui sta tutta la schiera dei parenti di cui lui è “l’ultimo anello” (infatti con Andrea si esaurisce la generazione dei Cattani) e che la spada che brandisce è molto più luminosa di quella che è appesa alla parete. A questo proposito debbo far sapere che la persona non sa che noi abbiamo messa in cornice sulle scale della nostra abitazione la sciabola che gli fu data quando fu nominato ufficiale dell’esercito. Questo conferma inoltre quello che ci ha sempre detto e che ha ripetuto: che lui è messo a difesa dei deboli, dei soldati che muoiono in guerra, dei bambini che soffrono…

Mi torna in mente l’immagine di San Michele Arcangelo con la spada sguainata che difende dal maligno, di cui sono sempre stata devota: il mio angelo di Luce, i nostri Angeli si occupano dei grandi problemi di cui noi sentiamo parlare fugacemente alla televisione: della fame nel mondo, della disoccupazione, della pace, del terrorismo; queste sono le quattro emergenze mondiali più preoccupanti.  E non posso, in questa circostanza, dimenticarmi di tanti ragazzi, ancora fra noi, che hanno fatto gli angeli “spazzini” fra le strade di Napoli per mettere ordine laddove un cattivo governo non ha saputo colmare le lacune e ad un tempo la povera gente che vive nei quartieri inquinati dove degrado e povertà ogni giorno aggiunge vittime alla dirompente condizione di vita.

Speriamo che questo carnevale, ormai giunto al termine, non lasci coscienze obnubilate, ma col riposo dello spirito giunga un reale risveglio e la volontà di compiere nella volontà di Dio, il proprio dovere e di impegnarci tutti a utilizzare i nostri talenti nel posto che occupiamo.

Papa Luciani, quando era ancora cardinale, scrisse qualcosa sulla biblica scala di Giacobbe: diceva che c’erano angeli con le ali, ma non volavano, salivano adagio, scalino su scalino. E commentava, cosa che può farci grande piacere, che le piccole cose, le azioni a volte meno importanti sono sovente così impegnative da costituire la via maestra per il cristiano. A noi dunque, piano, piano… il nostro compito…

 

 

 

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Testimoni del tempo

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P. Davide Maria Turoldo

 

 

Energia, tenerezza, forza, leggerezza, assenza: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto» Quanta vita si esprime attraverso le mani! Ci sono mani che si “allenano” ad una appassionata ricerca del bene, che salvano, pregano, curano e comunicano. Oppure, al contrario, mani che uccidono, infangano, violentano e sprecano, in una sorta di danza del bene e del male che intrecciano le loro radici in modo spesso inestricabile. «Perché sono stanche le mie mani di pregare; stanco il mio cuore di perdonare; la mia bocca di benedire Tu mi perdonerai». «Tengo le tue mani e le stringo al mio petto. Tento di riempire le mie braccia della tua bellezza…». Attraverso la metafora delle mani e la forza della musica, tra i lasciti dell’eredità di David Maria Turoldo, la contemplazione e la lotta, la solidarietà e il dialogo, passi indispensabili per una convivenza non solo possibile ma felice e fruttuosa. «Forse è la musica, il suono puro che ti conviene: cantare con libera voce e lasciare i salmi tumultuosi perché non vale dire quanto di te soffersi…» (O sensi miei…, p. 628).

 L’ideale di tutta la mia vita
fu quello di servire e testimoniare
tanto da fratello di chi crede
quanto da fratello di chi cerca.

    D. m. Turoldo

A oltre XX anni dalla morte di padre David Maria Turoldo, avvenuta il 6 febbraio 1992, vi proponiamo l’articolo-intervista di Roberto Vinco al poeta friulano della povera gente, pubblicata da un quotidiano locale il 1 novembre 1991 e presentata anche nel corso dell’annuale incontro-memoriale su Turoldo che si tiene alla Pieve di Colognola ai Colli (Vr). Una intervista per tutti, credenti e non credenti, sul dolore, la malattia, la sofferenza e la morte. 

IL POETA DI DIO SFIDA LA MORTE
Intervista a Padre Davide Maria Turoldo sul dolore, la malattia, la sofferenza e la morte, di Roberto Vinco

(L’intervista è stata pubblicata sul giornale «Il Gazzettino» – edizione di Verona «Il nuovo Veronese» del 1 novembre 1991)

Gli avevano dato non più di sei mesi di vita. Lo avevano operato ad un tumore all’intestino. Dal punto di vista medico non c’era nessuna speranza. Dopo tre anni, padre David Maria Turoldo, il poeta di Dio, il monaco ribelle ma fedele, lo abbiamo risentito qualche settimana fa (settembre 1991, vedi foto) ancora una volta in Arena con i «Beati i costruttori di pace» a cantare la sua speranza di pace e il suo amore per l’uomo.
Dopo ben tre operazioni, il corpo smagrito, visibilmente stremato dalla malattia, non ha ancora perso il suo vigore e la sua straordinaria forza e carica umana. Ha vissuto sempre “fuori delle mura”, sempre in diaspora, sempre in cammino… in conflitto con il potere, con le istituzioni, con la Chiesa. La vita di Turoldo è insieme un canto e un pianto. Il canto di chi crede e il pianto di chi soffre.
A Verona padre David ha molti amici. Come monaco servita è stato ospite per alcuni mesi della comunità dei Servi di Maria della chiesa cittadina di Santa Maria della Scala. Proprio con un gruppo di amici veronesi siamo andati a trovarlo nella sua meravigliosa abbazia di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo. É visibilmente stanco, ma quando incontra gli amici, quasi si ricarica, recupera tutte le sue antiche forze, ritrova tutto il suo profondo spirito profetico. Della sua malattia parla con serenità. Il suo tumore lo chiama «Il drago che si è insediato nel ventre». Con il cancro ha imparato a lottare e a convivere.
«La mia malattia – ci dice – è un’esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, è crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo». Da tre anni sfida con il canto e la poesia anche la morte, accettata con serenità come l’altra faccia della vita.
«Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia».
Il tema di tutta la sua poesia è Dio. Un Dio che non è ricerca astratta, ma ricerca che si coniuga con la vita, con la realtà umana di tutti i giorni. Un Dio che non ti dà sicurezze e certezze, ma la speranza di guardare sempre avanti con coraggio. Un Dio che non è lì per controllarti e punirti, ma un Dio che ti è vicino, ti capisce, ti ascolta, ti ama.

– Ma come si può conciliare questo Dio con la sofferenza, con la malattia?

«Io penso che il dolore, la malattia, la morte, non siano soltanto il dramma dell’uomo, ma anche il dramma di Dio».

– In che senso?

«Nel senso che il limite di Dio è la libertà dell’uomo. Mi spiego. Dio ha un amore tale per l’uomo, per la sua creatura, che non può non lasciarla libera. Se accettiamo un Dio che vuole che l’ordine della creazione e della storia abbiano una loro valenza autonoma; se Dio vuole che gli uomini siano liberi: liberi di usare e di abusare, liberi di fare il bene o di fare il male, Dio, per primo, deve rispettare questa autonomia e questa libertà. Perciò se tu vuoi che per ogni caso Dio intervenga, tu annulli quello che si chiama il gioco delle cause seconde, gli spazi per la libertà umana».

– Ma allora, secondo questa logica, a Dio non si può nemmeno chiedere la guarigione.

«Io non penso che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca. Proprio perché è impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. É impensabile che il Dio di Gesù Cristo voglia il cancro. Se fosse stato veramente Dio a mandarmi il tumore, come potrei curarmi? Dovrei andare contro la volontà di Dio».

– Allora sbagliano quelli che pregano perché Dio li guarisca?

«Li posso capire, ma solo a livello umano. Lo posso ammettere come sfogo necessario, come rimedio all’angoscia. É stata anche per me una scoperta di questi anni di malattia, una scoperta terribile, ma consolante».

– E nei momenti di sconforto, di disperazione, quando si rivolge a Dio, cosa gli dice, cosa gli chiede?

«Io non prego perché Dio intervenga. Chiedo la forza di capire, di accettare, di sperare. Io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti insieme, le cose. Infatti se, diversamente, Dio dovesse intervenire, perché dovrebbe intervenire solo per me, guarire solo me, e non guarire il bambino handicappato, il fratello che magari è in uno stato di sofferenza e di disperazione peggiore del mio? Perché Dio dovrebbe fare queste preferenze? Perché dire: Dio mi ha voluto bene, il cancro non ha colpito me ma il mio vicino! E allora: era un Dio che non voleva bene al mio vicino? E se Dio intervenisse per tutti e sempre, non sarebbe un por fine al libero gioco delle forze e dell’ordine della creazione? Per questo per me Dio non è mai colpevole. Egli non può e non deve intervenire. Diversamente, se potendo non intervenisse, sarebbe un Dio che si diverte davanti a troppe sofferenze incredibili e inammissibili. Ecco perché, come dicevo prima, il dramma della malattia, della sofferenza e della morte è anche il dramma di Dio».

– Di fronte al dolore quindi, anche per un credente, ci può essere solo rassegnazione?

«Non rassegnazione, ma pazienza, che è tutt’altra cosa. Per il credente l’unica risposta al dolore e alla morte è la resurrezione di Cristo. La sua resurrezione infatti è la vendetta di Dio sul male del mondo. Quindi la risposta migliore è sempre quella di Cristo, che alla fine dice: «Padre, nelle tue meni rimetto il mio spirito». Una risposta però da non dire solo alla fine, ma dirla sempre; e forse così si riuscirà ad essere perfino “beati nel pianto”».

– Spesso ci si trova di fronte ad amici colpiti da qualche malattia grave o dalla morte di qualche persona cara. Cosa si può dire in questi casi?

«Ci sono dolori per cui non esistono parole in nessun dizionario. Dolori e angosce davanti alle quali la risposta migliore è il silenzio. Di fronte a certe tragedie, a certe sofferenze non servono né filosofie, né prediche.E il rimedio migliore, dico rimedio, non risposta, sarà semplicemente la tua partecipazione di amico, la tua presenza amorosa, il tuo «essere con» la persona sofferente, l’ammalato. La migliore risposta pratica quindi è «l’essere con», è il silenzio, l’accettazione per quanto possibile. Anche se questo non deve significare rinuncia a lottare, a cercare ogni sforzo per guarire. L’importante è non darsi mai per vinti e ricominciare ogni volta da capo». 

 

FA’ DI ME UN FIUME

Fa’di me, Signore, un fiume
un fiume ampio, disteso,
che dal Monte si snodi flessuoso:
e poi si allarghi sulla pianura
e sfoci e ritorni a perdersi
dolcemente nel tuo mare.
Un fiume che raccolga tutte le acque
della tua divina Ispirazione,
le impetuose acque cui si dissetarono
i profeti, le calme
amate acque della Vergine e dei santi:
l’acqua della fonte zampillante…
E sia un unico fiume: il fiume
irrorato dal fiotto
ininterrotto di sangue e acqua
che scorre dalla ferita
sempre rossa del tuo costato.
E raccolga l’infinito sangue
che scende dagl’innumeri patiboli,
il pianto muto delle madri
dietro gli stendardi dei figli uccisi
– nuove icone sul mondo -,
in processione da capitale a capitale.
Sia così, Signore!

NOTA BIOGRAFICA

PADRE DAVID MARIA TUROLDO
Un profeta che canta la speranza degli ultimi.

Nato a Coderno nel Friuli nel 1916, David Maria Turoldo, diventa sacerdote e frate dei Servi di Maria. Di origini contadine, si laurea in filosofia alla Università Cattolica di Milano con una tesi su «Per una ontologia dell’uomo» discussa con il filosofo Gustavo Bontadini. Per 15 anni vive a Milano nel convento di San Carlo. Partecipa alla Resistenza fondando un giornale clandestino: «L’uomo».
Successivamente, insieme con Padre Camillo De Piaz, dà il via al Centro Culturale «Corsia dei Servi» a Milano. Divennero famose la sue omelie tenute per dieci anni dal 1943 al 1953 nel Duomo di Milano. Strinse amicizia e collaborazione con i protagonisti della vita culturale ed ecclesiale degli anni del concilio Vaticano II°. In particolare con don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, don Zeno Saltini, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, il rettore della Cattolica Giorgio Lazzati.
Si ritira poi nel convento di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, e di lì ha diretto fino alla morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1992, il Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII. Le sue opere sono principalmente di poesia, di teatro, di saggistica e di riflessione biblico-teologica. Ha scritto anche lavori di drammaturgia, sacre rappresentazioni contemporanee, come «La terra non sarà distrutta» del ’51, «La passione di san Lorenzo» del ’78, rappresentata anche a San Miniato, un «Oratorio in memoria di Frate Francesco» dell’82 e «La morte ha paura» e «Sul monte la morte» entrambe dell’83.
Ha inoltre scritto la sceneggiatura di un film sul suo Friuli, «Gli ultimi», realizzato nel ’62 per la regia di Vito Pandolfi. Come traduttore ha dato alle stampe una versione esemplare dei Salmi del breviario e della liturgia dal titolo «La chiesa che canta», in sette volumi, edizioni Dehoniane. Con il biblista Gianfranco Ravasi ha curato una traduzione e commento ai Salmi pubblicata da San Paolo «Lungo i fiumi. I Salmi» 1987. Moltissime le sue opere di riflessione biblico-teologica. Tra queste: «Non hanno più vino», «Tempo dello spirito», «Laudario della Vergine», «Bibbia storia dell’uomo», «Il diavolo sul pinnacolo».
Le sue poesie dal 1948 al 1988 sono state raccolte nel volume pubblicato da Rizzoli, «Oh sensi miei.» (1990). L’editrice Garzanti ha pubblicato nel 1991 «Canti Ultimi» e nel 1992 «Mie notti con Qoelet». Per le Edizioni Piemme è stato pubblicato nel 1991 «Anche Dio è infelice», nel 1992 «Il fuoco di Elia profeta», nel 1994 «Dialogo tra cielo e terra» nel 1995 «Inquietudine dell’Universo», nel 1996 «Oltre la foresta delle fedi».

 


 


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La Candelora

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2 Febbraio  “LA CANDELORA”

 Buon Compleanno Elena!!!


            Il 2 Febbraio, nacque la mia  Elena e due anni dopo, il mio primo figlio maschio, di nome Marco, che volava via troppo presto e che oggi penso come un angelo protettore della mia famiglia. Tutti i miei figli, anche l’ultimo, Andrea, che se andò a 22 anni, sono nati in un giorno dedicato alla Madonna. Mi è stato perciò sempre caro questo anniversario legato alla profezia di Simeone.

Vediamolo insieme. Il Bambino aveva quaranta giorni quando fu portato nel Tempio dove lo ricevette il vecchio Simeone nelle sue braccia e gli apparve il futuro che comunicò a Maria: “ Vedi, questo Bambino è destinato ad essere causa e rovina di molti in  Israele e a diventare un segno di contraddizione. A te stessa una spada trafiggerà l’anima!”. (Lc 2,34-35).

Pensiamo a quello che avrà provato Maria che fin dall’inizio della vita del suo bambino, ha sofferto per la profanazione della giustizia, per l’amore offeso di Suo Figlio. Anche noi abbiamo pianto per leggi violate, per il nostro amore calpestato, per la nostra sventura, per la morte dei nostri cari. Vediamo di fare come Maria, il cui dolore fu fecondo, perché santo. Il mondo e l’umanità, in quest’epoca di contraddizioni viene redento anche attraverso la nostra sofferenza ed il nostro dolore sarà fecondo se si tramuterà nell’amore per il prossimo, nella compassione per la miseria degli altri, nella sofferenza per la giustizia e l’onestà. Non ci sarà nulla di amaro e terribile allora, ma qualcosa di straordinaria dolcezza.

Noi accenderemo i nostri ceri benedetti e, per ogni luce, pensiamo ai nostri Cari, Luce radiosa di conforto, di speranza e d’amore.

Oggi Elena è una donna, una piccola grande madre anche lei … Ho fermato questa istantanea sul cellulare e ne ho fatto un quadretto perché mi dava l’idea di una “madonnina”. Ora Elena sa cosa vuol dire essere “mamma”. Questa parola magica che si attende pronunciare dalle labbra del proprio piccolo quando inizia a balbettare, le fa tremare il cuore ogni qualvolta lo raggiunge all’uscita dalla scuola ed io rivivo con lei gli stessi passi, le tante notti insonni, le prime parole scritte, le dolci attese, le prime inquietudini … La storia si ripete dalla nascita e ancora e ancora … perché le mamme ci sono, restano e rimarranno nel  presente, nel soccorso e nella memoria.

 LA MADONNA DELLA CANDELORA

 

La Candelora ha origine nel bacino del Mar Mediterraneo, come per Imloc e i Lupercalia anche la Candelora è la celebrazione dell’arrivo della Luce, della purificazione, della rinascita e la fertilità.
Inizialmente era celebrata il 14 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo l’Epifania ma, successivamente fu spostata al 2 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo il Natale.
Infatti la Candelora commemora la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria.
Era usanza ebraica che i bambini maschi fossero presentati e circoncisi al Tempio 40 giorni dopo la nascita, nella stessa occasione le madri erano purificate dal sague che le aveva tenute impure dopo il parto.

Si racconta che quando il bambino Gesù fu presentato al vecchio Simeone questi lo abbia chiamato luce per illuminare le genti.
Per questo motivo, il giorno della Candelora è usanza benedire le candele e i ceri che saranno adoperati durante l’anno nelle liturgie o per le offerte in chiesa o a casa propria.

 

Madonna della Candelora: opera della prima metà del Cinquecento.

(CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE – TOCCO DA CASAURIA – PE)

“Statua di legno, alta m.1,45. Rappresenta la Madonna della Candelora.  E’ seduta con le mani giunte e col Bambino ignudo sulle ginocchia , il quale,  col braccio sinistro, si appoggia a un cuscino ed ha la mano destra elevata, in atto di benedire. La scultura è dipinta. L’abito della Madonna è rosso, il fazzoletto che le copre il capo è giallo ed il manto che copre tutta la persona  è turchino con doratura nell’orlo. Ovale il viso della Madonna  ed anche del Bambino. Chi studia le diverse fasi dell’arte anche nei paesi remoti, non può trascurare l’opera di questo autore a me ignoto. Sta in una nicchia scavata nella parete a destra della stessa chiesa. La sua ubicazione non pare che sia originaria. E’ ben conservata. E’ opera del cinquecento inoltrato, la quale non pare sia stata presa in considerazione”.

 L’inquadramento prospettico della statua lignea  della Madonna della Candelora  in trono è una creazione artistica realizzata  a scopo devozionale. P.S. Iovenitti ne precisa molto bene tale funzione indicando che veniva  esposta il 2 febbraio giorno della purificazione della Madonna e, con benedizione e distribuzione di candele, lo stesso giorno, in penitenziale processione, la Madonna veniva portata dalla chiesa della Madonna delle Grazie a quella di S. Eustachio. La festa della Purificazione aveva particolare importanza per quelle donne che, desiderose di  prole, imploravano l’intercessione della Vergine. Le candele benedette erano apposte sia presso il letto, sia alle finestre la sera in segno di devozione e di protezione.

Tradizioni e proverbi

«Per la candlora, o ch’u piov o ch’u neva da l’inveren a sem fora; ma s’un piov, quaranta dè dl’inveren avem ancora.
(Per la Candelora, se piove o nevica, dall’inverno siamo fuori; ma se non piove, abbiamo ancora quaranta giorni di inverno.)
»

Antico Proverbio


Candelora

 

Presentazione di Gesù al Tampio – Fra Angelico
San Marco

La presentazione di Gesù al Tempio è il simbolo della Luce che ormai si presenta al mondo, la vittoria della luce sulle tenebre è fuori da ogni dubbio, cosí come è ormai evidente che le ore di luce aumentano di giorno in giorno. La vittoria della luce e l’approssimarsi del periodo luminoso è in questo mito sottolineata dalle parole del vecchio Simeone che rappresenta appunto l’inverno, il vecchio, il passato che annuncia il nuovo.

La purificazione di Maria dopo il parto è un chiaro riferimento alla fertilità ma anche al ritorno della madre Terra. Presso gli Ebrei, infatti, era usanza che nei 40 giorni precedenti la purificazione la madre e suo figlio vivessero isolati.
Con la purificazione Maria torna alle genti, torna al mondo dopo l’isolamento nella grotta-ventre-oltremondo. La verginità di Maria, nonostante la sua maternità, rappresenta la purezza della Madre Terra che ancora non conosce dolore e brutture, non conosce il superfluo, la civetteria, la cattiveria, non conosce né il bene né il male; ella conosce solo l’amore, un amore infinito, sconcertante, terribile e meraviglioso che feconda ogni cosa, che genera ogni cosa solo esistendo. Ama poiché non conosce altro modo d’essere, non può essere diversamente. Ella non fa mai del bene a nessuno, non fa mai del male a nessuno, ella Ama, costantemente.

Candelora – Festa di Mezzo Inverno!

La Candelora è una ricorrenza conosciuta in tutto il mondo e celebrata persino negli Stati Uniti. Ovunque la si festeggi e comunque la si chiami fin dalla Notte dei Tempi l’1 Febbraio è considerato il giorno in cui il Sole ritorna a vivere, la Terra torna giovane e fertile.
Le diverse celebrazioni della festa hanno tutte le stessa funzione, quella di prevedere l’esatto arrivo della Primavera attraverso l’interpretazione dei comportamenti degli animali e delle forze della Natura.

LA CANDELORA
di Justine Bellavita

         La Candelora, ricorda il rito di purificazione che la Vergine Maria seguì dopo aver dato alla luce Gesù Cristo, in conformità con la legge mosaica. Nel Levitico è infatti prescritto che ogni madre, che avesse dato alla luce un figlio maschio, sarebbe stata considerata impura per sette giorni, e che per altri trentatré non avrebbe dovuto partecipare a qualsiasi forma di culto. La commemorazione del rituale di purificazione, effettuato da Maria Vergine, dal Vicino Oriente passò a Roma, e, già dal VIII secolo d.C., la festa aveva raggiunto una solennità imponente. A Roma, nel Medioevo, si compiva una lunghissima processione che partiva da Sant’Adriano e attraversava i fori di Nerva e di Traiano, attraverso il colle Esquilino, per raggiungere infine la basilica di Santa Maria Maggiore. In tempi più recenti, la processione si accorciò, svolgendosi intorno alla Basilica di San Pietro. In quell’occasione, all’interno della Basilica, sull’altare venivano poste delle candele, con un fiocco di seta rosso e argento, e con lo stemma papale. Erano scelte tre di queste e la più piccola era consegnata al Papa, mentre le altre due andavano al diacono e al suddiacono ufficiali. Una volta benedetti i ceri, il Papa consegnava la sua candela al cameriere segreto, insieme con il paramano di seta bianca, che gli era servito per proteggersi le mani dalla cera calda, e passava alla benedizione dei ceri.

In molte regioni italiane la Candelora viene ancora oggi rievocata attraverso la messa in scena della Madonna con Gesù e San Simeone. A Chiaromonte, in Sicilia, alla vigilia della festa, le donne del paese effettuavano una processione che le portava in cima alla montagna dove si purificavano bagnandosi con la rugiada. Nel resto d’Italia, la festa della Candelora resta legata ai ceri benedertti. Questi ceri vengono custoditi nelle case, e si ritiene tengano lontani gli influssi maligni. In alcuni paesi costieri si riteneva che i ceri benedetti la Candelora servissero a ritrovare gli annegati. Gettati nell’acqua si sarebbero fermati dove si trovava il corpo dell’annegato.

          

Edda CattaniLa Candelora
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Dal diario di un malato.

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Dal diario di un malato

Tutto me stesso prima di morire.

Un gentile navigatore del nostro sito che sempre porge un erudito contributo alle nostre modeste pagine, mi ha inviato un capitolo tratto da un libro del giornalista Carlo Massa. L’autore muore il 19 agosto 2007 e le ultime note sono del 16. Quando il tumore si fa davvero “ingombrante”, l’autore decide di scrivere di questo “ingombro”, di raccontare sia i nudi fatti (gli ospedali, i medici, le cure), sia la vicenda interiore fatta di speranze e di paure, d”indignazione e di riflessione sulla figura e sul trattamento del “paziente”. Nel tempo, questi temi restano sullo sfondo e viene sempre più in primo piano l’interrogazione della morte e della malattia, come problemi esistenziali, e la relazione con l’altro e con se stessi, come palestra dove fino all’ultimo è doveroso, opportuno, significativo esercitarsi. Forte è il richiamo etico: di come si debba, si possa, si cerchi di vivere e morire secondo un’etica forte, densa di valori e di stoicismo.

Ringrazio P.V. per questo prezioso inserto che pubblico con emozione e gradimento, in quanto tanti sono stati gli spunti per meditare sul mio percorso, sulla realtà della vita e della morte, e come dalla sofferenza possa nascere il grande bisogno di “amare”.

La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravedere la morte. Essa può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sè, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma può anche rendere la persona più  matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che è essenziale e far tornare la persona a Dio, il solo che può guarirla da tutto.

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Ho paura, sono felice. Sono felice, ho paura. L’una cosa marcia di pari passo con l’altra.

È anche in qual­che modo visibile fisicamente. Da una parte la Bestia avanza, silenziosa e sotterranea – in buona parte sot­tocute come una talpa maligna che scava notte e gior­no, colpisce improvvisa, provoca danni più o meno rovinosi. Ho perso l’occhio e l’orecchio sinistri e sen­to che fra non molto, se non cambia qualcosa, toc­cherà al braccio. Dall’altra parte, l’appetito da tempo è tornato, mangio, provo un piacere infantile nel buon cibo, ho ripreso a passeggiare, godo dell’aria, degli alberi, del verso degli uccelli, della terra dei parchi che calpesto, dell’odore della pioggia.

Godo degli altri, specie di quelli che, standomi più vicini, mostrano attenzioni che mi riscaldano e che provocano anche in loro dei cambiamenti.

Sono loro grato perché non c’è pietismo, non c’è retorica, non c’è nessuna gara di buoni sentimenti. Tant’è che la vita continua anche con i fastidi quotidiani, con le piccole incomprensioni, con gli scontri attorno ai vecchi motivi del contendere che, in qual­che modo, mi danno la rassicurante conferma di non essere stato isolato sotto una campana di vetro.

Godo di tutto questo come di una scoperta, come di un nuovo inizio, pur sapendo che è una fine.

Com’è possibile che ciò avvenga? Non lo so e mi limito a constatarlo. Mi limito a rimanere aderente alla mia esperienza, senza tentare di razionalizzare né dì teorizzare niente. Sento semplicemente che il mio corpo e la mia mente sono campo di battaglia di due opposte forze che, poi, opposte forse non sono ma, semplicemente le facce della stessa medaglia. Diffici­le da accettare ma è così.

Mi viene spesso in niente l’immagine dì un film che ho già precedentemente citato e che, più passa il tempo, più mi appare come una metafora perfetta della mia condizione: la partita a scacchi che il cava­liere al ritorno dalle crociate ingaggia con la morte, nel Settimo sigillo di Bergman. L’uomo sa che per­derà, ma tenta ugualmente, chiedendo al suo avver­sario, in caso di vittoria, una semplice dilazione per avere il tempo di rivedere la donna amata. In realtà è il tempo stesso della partita il gioco degli scacchi, si sa, può anche durare molto a lungo per legittime pause – a concedere al cavaliere ciò che vuole. In una notte di orrore e di magia riscoprirà che l’unico sen­so che offre la vita è l’amore. L’amore tra esseri uma­ni e per la natura, con il mistero che sottende. Que­sta scoperta o ri-scoperta fa in realtà di lui il vincito­re della partita.

Anch’io sono impegnato in una lunga partita a scacchi, anch’io so di perdere, ma, avendo accettato di giocarla, sto scoprendo l’amore così come non mi era mai capitato prima. Un amore di cui mi viene continuamente di parlare perché mi sembra che ri­vesta caratteristiche nuove e per me sconosciute. Un amore che, giorno dopo giorno, cresce attorno a me, suscitato anche da una mia attenzione per gli al­tri che non è mai stata così forte. Un amore che ge­nera amore, al di là della paura e della morte o for­se proprio perché tutte le persone che mi amano ti­fano per me in questa partita, iniziando a compren­dere che la vera posta in gioco non è la mia soprav­vivenza fisica.

Da qui e solo da qui scaturisce la forza che mi aiu­ta a combattere la paura, una paura che non si può mai sconfiggere una volta per sempre e che, quando meno me l’aspetto, mi afferra alla gola. E questa for­za che cresce anch’essa parallela, sempre più produ­ce gioia perché mi allontana dall’incubo nel quale sa­rei immerso se non avessi trovato queste risorse.

L’incubo che vedo vivere ad altri compagni di strada più sfortunati.

Mi lascio andare alla corrente, per così dire, alla corrente nella quale confluisce il mio istinto vitale e che mi suggerisce di non oppormi a qualcosa che ap­pare ineluttabile, perché il dolore nasce essenzial­mente dalla non accettazione, dalla recriminazione, dalla rabbiosa rivolta dell’io che tende a non vedere limiti all’appagamento dei propri desideri e bisogni.

Quante volte nel corso della vita ho remato con­tro, facendomi del male e adesso mi appare improv­visamente liberatoria questa mia nuova visione delle cose. Il fiume che va verso il mare ed io con esso. Non voglio sottraimi ad un inevitabile ciclo in cui i binomi si incontrano e si fondono, dolore e gioia, vi­ta e morte. Tutto qua.

Suggestioni poetiche di una mente che “vuole”, che “deve” trovare pace, per non farsi travolgere dal­l’angoscia e dall’orrore? Tutto è possibile, natural­mente, per chi si esercita come me da tanto tempo a stare in guardia contro le suggestioni, le mistificazio­ni e i deliri della mente. Tutto è possibile quando, in qualche modo, c’è “convenienza” a pensare una cosa piuttosto che un’altra. Quando, principalmente, non c’è autorità esterna a fornire appoggio o conferma.

Eppure una sorta di istinto vitale, una voce che parte dal profondo, una voce che rispecchia una “sua” verità mi suggerisce dì andare avanti così, di seguire con calma e con serenità ciò che il cuore, pri­ma della mente, mi suggerisce. Confido nel fatto, tut­to umano, di essere stato riconosciuto sino ad oggi come intellettualmente onesto. È sufficiente, non è sufficiente? Me Io farò bastare.

Riflettevo in questi giorni sul fatto che il cortisone

che mi stanno somministrando e che è alla base della mia “rinascita” fisica ha, come tutti Ì medicinali, del­le pesanti controindicazioni. Si può fare finché i van­taggi superano gli svantaggi, mi ha spiegato il mio buon medico. Ma non è così per ogni cosa della vita? Non hanno tutte le cose belle sempre delle “con­troindicazioni”? Che forse l’amore stesso di una ma­dre – per dire il massimo della bellezza e della dedi­zione – non ne ha? E, se così accade per tutto ciò che ci circonda, non ci sarà in questo un significato profondo da cogliere e sul quale riflettere?

Questa mia lotta quotidiana contro il dolore e le menomazioni che avanzano, contro la paura che tut­to ciò provoca, contro la morte, in definitiva, che diventa un’immagine sempre più concreta, rafforza in me la capacità e la voglia di resistere. L’amore che ve­do negli occhi, prima ancora che nelle parole, di chi mi sta vicino, si trasforma lentamente in gioia e, a tratti, inspiegabilmente, in allegria. In paradossale voglia di giocare, di lasciarmi andare, di far emergere quell’io-bambino soffocato da anni di “maturità” e che adesso, timidamente e con imbarazzo, bussa alla porta.

Qualche sera fa, mentre ero già a letto e mia figlia mi consolava per un improvviso attacco di dolore, ho visto nei suoi occhi un sorriso diverso dal solito. Un sorriso se­reno e tranquillo di chi ha intuito che ce la facevo a vin­cere quel momento e che, per questo, era felice.

Vivo, insomma. Essendomi adattato anche stavol­ta alle nuove botte, ai nuovi colpi di catapulta – per continuare nella metafora della fortezza assediata –che mi stanno smantellando pezzo a pezzo.

Vivo anche e sempre con la curiosità delle fron­tiere che continuamente sono costretto ad attraversa­re in una geografia del dolore e della paura che non avrei creduto possibile affrontare.

La prua di una nave che scompare sotto ondate di schiuma in un mare affollato di giganteschi iceberg, un gruppo di inuit siberiani che si intravedono dietro a una montagna di aringhe, cavalli ai galoppo in una nuvola di polvere, un raggio di sole carico di pulvi­scolo che fende l’ombra di un vicolo della vecchia Istanbul, un bambino che mi osserva dietro un vetro rigato dalla pioggia, immagini, frammenti di immagi­ni che si mescolano a una fitta di dolore, a un mo­mento di paura. La malattia è per me anche questo, un frequente contrappunto tra ciò che il mio vissuto mi offre di bello e di vitale e la negatività che mi si ro­vescia contro, in un assalto sempre più serrato. È come se, nel momento in cui il mio essere rischia di es­sere travolto dalla sua fragilità, gli venisse in soccor­so con queste immagini la sua parte onirica. Quella parte di sogno-avventura che, in un periodo della mia vita, sono riuscito a realizzare. Quel sogno che ha risvegliato ogni volta il mio io-bambino: la molla principale per rispondere all’insorgere della malattia con la scrittura. Scrittura terapeutica senz’altro, per­ché senza di essa non sarei riuscito a vivere bene que­sti ultimi anni e a fare il percorso che credo di aver fatto. Ed è così che mi viene da pensare, con emozio­ne, che dal sogno di un bambino ormai alle soglie della morte si è dipanato un filo lungo una vita che ha prodotto realtà capaci di contrastarla.

Avevo lasciato da qualche giorno queste pagine per tornarci ancora sopra, quando la situazione è ul­teriormente peggiorata. Tanto da rendere consiglia­bile un breve ricovero all ‘hospìce dove mi curano amorevolmente. Oltre ad essermi indebolito tanto da fare molta fatica nel sollevarmi da solo, oggi la bocca mi si è ulteriormente chiusa. Faccio sempre più fati­ca a mangiare e, quindi, anche a parlare. Ma la voglia di scrivere non mi abbandona e vorrei testimoniarla finché è possibile. Perché è in questo scrivere il mio conforto e la mia forza, la sicurezza di sapere che non resterò veramente solo finché sarò in grado di comu­nicare. Il peggio è tutto avanti a me e allora ho biso­gno di pensare alle persone a me care che mi stanno intorno perché è da loro che nasce in definitiva il nu­trimento della mia scrittura. Da mio figlio che a giorni si laurea, da mia figlia che ha finito oggi la sua ses­sione estiva di esami, dalla mia ex-compagna che mi sta vicino e mi legge con amore un libro, dalla mia ex- moglie che mi ha riempito il freezer con i suoi buoni piatti. Dai miei amici tutti che telefonano e mi vengono a trovare e mi raccontano storie. Da tutte queste persone care insomma che mi danno il senso prezioso di una vita che continua, così grande e ge­nerosa da accogliere come sua “logica” componente anche la mia morte.

 


13 luglio 2007

 

 

 

 

 

Edda CattaniDal diario di un malato.
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E non finisce la sofferenza

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E non finisce la sofferenza…

Per non dimenticare…

Terremoto: l’hotel Rigopiano travolto dalla slavina.

 Rigopiano

É il tempo della solidarietà. Ad ognuno di noi è richiesto un gesto concreto.
“È più facile meditare che fare effettivamente qualcosa per gli altri. Limitarsi a meditare sulla compassione equivale a optare per l’opzione passiva. La nostra meditazione dovrebbe creare la base per l’azione, per cogliere l’opportunità di fare qualcosa.”
(Dalai Lama)

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L’Aquila, 19 gennaio 2017 – Terremoto e maltempo. Una combinazione che si è rilevata fatale per il Centro Italia, con paesi sommersi dalla neve e valanghe causate con tutta probabilità dagli eventi sismici. E’ il caso di quanto avvenuto all’hotel Rigopiano, nel comune di Farindola (Pescara), travolto da una slavina ieri sera e dove i primi soccorritori sono riusciti ad arrivare con gli sci soltanto alle 4.30 del mattino. Tre le vittime finora recuperate, ma il bilancio è destinato a crescere perché nella struttura si trovavano circa 30 persone tra personale e clienti, anche bambini. Messe in salvo due persone, Giampiero Parete e Fabio Salzetta, sfuggite alla massa di neve staccatasi probabilmente a causa delle scosse sismiche, perché all’esterno della struttura. Sembra infatti che gli ospiti fossero pronti a lasciare l’albergo. Drammatico il racconto dei soccorritori:

vigili

 “L’albergo è stato spazzato via, è rimasto in piedi solo un pezzetto. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati. Ci sono materassi trascinati a centinaia di metri da quella che era la struttura”.

Edda CattaniE non finisce la sofferenza
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Il funambolo

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Sul filo

funambolo Dehò

(Matteo 4,12-23)
III^ Tempo Ordinario 

Neanche un versetto e tutta la storia di Giovanni Battista si arresta, si ferma. Il grande profeta è ridotto a notizia che arriva a Gesù, un filo commosso di voce: Giovanni è stato arrestato. Giovanni è stato consegnato al potere, alla banalità del male, alla stupidità degli esseri umani. Il deserto è chiuso in gabbia, la voce zittita, il fiume non scorre più. Gesù non dice nulla, ascolta e cammina, disegna sulla mappa una curva inaspettata e decide di raccogliere definitivamente l’eredità. Secondo qualcuno questo è il momento in cui lo stile della predicazione cambia, la durezza di Giovanni lascia il posto alla misericordia del Messia. Probabilmente è vero ma io credo che ci sia anche, nel silenzio commosso di Gesù, la coscienza di essere chiamato a raccogliere una fedeltà alla vita che Gesù riconosce al profeta. Perché Giovanni ha accettato di perdere tutto, perché Giovanni morirà per giochi perversi di potere, perché Giovanni è spogliato e solo. Perché Giovanni è consegnato e sceglie di andare fino in fondo. Perché è quando non hai più niente che puoi dare tutto. Quando sei davvero povero, quando non sei più il profeta acclamato, o il rivoluzionario temuto, quando hai perso è allora che puoi dare la vita. Gesù vede e si riconosce e decide.

Gesù raccoglie questa vita consegnata e inizia a consegnare definitivamente la sua. Cominciando da lontano, dalla Galilea, luogo di frontiera, regione dove le fedi e le culture si intrecciano, dove la religione è libera dalla sterilità camuffata da perfezione del Tempio. Luogo sporcato dalla vita, luogo che espone a tutte le incomprensioni possibili, luogo vivo e fertile, luogo complesso e difficile da decifrare, luogo ventre di tutte le fami del mondo, luogo incoerente e immaturo, regione in cui si è minoranza tra le minoranze: Gesù parte da lì. E a me commuove che la Galilea sia molto simile a questo nostro mondo postmoderno che come comunità cristiana continuiamo a criticare.

Gesù sceglie il confine e nella terra di confine decide di camminare la soglia: tra terra e mare, come a seguire un filo teso sopra l’Abisso, come a dire che la vita la assumi esponendoti al rischio di perderti: tra terra e mare, luce e tenebre, vita e morte. Cammina Gesù, funambolo dell’Infinito, e da quella nuova prospettiva fa scivolare verso l’umanità il suo sguardo profondo. Sguardo di chi conosce le tenebre del cuore e non le condanna, sguardo di chi è abitato dalla Luce ma non la impone. Forse i primi discepoli si sono fidati di Gesù perché in quello sguardo hanno sentito Gesù camminare anche dentro le loro di storie, da funambolo, con leggerezza e grazia. Perché ogni uomo è terra di confine: luce e tenebre, vita e morte, Gesù camminando con grazia e leggerezza ha guardato con amore dentro le tenebre dell’uomo e ha saputo proporre una fune tesa da iniziare a camminare. Stavano gettando le reti Simone e Andrea e sempre le avrebbero lanciate, giorno dopo giorno, di sopravvivenza in sopravvivenza ma quel senso di vita che non basta, quel senso di vuoto che nausea, quel bisogno di dare un senso ultimo alla propria storia, quello le reti non lo scalfiscono. La pesca permette alla vita di sporgersi un giorno ancora sul tempo ma il senso di tutto questo? E quando ti fermi a riparare le tue reti, quelle che portano addosso le ferite inevitabili del quotidiano quando, come Giacomo e Giovanni, ti ritrovi a tenere insieme una vita che continuamente ha solo bisogno di essere riparata e anche questo, lo sai, in una ripetizione senza fine… se incroci uno sguardo che ti accompagna a scendere dentro l’abisso che ti porti dentro tu le reti le lasci e anche il padre e le barche. Non perché vuoi fuggire ma perché hai sentito distintamente la possibilità di poter cominciare a desiderare la vita. Quello che ti porta a camminare in equilibrio tra la vita e la morte, quello che ti espone al rischio di perderti o a quello di trovarti è la scoperta di una promessa nascosta dentro lo spazio e il tempo che ti è stato chiesto di abitare. Gesù, funambolo della vita, con uno sguardo, ha promesso ai suoi un cammino per uscire dalle tenebre che ognuno si porta dentro. Cammino dal prezzo altissimo, cammino di tutto o niente: perdere la vita per trovarla. Si inizia lasciando le reti e si finisce lasciando la vita: solo ed esclusivamente per trovarsi. Per arrivare finalmente a guardarsi come Dio ci guarda. Gli occhi di Gesù sono inizio e compimento.

Camminano dietro di lui i discepoli, su quel filo teso tra vita e morte, tra mare e deserto, profumo di Esodo e libertà. Dietro di lui, pronti a cadere per lasciarsi rialzare. Nessuna preparazione previa, nessuna annunciazione, nessuna nascita verginale, nessun angelo per loro a schiodarli dal quotidiano: solo un uomo che ha guardato le tenebre del cuore con grazia e senza condanna.

Un uomo che parlava di conversione e di un Regno vicino. La conversione erano quegli occhi profondi e misericordiosi, se lo seguivi era perché quegli occhi ti avevano incantato, che il desiderio di vita si risveglia solo se occhi luminosi ti toccano le corde del cuore, se senti misericordia invaderti, se ti senti amato, il resto viene dopo. Conversione è cambiare lo sguardo, il proprio sguardo sui fratelli. E in quegli occhi sentire che il Regno è presente, adesso. Non un paradiso terreste lasciato alle spalle e nemmeno un paradiso celeste appeso alla speranza, no, se ti senti guardato da Lui tu senti che quello è lo sguardo di Dio, che Dio ti ama così, adesso, e le tenebre del cuore non spariscono però non ti fanno più così paura. Quantomeno smetti di nasconderle. Dentro uno sguardo così potevi perfino piangere. Per questo lo seguirono.

“Pescatori di uomini”, non era chiara quella promessa. Si intuiva che non erano chiamati a diventare altro, che dovevano continuare a essere loro stessi, pescatori, che la storia non si cancella ma si prende tutta, per quello che è e per quello che è stata solo c’era urgenza di una nuova attenzione all’uomo. Dovevano imparare quello sguardo. Quello sguardo che li aveva conquistati e sedotti sarebbe dovuto entrare anche nei loro occhi. Gesù stava pescando uomini, stava pescando loro. Stava trascinando fuori dalle acque ferme e tenebrose della vita un gruppo di uomini perché anche loro, un giorno, fossero capaci di sguardi luminosi e profondi, di cammini funambolici sopra l’abisso, di consegna totale di sé. Il Vangelo di oggi è la descrizione dei primi passi sulla fune tesa che porta alla vita. La pagina di oggi è pagina da rileggere ogni volta che cadiamo e perdiamo il desiderio. Ogni volta che i nostri occhi si spengono e diventano increduli e si accontentano di riparare reti. Ogni volta che ci dimentichiamo come ci guarda Dio.

 

Edda CattaniIl funambolo
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Ho conosciuto il dolore

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Ho conosciuto il dolore

Ho conosciuto il dolore(di persona, s’intende)e lui mi ha conosciuto:siamo amici da sempre,io non l’ho mai perduto;lui tanto meno,che anzi si sente come finito se per un giorno solo,non mi vede o mi sente. Ho conosciuto il dolore e mi è sembrato ridicolo,quando gli dò di gomito,quando gli dico in faccia:”Ma a chi vuoi far paura?”Ho conosciuto il dolore:era il figlio malato,la ragazza perduta all’orizzonte,il sogno svanito,la miseria dopo l’avventura;era il brigante all’angolo che mi chiedeva la vita;era il presuntuoso tumore che mi porto dentro da una cellula impazzita;era Dio, che non c’era e giurava, ah se giurava, di esserci; la sconfitta patita,l’indifferenza del mondo alla fame,alla povertà, alla fatica; l’ho conosciuto e l’ho preso a colpi di canzoni e parole da farlo tremare,da farlo impallidire,da farlo tornare all’angolo,pieno di botte,che nemmeno il suo secondo sapeva più come farlo di nuovo salire sul ring,continuare a boxare.E, un giorno, l’ho fermato in un bar,che neanche lo conosceva la gente;l’ho fermato per dirgli:“Con me non puoi niente!”Ho conosciuto il dolore ed ho avuto pietà di lui,della sua solitudine,di questo cavolo di suo mestiere;l’ho guardato negli occhi,che sono voragini e strappi di sogni infranti:“Ti vuoi fermare un momento?”, gli ho chiesto,”Ti vuoi sedere?Vieni con me,andiamo insieme a bere. Hai fatto di tutto per disarmarmi la vita e non sai, non puoi sapere che mi passi come un’ombra sottile sfiorente,appena-appena toccante,e non hai vie d’uscita perché, nel cuore appreso,in questo attendere anche in un solo attimo,l’emozione di amici che partono,figli che nascono,sogni che corrono nel mio presente,io sono vivo e tu, mio dolore, non conti un cazzo di niente”

(Roberto Vecchioni)

 

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30 novembre : Sant’Andrea

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30 novembre : Sant’Andrea

L’avevamo chiamato “Andrea”…

L’avevamo chiamato Andrea perché questo avevano voluto le sorelle. Non c’era stato alcun dubbio, fin dall’inizio dell’attesa. A quel tempo non c’era l’ecografia che dava notizia del sesso del nascituro, ma c’era una certezza: sarebbe stato Andrea in ogni caso. Ricordo con tanta commozione quello che fu uno dei più bei momenti della mia vita, quando l’ostetrica lo sollevò tenendo per i piedini quel bambolotto urlante e disse: “E’ un bel maschione!” L’avevo desiderato fin dall’inizio un figlio maschio che supportasse la nostra famiglia in crescita e che potesse sostituire un giorno anche suo padre nella guida della famiglia. C’era chi mi diceva: “…quelli che si chiamano “Andrea” sono tutti bambini tremendi…” In verità Andrea era dolcissimo, ma chi l’avrebbe mai tenuto fermo? Ricordo quando con una mano mangiava il panino sfogliando il Topolino, mentre aveva il quaderno dei compiti e seguiva la televisione e ascoltava musica dallo stereo… Ci chiedevamo come facesse… eppure riusciva a fare tutto… Per lui non esistevano barriere, traguardi, sponde invalicabili… raggiungere l’obiettivo che si era prefisso era una meta obbligatoria. Quando chiedeva qualcosa (mai nulla di costoso o non lecito) ti tormentava finchè non l’avevi accontentato….Non ricordo, nemmeno da neonato di averlo mai sentito piangere… Non conosceva farmaci, era allergico agli antibiotici, non aveva un difetto fisico, non un foruncolo… gli era stata risparmiata anche l’eruzione cutanea della barba, propria degli adolescenti… Vestiva semplicemente: jeans, maglietta bianca e scarpe da tennis. Non chiedeva nulla di particolare e guardava con indulgenza le sorelle quando si provavano i vestiti. Quella macchina potente l’aveva presa usata, a rate che ogni mese versava puntualmente a suo padre e a me (eravamo noi i creditori) eppure non è mancato su quel bolide… ma da trasportato sulla macchina di un collega.

Quel 30 novembre del 1991 avevo deciso di fargli un regalo fuori dell’ordinario. Ormai aveva compiuto 22 anni, era ufficiale dell’esercito, iscritto a giurisprudenza, caposcuola guida della “Scuola Trasporti e Materiali” alla Caserma di Prato della Valle… non poteva più andare in giro con i giubbini logori quando cambiava l’uniforme… Uscii presto da scuola quella mattina e mi recai a Vicenza in un negozio di alta moda e comprai quello che doveva essere il suo primo soprabito. Era blue, un Berbery che con le sue larghe spalle e la sue altezza di m.1.92 l’avrebbero valorizzato ancor più… Mi batteva il cuore al pensiero che l’avrei visto finalmente con un abito “elegante”. Tornai a casa e lo distesi sul letto, mentre aspettavo la sua uscita dalla caserma e il suo ritorno a casa… ma quella sera tardava… ma perché tardava tanto!?! Arrivò oltre l’orario previsto… da qualche giorno non rispettava i tempi ed aveva uno sguardo velato, quasi perso nel vuoto… Mi abbracciò commosso quando vide la “sorpresa” quasi intenerito…”Vedi, così a capodanno potrai andare al ballo degli ufficiali ben vestito! Cerca una bella ragazza che ti accompagni!”  “Non so neanche se ci sarò a capodanno…! Non so cosa sia mamma, ma quando ci penso non mi sembra di dovere fare programmi!” ”Possibile? Ma non preoccuparmi con questi pensieri, hai tutta la vita davanti! Piuttosto mettilo stasera per uscire con i tuoi amici… è la tua festa!”  Non rispose… Fece la doccia e dopo poco lo sentii allontanarsi come aveva programmato per una “pizzata” con gli amici. Il mattino dopo mi disse: “Sai mamma… non potevo mettere quel cappotto ieri sera; tu non sai come veste Roby… ha uno spolverino leggero e scolorito… non ha soldi per comprarsene un altro…!” Avevo capito… al solito se avesse potuto avrebbe regalato all’amico il suo soprabito… Così era fatto Andrea e dovevo rassegnarmi all’idea che non l’avrei distolto dalla sua estrema generosità. Misi nell’armadio il capo e pensai che ormai erano prossime le feste e avrebbe avuto altre occasioni per indossarlo. Ma cinque giorni più avanti, non fece ritorno a casa dopo l’uscita in cui volle accontentare un amico giunto da Milano che gli mostrò la sua nuova auto… Tre ragazzi drogati, poveri ragazzi come tanti che viaggiano per le strade, li rincorsero e la macchina sbandando, centrò una grande quercia… Solo Andrea prese il colpo in testa… lui, vestito come sempre… se ne andò senza aver rinnovato il suo primo cappotto importante, senza che io abbia mai potuto vederlo vestito da “uomo”. Ragazzo sempre, il mio Ragazzo di Luce… con la sua maglietta bianca e i suoi jeans che portava a coprire tanta scultorea bellezza… ! “Come sei adesso Figlio mio… eri tanto bello!!!” gli dissi in una registrazione…”Di più, di più di prima… tanto! “ …fu la risposta!

rosa

I vostri figli
I vostri figli non sono figli vostri… sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.
Kahlil Gibran (Gibran Khalil Gibran)

Edda Cattani30 novembre : Sant’Andrea
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ARRIVEDERCI CATTOLICA 2024

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Ed ecco le immagini più significative che hanno fatto del nostro evento una manifestazione straordinaria!

Siamo tornati alle nostre case con bei ricordi e tanta speranza!
Grazie a tutti!
La HERMES ha prenotato il Centro Congressi Waldorf per l’ultimo week end di settembre 2022 e questo è già un riscontro al successo che l’evento ha ottenuto.
Condivido uno dei tanti commenti positivi :
“Sto tornando a casa e mi sento più ricca dentro dopo aver incontrato, ascoltato tanti genitori e ottimi relatori che probabilmente ci hanno aperto nuove strade nella consapevolezza della vita oltre la vita terrena. Prendo atto che bisogna lavorare molto su di noi per diventare migliori e vivere nella “benevolenza” (come ogni tanto diceva Edda Cattani), vivere come pellegrini del/nel mondo rispettando il creato e abbracciando ognuno il proprio dolore, di cui probabilmente avremmo fatto a meno, ma che ci ha resi più pensanti. GRAZIE a tutti.”

 

 

Edda CattaniARRIVEDERCI CATTOLICA 2024
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